Vai al contenuto

speranza

Esultare un po’ meno per il nuovo 416 ter contro il voto di scambio mafioso

Sento tutto intorno un certo fremito vittorioso per il nuovo testo sul voto di scambio politico mafioso. E’ vero che in questi anni tutti abbiamo contestato la vecchia norma del 1992 che prevedeva lo scambio di denaro per configurare il reato; consapevoli che difficilmente un politico offre denaro liquido per acquistare pacchetti di voti dalla criminalità organizzata quanto piuttosto una serie di regalìe attraverso appalti e consulenze (rimane la storica prestazione dell’Assessore della Regione Lombardia Zambetti che invece stabilì un prezzo per ogni voto, incapace com’era anche di fare il paramafioso oltre che il buon politico).

Il superamento del solo elemento del denaro (in cambio dell’erogazione di denaro o di altra utilità, nel nuovo articolo di legge) è sicuramente un grande passo avanti ma lascerei perdere, per ora, le grandi manifestazioni di giubilo.

Hanno ragione i magistrati che si soffermano sull’avverbio “consapevolmente”:

Il perché è presto detto. Quel “consapevolmente” comporta che l’inchiesta giudiziaria debba dimostrare l’effettiva “consapevolezza” dello scambio. La parola “procacciare” sostituisce l’originaria “promessa” che rendeva assai meglio il momento iniziale dello scambio. Critico anche il riferimento alle modalità del 416-bis perché ciò comporta un’azione violenta che potrebbe non esserci. Infine la pena, quei 10 anni anziché i 12 del 416-bis, col rischio che processi in corso per reati associativi – come Cosentino, Ferraro e Fabozzi a Napoli – vedano gli avvocati chiedere la riqualificazione del reato con un ricasco negativo sulla prescrizione.

Ha ragione Roberto Saviano quando dice:

I boss non fanno mai (tranne in rarissimi casi) campagna elettorale in prima persona, ed è quasi impossibile dimostrare che un elettore si è venduto il voto o ha votato sotto pressione. I clan sanno benissimo che dimostrare un voto comprato, condizionato, scambiato è impresa quasi impossibile per gli inquirenti, i quali invece, grazie alle intercettazioni e alle dichiarazioni dei pentiti, spesso riescono a provare che un patto è stato realmente stipulato tra boss e politico. E questo è il punto attorno a cui deve fondarsi una norma antimafia sullo scambio dei voti.

E trovo giusta la speranza (o l’ammonimento, forse) di Raffaele Cantone:

Siccome si è  atteso oltre vent’anni per modificare la norma – ed è difficile che una legge approvata possa poi essere di nuovo a breve modificata – quello che tutti auspichiamo è che non un qualsiasi nuovo testo dell’art. 416 ter sia varato ma che quello che sarà scelto sia davvero in grado di bloccare il turpe mercato del voto mafioso.

Io esulterei un po’ meno, in modo più composto per un’opportunità che andrebbe colta. Mica moderata.

Dove sono finito

Dove sono finito?  La domanda è un appunto sempre poco gentile. Vorrebbe avere il tono del ciaocomestai ma ha una curiosità che freme di sconfitta, di speranza solo per buona educazione. Dove sono finito, finisce che mi dico anch’io, o mio dio, dove sono finito per riflettere dentro gli occhi persi di una domanda come un miserere.

Ricordo che quando ero un ragazzino, dico appena iniziata la teatralità più come ispirazione che funzione,  che ci insegnavano a stare sulla corda. Dico, erano due gli esercizi più importanti: la barca e stare sulla corda. Sulla barca ci si spostava come sacchi sballottati per tenere in equilibrio la zattera immaginando un mare così stupido per le sue onde contrattempo. Invece la corda, lo stare sulla corda, intendo, era qualcosa come un insegnamento di vita: tenere sempre affamata la voglia e sempre tangibile l’ispirazione. Poi la corda in tensione l’ho ritrovata nella politica, banalizzata certo, e strumentale all’esibizionismo continuo. Stare, ma stare sui giornali piuttosto che esserci, esistere, ma esistere nell’elenco quotidiano dei megafoni, parlare, ma parlare dove ci si può notare, piuttosto zitto ma riconoscibile, riconoscibile mi raccomando, riconosciuto, la solita squallida litanìa dell’apparire come unico alimento.

Ecco, dove sono?

Qualche settimana fa, io non sono mai bravo con i tempi, dico ti richiamo e capace che passino anni come se fosse un mio diritto mettere in pausa il resto del mondo nei miei rapporti, come se il ritmo delle cose nostre fosse fuori dalle imposizioni del calendario, cronologicamente anarchico, una cosa del genere, insomma qualche settimana fa mi ha scritto una persona che conosco. E’ importante quello che mi ha scritto:

Stimavo Giulio, e tanto…
Ma la nuova vita da intellettuale/eremita, dissociato dal mondo e freddamente distaccato dalle persone che l’hanno seguito e sostenuto per ciò che faceva, l’ha reso una persona irriconoscibile.

Ecco, perché è importante quello che mi ha scritto: perché è la stessa domanda del doveseifinito ma più diretta, senza fronzoli, senza nemmeno il finto ardore di avere il tempo di aspettare una risposta. Scritto così, come un fulmen in clausola.

Se c’è una domanda che mi faccio tutte le mattine da almeno dieci anni è che lavoro faccio. Se devo tenere la corda tesa nel teatro, nella scrittura, nella politica e, se mi avanza anche il tempo, nel decidere dove finire. Devo pubblicare un libro all’anno? Devo avere ogni semestre una nuova “coraggiosa, civile e ben fatta” indignazione eroica da trasferire sul palcoscenico? Devo essere il pupazzetto onnipresente in tutti i circhi dell’antimafia? Devo essere il portatore sano della scelta giusta per la sinistra che vorremmo mentre ci si stringe il culo nell’essere democristiani già trentenni? Devo essere sempre ecumenico anche con le delusioni che ho dato e ricevuto? Sempre educato e gentile con gli arrivisti prodotti in serie che sanno benissimo dove arrivare e io non so nemmeno dove sono finito.

Sono finito a riprendermi un po’ tutti i pezzi che avevo lasciato in giro. Certi li ho ritrovati sottili e commoventi come i cocci riparabili di un vaso bellissimo, altri erano brandelli andati a male lasciti troppo in frigo, poi ci sono quelli che non ricordavo nemmeno come la caramella che ti salva il pomeriggio infilata nella piega cartonata della borsa, e poi mi sono messo a contarli. Sparpagliati sulla spiaggia. Anche senza spiaggia. Sono finito a rileggere il mio itinerario. Succede. Non credo sia una mania, una malattia, o un bel momento, non credo che capiti solo a me.

Scrivo. Erano anni che non riuscivo più a scrivere. Scrivo. Ora sì. Un romanzo che uscirà il prossimo anno che è il mio primogenito tra i miei romanzi. Scrivo uno spettacolo nuovo, mio, non solo mio, in cui provo a metterci il cuore.

Studio, studio senza volere credere che sia sano confondere le opinioni con gli insegnamenti e rinnamorandomi  dei fatti.

Recito. E mi sforzo di non prendermi mai troppo sul serio.

Seguo la politica. Sì. Da mediamente deluso senza troppi straniamenti. Ascolto, incontro e discuto con Pippo che riesce a tenere la barra diritta, mi incontro con le persone con cui sono politicamente cresciuto e progetto. Progettiamo. Senza preoccuparci di tenere tesa la corda. Così.

Per il resto sono finito a leggere da dove sono partito. E che la strada sia sempre quella.

Patria senza padri

Un estratto da Patria senza padri. Psicopatologia della politica italiana di Massimo Recalcati, libro-intervista curato da Christian Raimo. (via)

In un vecchio film di Woody Allen intitolato Il dittatore dello stato libero di Bananas si raccontano con sferzante ironia le vicende rocambolesche di un rivoluzionario che combatte l’ingiustizia della dittatura in nome della libertà e che finisce per indossare i panni di un dittatore spietato identico a quello che aveva combattuto. Ogni rivoluzione, ripeteva Lacan agli studenti del ’68, tende a ritornare al punto di partenza e la storia ce ne ha dato continue e drammatiche conferme. Anche Grillo si caratterizza per essere animato da quel fantasma di purezza che accompagna tutti i rivoluzionari più fondamentalisti. Egli proclama a gran voce la sua diversità assoluta dagli impuri: si colloca con forza fuori dal sistema, fuori dalle istituzioni, fuori dai circuiti mediatici, fuori da ogni gestione partitocratica del potere, dichiara che la sua persona e il suo movimento non hanno nulla da spartire con gli altri rappresentanti del popolo italiano che siedono in Parlamento, invoca una democrazia diretta resa possibile dalla potenza orizzontale della rete che renderebbe superflua ogni altra mediazione, ritiene che l’Italia debba uscire dall’Europa e dall’euro, giudica l’esistenza dei partiti un obbrobrio, proclama la trasparenza e la collegialità assoluta di ogni scelta politica del suo movimento, adotta l’insulto al posto del dialogo, pensa che dedicare la propria vita alla politica sia di per sé un fatto anomalo e sospetto che bisogna impedire, teorizza una permutazione rigida di tutti gli incarichi di rappresentanza; il suo giudizio sulle classi dirigenti del nostro paese fa di tutta l’erba un fascio ritenendo che sia da mandare in toto al macero, alimenta sdegnosamente l’odio verso la politica accusata di affarismo mercenario.

Tutti questi giudizi – senza entrare nel merito del loro contenuto, che si può anche in parte condividere – sono ispirati da un fantasma di purezza che troviamo al centro della vita psicologica degli adolescenti. Si riguardi la diretta della consultazione di Bersani con i rappresentanti del Movimento 5 Stelle al tempo del suo tentativo di costituzione del governo. Cosa vediamo? È il dialogo tra un padre in difficoltà e i suoi due figli adolescenti in piena rivendicazione protestataria. Mi è subito venuto alla mente Pastorale americana di Philip Roth, dove si racconta la storia tormentata del rapporto tra un padre – il mitico «svedese» – e una figlia ribelle, balbuziente, prima aderente a una banda di terroristi e poi a una setta religiosa che obbliga a portare una mascherina sul viso per non uccidere i microrganismi che popolano l’aria. Il dialogo tra loro è impossibile.

Il padre cerca di capire dove ha sbagliato e cosa può fare per cambiare la situazione, la figlia risponde a colpi di machete: sei tu che mi hai messa al mondo, non io; sei tu che hai creato questa situazione, non io; sei tu che vi devi porre rimedio, non io. Così agisce infatti la critica sterile dell’adolescente rivoltoso. Il mondo degli adulti è falso e impuro e merita solo di essere insultato. Ma quale mondo è possibile in alternativa? E, soprattutto, come costruirlo? Qui il fondamentalismo adolescenziale si ritira. La sua critica risulta impotente perché non è in grado di generare davvero un mondo diverso. Può solo chiamarsi fuori dalle responsabilità che scarica integralmente sull’Altro ribadendo la sua innocenza incontaminata… Ma di qui a dare vita a un autentico cambiamento ce ne passa, perché non c’è cambiamento autentico se non attraverso il rispetto delle generazioni che ci hanno preceduto, se non attraverso una soggettivazione, una riconquista dell’eredità che viene dall’Altro.

Questo fantasma di purezza che ha origine in una fissazione adolescenziale della vita si trova anche a fondamento di tutte le leadership totalitarie (non di quella berlusconiana, che gioca invece sul potere di attrazione della trasgressione perversa della Legge). E sappiamo bene dove esso conduce. Ne abbiamo avuti esempi atroci nel Novecento. Lo psicoanalista, per vizio professionale, guarda sempre con sospetto chi si ritiene portatore di istanze di purificazione della società, chi agisce in nome del bene. Lo psicoanalista sa che chi si ritiene puro non ha tolleranza verso la diversità. La purga staliniana era la metafora fisiologica radicale di questa intolleranza. Lo stato mentale di un movimento o di un partito si misura sempre dal modo in cui sa accogliere la dissidenza interna. Sa tenerne conto, valorizzarla, integrarla o agisce solo tramite meccanismi espulsivi? Sa garantire il diritto di parola, di obiezione, di opinione personale oppure procede eliminando l’anomalia, estromettendola con la forza dal suo corpo?

Grillo non ha esitazioni da questo punto di vista. Egli applica il regolamento escludendo l’eccezione, secondo il più puro spirito collettivistico. Salvo ribadire la propria posizione di eccezione. Le sue enunciazioni sono singolari, non vengono discusse prima, mentre quelle dei suoi adepti devono essere vagliate scrupolosamente dalla democrazia assoluta della rete. Si proibisce che ciascuno parli e pensi con la propria testa, si esige una sorveglianza su ogni rappresentante eletto perché non si stacchi dalle decisioni condivise. Ma l’aggressione al manifesto con il quale alcuni intellettuali si rivolgevano con speranza al Movimento 5 Stelle chiedendo che dialogasse con il centrosinistra o la minaccia di revocare l’articolo 67 della Costituzione sulla libertà di pensiero dei nostri nuovi rappresentanti parlamentari sono state prese di posizione discusse democraticamente? Come può essere credibile in fatto di democrazia un movimento che attribuisce al suo leader la posizione di incarnare una eccezione assoluta? In questo senso profondo il Movimento 5 Stelle è antipolitico. Il culto demagogico della trasparenza assoluta nasconde questa presenza antidemocratica di una leadership incondizionata. Se l’azione politica è la pazienza della traduzione, se non ammette tempi brevi, non contempla l’agire di Uno solo, il nuovo leader inneggia all’antipolitica come possibilità di avere una sola lingua – la sua – che non è necessario tradurre, ma solo applicare. Come non vedere che c’è un paradosso evidente tra l’esigenza che nessuno parli a partire dalla sua testa e le consultazioni collettive che dovrebbero rendere trasparente ogni atto e condivisa ogni presa di posizione?

Il leader anarchico e sovrano resta esterno al movimento che ha fondato. È la sua eccezione assoluta; egli è nella posizione del padre dell’orda di cui parla Freud in Totem e tabù. Il culto del collettivo è un culto stalinista. Il soggetto è sacrificato, abolito, negato nella sua singolarità. Una volta avveniva nel nome della Causa della storia, oggi avviene per narcisismo egoico. L’amplificazione megalomaniaca dell’Io è propria di ogni dittatore. Ma anche la trasformazione dei soggetti in un «organo» anonimo non è una caratteristica propria di ogni regime autoritario? L’impossibilità di poter parlare a titolo personale? La cancellazione dei nomi propri? La psicoanalisi insegna che il diritto alla libertà della propria parola è insostituibile. È la ragione per la quale non ha mai avuto grande diffusione nei paesi senza lunghe tradizioni democratiche. Un leader degno di questo nome lavora alla sua successione dal momento dell’insediamento, mantenendo il movimento che rappresenta il più autonomo possibile dalla sua figura. Prepara cioè le condizioni di una trasmissione simbolica. Tutto ciò diventa di difficile soluzione quando un movimento non ha storia, non ha padri, ma un genitore vivo e vegeto che rivendica il diritto di proprietà sulla sua creatura. «Io ti ho fatta e io ti disfo», ammoniva una madre psicotica una mia paziente terrorizzata. Una leadership democratica deve sempre rispondere al criterio paterno di una responsabilità senza diritto di proprietà. Si pensi invece alla reazione di Casaleggio all’indomani delle elezioni, quando disse che se il movimento non avesse adottato certe sue indicazioni di comportamento dei neoeletti non avrebbe preteso nulla e se ne sarebbe andato. Ecco la minaccia più narcisistica possibile che un fondatore può fare: io starò con te finché tu mi assomiglierai, finché mi riprodurrai; se tu assumerai un tuo volto, una tua originalità, io non ne vorrò più sapere di te e me ne andrò.

Il pluralismo è temuto da Grillo come da tutti i leader autoritari. Il sogno di un consenso al cento per cento è un sintomo eloquente. Come abbiamo visto era il sogno degli uomini di Babele mentre sferravano il loro attacco delirante al cielo, la loro sfida a Dio: un solo popolo, una sola lingua. No, le cose umane non vanno così. Il Signore sparpaglia sulla faccia della terra quella moltitudine esaltata obbligandola alla differenza, al pluralismo delle lingue, esigendo la pazienza della traduzione. Esistono in democrazia più lingue e ciascuna ha diritto di manifestarsi e di essere ascoltata. Guai se il fantasma di purezza si realizzasse al cento per cento. Lo ricorda giustamente Roberto Esposito: una democrazia che si realizzasse compiutamente sarebbe morta, annullerebbe tutte le differenze delle lingue nel corpo compatto della «volontà generale», darebbe luogo a una tirannide.

La dignità dentro una lacrima, dietro al violino

Annichiliscono tutto il resto le lacrime della violinista durante l’ultimo concerto dell’orchestra sinfonica della televisione pubblica greca che chiude travolta dalla crisi. Dentro quelle lacrime c’è la sconfitta di una nazione che chiude il servizio pubblico (anzi, soprattutto: l’informazione pubblica) come scalpo di una crisi che è stata masticata dalla finanza europea, rigurgitata dagli economisti d’eccezione e poi risputata sui violini. Forse starò invecchiando io ma la differenza tra i grafici macroeconomici della Merkel & co. e l’inoffensiva disperazione di quel timido violino mi traccia la distanza tra la politica e la polis: l’incapacità di sentire e e farsi carico del dolore.

Ogni mattina, qui a Roma, c’è un anziano signore che all’ora del caffè arriva con passo lento ma certo nel bar, apre il frigorifero dei gelati e ci entra tutto fino alla spalla per prendere una bottiglia di latte commentando il rincaro di qualche centesimo e il caldo che prima non arrivava e ora è arrivato troppo presto. Poi stringe la borsa arricchita dal latte e ripercorre al contrario la sua strada come in un lunghissimo ralenti fino alla mattina successiva. Non si lamenta, l’anziano signore, non ha drammi visibili oltre a quella sua dignità che si sforza di rimanere a galla con tutta l’eleganza antica con cui si può combattere per i centesimi che servono per il latte che forse sarà per la sua moglie che non può uscire con questo caldo o per il nipote che ha appena accompagnato a scuola.

Guardando le lacrime della violinista greca e del suo violino mi è tornato in mente lui, il signore del latte, e quanto la dignità sia internazionale anche senza bisogno di lingue. E questa Europa che è comune nella disperazione e non riesce ad accordarsi su una speranza credibile. Nemmeno con i violini.

Mario Mantovani è rosso

Il vicepresidente di Regione Lombardia Mario Mantovani (PDL, classe “diligente” dei berluscones) giudica da par suo il funerale di Franca Rame. Ora, Mantovani che parla di Franca Rame ci sta come la Minetti che tiene un corso di castità ma la cosa che colpisce di più è la sua affermazione: «Quell’immagine, quei fazzoletti rossi e quei comizi non corrispondono alla volontà popolare espressa dai lombardi pochi mesi fa, ecco».

Mantovani (ma molti altri di centrodestra e controsinistra) non hanno capito che la sensibilità di una storia e di una vita non è cosa da catalogare dentro le anguste stanze mentali dei piccoli pregiudizi di qualche polituncolo borghese e soprattutto non ha capito che la vita (e la “resistenza”) di Franca Rame contro tanti petulanti e inutili piccoli Mantovani è il lascito di una speranza per una classe dirigente con un’ecologia etica da quella che ci ritroviamo ora.

Quei fazzoletti rossi per Franca (caro Mantovani e cari berluscones) sono il simbolo di una comunità di ideali che per voi sarebbe inimmaginabile senza bonifici bancari.

Un vascello fantasma con le vele ammainate: così ci vedono gli altri

Niente da dire: questo brodino di Governo è indigesto anche visto da fuori.

Neue Zürcher Zeitung

In Italia, le ultime elezioni hanno irrigidito le posizioni: tre grandi blocchi, all’incirca della stessa dimensione, schierati gli uni contro gli altri, due dei quali ora fanno parte del nuovo governo. Questa pace apparente è costantemente esposta al ricatto di Berlusconi.La morte la scorsa settimana di Giulio Andreotti, il grande vecchio della politica italiana, astuto democristiano e stratega ineguagliabile, lascia esterrefatti per il suo tempismo perfetto: il democristiano ha trovato la pace eterna subito dopo la formazione del nuovo governo, conclusa la contrattazione per la spartizione degli incarichi ministeriali e  l’assunzione delle delle cariche apicali da parte di due ex democristiani, Enrico Letta come capo del governo e Angelino Alfano come suo vice. Anche se l’onnipotente ex Democrazia Cristiana non esiste più, il suo, spettro riporta una vittoria tardiva. Berlusconi, suo erede effettivo ma indegno, se la ride sotto i baffi e risulterebbe di nuovo incomprensibilmente amato, secondo recenti sondaggi.

Compiti difficili

Pur provenendo dallo stesso vivaio politico della DC, i due nuovi leader non potrebbero essere più diversi l’uno dal’altro. Eppure ora presiedono una coalizione che altrove sarebbe stata denominata «Arcobaleno», ma che in Italia viene definita una “grande coalizione”, perché così fa più tedesco e assume un tono più solenne. E’ al primo ministro Enrico Letta del Partito Democratico (PD) che tocca l’onere più gravoso in questa impresa incerta. Con i suoi 46 anni, nell’ambiente politico italiano uno sbarbatello, non nega le sue radici politiche cristiane e ormai da tempo si è dimostrato un brillante e prudente socialdemocratico, ricoprendo la sua prima carica di ministro a 32 anni. Egli dovrebbe riuscire a placare gli animi di almeno una parte degli  italiani infuriati, dovrebbe portare il paese fuori dalla recessione, allentare le rigorose politiche di austerità, stimolare il consumo e l’economia, e compiere qualche altro miracolo, tra cui quello di impedire la caduta del PD, il suo partito, da cui i suoi sostenitori fuggono a frotte dopo essere stati costretti alla diabolica alleanza con l’impresentabile Berlusconi. Il compito del vice leader Angelino Alfano, che ora è ministro degli interni, anche lui 42enne, è meno gravoso. Anche lui proveniente dallo schieramento democristiano,  è entrato a far parte presto dei devoti di Berlusconi, diventando il Presidente del Popolo della Libertà (PdL), nonché ministro della giustizia e fedele guardia del corpo giuridica del suo Signore. Ora egli ha il compito non troppo oneroso, anche se moralmente ingrato, di proteggere gli interessi di Berlusconi e salvarlo dalla magistratura italiana – anche sotto il nuovo governo. Funziona esattamente come un ricatto: se il primo ministro Letta suggerisce qualcosa che Berlusconi non gradisce, immediatamente al Parlamento scatta la minaccia di far cadere il governo, essendo il PdL il principale componente. Nelle prime due settimane di vita il governo Letta è stato retoricamente minacciato per ben due volte da questo freno a mano. La prima volta dopo la recente condanna per frode fiscale di Berlusconi, la seconda volta a causa degli strascichi giudiziari che potrebbero derivare dalle accuse di prostituzione minorile e istigazione alla prostituzione mosse al Cavaliere. Berlusconi, che ha contribuito spudoratamente negli ultimi vent’anni alla rovina del suo paese, arricchendo una numerosa schiera di cortigiani, sostenitori del suo stile di vita e, in maniera impudente, soprattutto se stesso, ora continua a determinare “il bello e il cattivo tempo” nel suo paese. Non stupisce quindi che il vascello fantasma Italia continui ad andare alla deriva  a vele ammainate. Ma la colpa non è affatto sua, dato che il vento di poppa gli arriva principalmente dagli errori dei suoi avversari. Ancora all’inizio di quest’anno, Berlusconi sembrava politicamente finito, ma poi grazie ad una serie di errori dei suoi rivali è riuscito a risalire la china in maniera inquietante, quasi una sorta di risurrezione. Possiamo dire anche quando è avvenuta la svolta, precisamente non molto tempo fa, e Claudio Magris lo ha scritto sul «Corriere della Sera»: era la sera del 10 gennaio, quando lo sconfitto Berlusconi entrò nella tana del leone, il programma «Servizio pubblico» di Michele Santoro, un giornalista che si che si finge un arrabbiato di sinistra. Berlusconi ha ribadito di fronte a una platea di otto milioni di telespettatori le sue audaci promesse elettorali, tra cui l’abolizione dell’IMU e qualche altra arditezza – mentre il conduttore della trasmissione e i suoi accoliti della sinistra restavano lì, ammutoliti come scolaretti.

Un disastro dopo l’altro

Nei mesi seguenti l’Italia è precipitata da un disastro all’altro. Mario Monti ha fatto sicuramente una buona impressione a livello internazionale con il suo governo d’emergenza, tagliando qua e là per risparmiare, ma ha condotto una campagna elettorale da dilettanti, tanto da essere stato preso in considerazione dai moderati del PD solo come partner di coalizione. Il risultato delle elezioni nel mese di febbraio è stato un disastroso triangolo quasi equilatero: scarso il 30 per cento per il PD, quasi quanto per il PdL di Berlusconi, e poco meno quel fuoco fatuo del Movimento Cinque Stelle (M5S) di Beppe Grillo. Potrebbe essere arrivata l’”ora X” per questo comico, il cui «movimento» da allora rappresenta per l’Italia gioia  e dolore, croce e speranza. Le principali richieste del M5S sono piuttosto scontate, alcune di loro sono talmente ragionevoli da apparire quasi banali; meno convincente sembra il loro  non ben definito programma, se esaminato nei suoi dettagli; ed è un disastro la tattica di Grillo e del suo popolo di mantenere le distanze da tutti gli altri partiti con cui si siedono ora in Parlamento. Tutti sono indistintamente corrotti e contaminati, questo è quanto ripetono di continuo nei loro comunicati. Nei colloqui per formare un governo, hanno tenuto testa al capo del PD umiliando uno sbiadito Pierluigi Bersani fino a costringerlo alle dimissioni. Così facendo il comico dalla lingua lunga e i suoi rabbiosi parlamentari hanno sprecato le occasioni migliori per l’Italia di sbarazzarsi di Padron Berlusconi. In quel febbricitante momento di pausa sia il PD che il M5S hanno sbagliato praticamente tutto, al punto da far fallire l’elezione di un nuovo Presidente della Repubblica. Nemmeno su Romano Prodi si sono trovati d’accordo, e così hanno costretto l’ormai anziano Napolitano a prolungare il suo mandato, spingendo Enrico Letta a stringere un patto di governo col diavolo Berlusconi e i suoi seguaci. Letta vorrebbe fare del suo meglio, ma non durerà molto, perché con la sua impresa azzardata subisce attacchi da tutti i fronti, anche dai suoi stessi compagni dell’irritato PD. Il filosofo Massimo Cacciari fantastica sul modo in cui questo partito andrà avanti. Nella sua rubrica sull’ «Espresso», egli auspica la fine della “politica dell’illusione” (nell’articolo in italiano Cacciari ha usato il termine tedesco “Illusionspolitik”, ndt) e incoraggia due portatori di speranza, l’economista di sinistra Fabrizio Barca e Matteo Renzi, il sindaco di Firenze che, proveniente dallo schieramento cattolico, non sarebbe la scelta peggiore – e che anche il defunto Andreotti non avrebbe disdegnato. Anche l’autore Roberto Saviano in un articolo riflette sul suo paese e sul desolato PD; ha recentemente scritto, anche se in maniera molto astratta, di «un’Italia che vuole sognare» o, ancora, «del partito che io sogno». Che un simile sogno sia stato mai d’aiuto, sono soprattutto i giovani compagni a dubitarne, tra le cui fila pare si nascondano alcuni di quelli che hanno occupato molte sedi locali del partito sotto il motto di «Occupy PD», perché non si fidano dell’operato di Letta, giudicando l’alleanza con la destra di Berlusconi solo una combutta, una fittizia «guerra tra bande di arrivati». Questa aspra sentenza potrebbe essere corretta, ma priva di alternative, fintanto che il testardo Beppe Grillo del M5S avrà voce in capitolo. Perché non cambierà nulla con il neo eletto leader del PD, Guglielmo Epifani, uomo mite dei moderati di centro. Il nepotismo espresso dallo stato tra PD e PDL scaturisce sì da uno stato di emergenza, ma ciononostante non ha inventiva e, oltre al rinnovato consolidamento di Berlusconi, ha anche altri aspetti ripugnanti.  Il simbolo tipico della viscidità che si sta estendendo sui partiti italiani è una giovane coppia di intelligenti giovani politici: Lei, Nunzia de Girolamo del PdL, che a difesa di Berlusconi, ha partecipato a numerosi talk show, e ora è diventata ministro dell’agricoltura. Lui, Francesco Boccia del PD, è stato appena confermato a capo della Commissione Parlamentare per i conti. Questo ha spinto il filosofo e traduttore di Kierkegaard Dario Borso, a chiedersi cosa ha da dirsi di notte sotto le lenzuola questa strana coppia. In tempi in cui la povertà dilaga nell’ex ceto medio, dove sempre più sono in aumento i suicidi per la disperazione e il termometro sociale rischia di precipitare sotto zero, l’Italia ha però ancora altre domande da porsi. Sabato scorso l’atmosfera si è surriscaldata, quando ad una manifestazione sostegno di Berlusconi a Brescia, i suoi esaltati seguaci e i suoi avversari altrettanto infiammati sono arrivati alle mani. La violenza si manifesta ancora principalmente in maniera verbale e simbolica, scritte di vernice spray sui muri o urla nei programmi televisivi, fatta di uomini dalle maniere apparentemente garbate presenti col contagocce  nei media tradizionali o di personaggi maleducati che fanno solo propaganda in Internet.

Campagna denigratoria anonima

E’ soprattutto nei social network che imperversa una campagna denigratoria anonima, contro cui il turpiloquio usato nel blog di Beppe Grillo non ha alcun effetto. Sempre più spesso, si tratta di invettive misogine e razziste come quelle contro Cécile Kyenge, nuovo Ministro per l’Integrazione di origine congolese, o minacce contro altre persone esposte, come il giornalista televisivo Enrico Mentana, che è stato costretto a chiudere il suo account Twitter dopo aver ricevuto numerose minacce di morte.  Sparare sui giornalisti era diventato un fatto consueto 40 anni fa, quando iniziò in Italia un periodo di terrore che portò lo Stato a un passo dal collasso mettendolo a rischio di golpe.

[Articolo originale “Ein Geisterschiff mit schlaffen Segeln” di Franz Haas]

Come (non) cambia il PD sulle intercettazioni

«Non è una priorità», dice il segretario Guglielmo Epifani, lasciando trasparire una velata minaccia di crisi. Il Pdl non ha «i numeri per imporre leggi o modifiche legislative non previste nel programma di governo», dice Luigi Zanda. «Porre ora il tema non è opportuno», ribatte il capogruppo a Montecitorio, Roberto Speranza. E Anna Finocchiaro, al Messaggero: «Allo stato non fa parte dell’impianto delle riforme». Sembra una questione di tempistica, di metodo più che di merito. 

Ha ragione Fabio Chiusi: ormai la questione della “legge bavaglio” sembra diventata inopportuna solo perché presentata ora e non perché è una scempiaggine orrenda e antidemocratica. Eppure i toni del PD sono molto cambiati in questi ultimi mesi sulle intercettazioni. O forse, non sono cambiati mai.

«Altro che politiche per la sicurezza. Questo testo farà brindare boss mafiosi e camorristi» (Donatella Ferranti, 11 giugno 2009).

«Prosegue il progetto che punta a garantire la totale immunità del presidente del consiglio rispetto alla legge, nell’ottica del legibus solutus consona alle monarchie assolute piuttosto che ai sistemi democratici a cui appartiene il nostro paese» (Pina Picierno, 10 giugno 2009).

«Le nuove norme sulle intercettazioni altro non stanno a rappresentare se non la morte della giustizia» (Maria Grazia Laganà Fortugno, 10 giugno 2009).

«Il ddl è una licenza a delinquere, è un provvedimento ammazza indagini» (Donatella Ferranti, 12 giugno 2009).

«Il ddl del governo sulle intercettazioni è criminale» (Felice Casson, 30 giugno 2009).

«Il disegno di legge sulle intercettazioni è un altro modo per evitare che vengano perseguiti per atti molto gravi i soli noti» (Anna Finocchiaro, 1 luglio 2009).

«Ladri, spacciatori, strozzini e sfruttatori sarebbero gli unici beneficiari di un provvedimento che ha il solo effetto di spuntare le armi dello Stato nella lotta alla criminalità» (Donatella Ferranti, 4 luglio 2009).

«L’articolo 21 della Costituzione verrebbe travolto» (Stefano Ceccanti, 7 luglio 2009).

«E’ lo stesso Berlusconi che oggi tuona contro le intercettazioni dei magistrati quello che ieri ringraziava chi, illegalmente, gli portava nastri rubati?» (Andrea Orlando, 24 marzo 2010).

«Un testo che mette a repentaglio la sicurezza nazionale» (Donatella Ferranti, 12 aprile 2010).

«E’ un provvedimento ingiustificato sotto tutti i punti di vista. Il vero obiettivo è mettere al riparo i tanti furbi e delinquenti, che ormai affollano le classi dirigenti del nostro Paese, sia dal giudizio della giustizia, sia da quello dell’opinione pubblica. Le limitazioni delle intercettazioni all’utilizzo dei magistrati e alla pubblicazione da parte dei giornalisti risponde a questo disegno. Nel frattempo la criminalità, grande e piccola, ringrazia» (Giuseppe Lumia, 29 aprile 2010).

«Non è una questione che attiene a una riforma di alcune parti della procedura penale, ma a una questione democratica che si è aperta nel Paese» (Anna Finocchiaro, 12 maggio 2010).

«Questo ddl è espressione della volontà di imbavagliare per sempre i giornalisti e di togliere ai cittadini il diritto ad essere informati» (David Sassoli, 19 maggio 2010).

«Grave la decisione di governo e maggioranza volta a mettere sotto la ghigliottina la libertà di stampa in Italia» (Felice Casson, 19 maggio 2010).

«Non si può, per tutelare la privacy, mettere il bavaglio alla stampa» (Beppe Fioroni, 24 maggio 2010).

«Stiamo consegnando una legge al paese che non si è mai vista in nessuna democrazia occidentale. Una stretta inconcepibile per la democrazia». (Pierluigi Bersani, 25 maggio 2010).

«Ci metteremo di traverso più che possiamo, con tutti i mezzi a disposizione. Questo ddl è una cosa vergognosa, insostenibile» (Pierluigi Bersani, 1 giugno 2010).

«Il ddl sulle intercettazioni è un regalo a Gomorra» (Ermete Realacci, 8 giugno 2010).

«Questo provvedimento ci fa pensare a una dittatura piuttosto che a una democrazia» (Ignazio Marino, 10 giugno 2010).

«Il governo Berlusconi ha esposto l’Italia a una umiliazione» (Enrico Letta, 15 giugno 2010, sui rilievi dell’Ocse al ddl intercettazioni).

«Penso che ogni italiano, nella sua vita quotidiana, trovi incredibile che il tema siano le intercettazioni (…) io dico banalmente chi se ne frega delle intercettazioni per la vita quotidiana di ogni italiano» (Enrico Letta, 4 luglio 2010).

«Una riforma delle intercettazioni avrebbe già potuto farsi se la maggioranza non avesse ritenuto di renderle una rarità, escludendole per reati importanti, alla ricerca della soluzione che più fa comodo anche per evitare che emergano vicende come il caso Ruby» (Anna Finocchiaro, 25 gennaio 2011).

«Limitare l’uso delle intercettazioni o addirittura proibirle significa fare il più grosso regalo possibile alla criminalità» (Dario Franceschini, 10 febbraio 2011).

«In questa materia non c’e’ alcuna possibilità di collaborazione con il governo, persino a prescindere dal merito. Il punto di partenza per discutere di questi temi è che Berlusconi si dimetta» (Massimo D’Alema, 22 febbraio 2011).

«Di nuovo, per gli interessi di uno si produce un danno grave per tutti» (Emanuele Fiano, 14 aprile 2011).

«Interventi di urgenza pensati ai fini del salvataggio del Premier sono inaccettabili, impotabili e velleitari perché Berlusconi non è più in condizione di fare una legge ad personam» (Pierluigi Bersani, 15 settembre 2011).

«La nostra opposizione sarà intransigente perché è inaccettabile che per nascondere i rapporti del presidente del Consiglio con escort e faccendieri si affossi uno strumento di indagine fondamentale per la ricerca della prova e si leda il diritto di cronaca» (Donatella Ferranti, 30 settembre 2011).

«Non accetteremo mai limitazioni all’uso delle intercettazioni» (Laura Garavini, 17 luglio 2012).

Prova a leggere

L‘analisi di Luigi Castaldi in un momento in cui dovrebbe andare di moda essere ignoranti e dimentichi della storia politica del nostro Paese:

Io penso che la regia dell’operazione abbia la chiara impronta di quella «destra comunista», già tutta in embrione nella «svolta di Salerno», che portò Togliatti all’alleanza con Badoglio e Casa Savoia. Il fatto che quella «svolta» rispondesse unicamente agli interessi di Stalin, e che Togliatti si sia limitato ad obbedire agli ordini partiti dal Cremlino, passa in secondo piano per Mario Pirani (la Repubblica, 14.5.2013), che pure risale a quel periodo per spiegarsi la logica che ha dato vita al governo Letta. Ora, è vero, la storia non concede controprove, ma sappiamo che Togliatti fu sempre supino ai voleri di Stalin: è azzardato immaginare che, se a Mosca fosse tornato comodo che il Pci imboccasse la via insurrezionale, Togliatti non avrebbe mai teorizzato alcuna «via italiana al socialismo», Secchia non avrebbe mai lasciato il posto ad Amendola al quarto piano del Bottegone, Napolitano e gli miglioristi sarebbero stati strozzati in culla, ammesso e non concesso che avessero potuto emettere un vagito? Non ha senso discutere del passato ricorrendo ai «se», d’accordo, ma una cosa è certa: la «svolta di Salerno» fu la madre di tutti i successivi tentativi, riusciti o falliti, che il Pci mise in atto per arrivare nella mitica «stanza dei bottoni», e fu sempre evocata, in primo luogo dai suoi dirigenti, come una scelta coraggiosa di maturità politica contro ogni velleitarismo e ogni avventurismo. Non mancò mai, d’altronde, chi nella linea decisa da Togliatti nel 1944 vide la prima grande prova del suo cinismo, il primo dei tanti tradimenti che la dirigenza del Pci avrebbe consumato ai danni dei suoi militanti e dei suoi elettori. Tutto sommato, è un errore, perché già nel 1936, quando il regime fascista sembrava indistruttibile, Togliatti gli offriva collaborazione dalle pagine di Stato Operaio: «Noi tendiamo la mano ai fascisti, nostri fratelli… Siamo disposti a combattere assieme a voi e a tutto il popolo italiano per la realizzazione del programma fascista del 1919».
Anche nel comunista più ripulito persiste incoercibile la tentazione al compromesso con quello che è indicato come peggior nemico del popolo fino a quando c’è speranza di sconfiggerlo e annientarlo. Naturalmente parlo del comunista che abbia responsabilità dirigenziali e che il crollo del muro di Berlino ha impreziosito con un «post»: parlo del post comunista che sta al Quirinale o in Largo del Nazareno. Fino a quando Berlusconi è stato con un piede nella fossa, la sua demonizzazione era uno strumento eccezionale per galvanizzare militanti ed elettori, per fare incetta di voti di quanti volevano sbarazzarsi della mostruosa atipia. Poi, quando sfuma il sogno di poterlo impiccare a testa in giù, ecco l’impellente bisogno di un governo di «coesione nazionale», di una «große Koalition», lamentando «il fatto – e qui cito Napolitano – che in Italia si sia diffusa una sorta di orrore per ogni ipotesi di intese, alleanze, mediazioni, convergenze tra forze politiche diverse», «segno di una regressione, di un diffondersi dell’idea che si possa fare politica senza conoscere o riconoscere le complesse problematiche del governare la cosa pubblica e le implicazioni che ne discendono in termini, appunto, di mediazioni, intese, alleanze politiche». Di colpo, l’elettore che votava Pd per mero antiberlusconismo, convinto che quello fosse il voto utile, diventa un bruto, o come minino un incolto che nulla sa della politica come arte del possibile.

Era il primo maggio

Dal gennaio 2008  al 30 aprile 2013 sono morti per infortunio sul lavoro oltre 5000 lavoratori di cui 2553 sui luoghi di lavoro e gli altri sulle strade e in itinere. (Osservatorio indipendente di Bologna)

Dall’inizio dell’anno sono documentati 145 lavoratori morti per infortuni sui luoghi di lavoro. (Osservatorio indipendente di Bologna)

«Molte vittime non hanno nessuna assicurazione, – si legge nel blog dell’Osservatorio indipendente di Bologna, – e muoiono lavorando in “nero”ed intere categorie non sono considerate morti sul lavoro. Praticamente sono morti sul lavoro invisibili»

Nel 2012 sono morti 1180 lavoratori, di cui 625 sul luogo di lavoro (Osservatorio indipendente di Bologna)

Bollettino dei suicidi nel solo mese di aprile. Le morti della «crisi»:

«Villanovaforru, nel Medio Campidano, a una cinquantina di chilometri da Cagliari. Massimiliano Cilloco, disoccupato di 45 anni, si è tolto  la vita sparandosi un colpo di fucile nella sua abitazione . È l’ennesima tragedia legata alla crisi economica, la quarta in meno di un mese in Sardegna» (23 aprile 2013);

«Milano. Due uomini sono stati trovati senza vita in un appartamento in zona Porta Magenta. I due entrambi di 33 anni sarebbero uccisi con un sacchetto di plastica, e forse con l’ausilio del gas. In due lettere si faceva riferimento alla “mancanza di lavoro” e a “relazioni familiari” che non funzionavano“» (22 aprile 2013);

«Bitonto (Bari) Un imprenditore del settore del marmo, Carmine Mancazzo, si è suicidato impiccandosi nel capannone della sua azienda. Aveva 60 anni. La polizia ha trovato addosso all’uomo un biglietto d’addio, straziante: “Nel momento del bisogno tutti mi hanno abbandonato”» (16 aprile 2013);

«Torino. Luigi Melillo, grossista di ortofrutta di 62 anni, si è ucciso sparandosi un colpo di fucile alla gola» (13 aprile 2013);

«Pesaro. Una donna di 55 anni, di Bologna, si è suicidata gettandosi in mare nel Pesarese. La donna ha lasciato delle lettera di addio nell’auto, parcheggiata vicino alla spiaggia di Vallugola, a Gabicce Mare, in cui chiede scusa per il suo gesto disperandosi per la mancanza di lavoro». (13 aprile 2013)

«Ad Isola del Liri, nel Frusinate, è stato trovato impiccato un uomo di 38 anni, disoccupato da tre mesi con moglie e figlio di pochi mesi a carico. Le ragioni del suicidio sono state spiegate in un biglietto». (13 aprile 2013)

«Siracusa. Un commerciante di Siracusa, Francesco Barcio di 62 anni, si è impiccato con un filo di nylon nella sua abitazione. Sembra che alla base del gesto ci sia il suo tracollo economico, culminato nella chiusura della sua attività, un negozio di abbigliamento in corso Umberto, alle porte del centro storico di Ortigia» (9 aprile)

«Macomer (Nuoro). Un imprenditore in gravi difficoltà economiche si è tolto la vita. Carlo Cossu, 54 anni, si è impiccato nella sua segheria della zona industriale di Bonu Trau. (9 aprile 2013)

«Ortelli (Nuoro)  Gonario Piroddi, 47 anni, impresario edile in difficoltà economiche, si è suicidato sparandosi un colpo di fucile. Il corpo privo di vita è stato ritrovato in una casetta disabitata di proprietà di un parente» (9 aprile 2013)

«Tentato suicidio ad Ancona. Da mesi senza lavoro, aveva perso la speranza nel futuro. E così D.P., 46 anni, ha deciso di farla finita: si è tagliato le vene di entrambi i polsi. Salvato in extremis dalla moglie» (8 aprile 2013)

«Civitanova Marche (Macerata)  Lui, Romeo Dionisi di 62 anni, era un esodato, lei, Anna Maria Sopranzi di 68 anni,  aveva una modestissima pensione di 400-500 euro. Hanno deciso di farla finita impiccandosi, forse proprio per l’impossibilità di far fronte alle difficoltà economiche. I due hanno lasciato un biglietto in cui chiedono perdono per il loro gesto e indicano il luogo, uno stanzino sul retro del palazzo, in cui trovare i loro corpi.Quando il fratello della donna ha scoperto i cadaveri dei due coniugi si è diretto al porto di Civitanova Marche e si è ucciso buttandosi in mare». (4 aprile 2013)

«LipariDopo l’annuncio della chiusura di due alberghi nell’isola di Vulcano, segno della crisi che ha colpito le Eolie, il proprietario dell’hotel “Oriente” di Lipari si è suicidato. Edoardo Bongiorno, 61 anni, uno dei più noti operatori turistici delle Eolie, si è chiuso dentro un furgone dell’albergo e si è sparato un colpo di pistola» (2 aprile 2013).

Mai con B. Firmato PD

«Pensare che dopo 20 anni di guerra civile in Italia, nasca un governo Bersani-Berlusconi non ha senso. Il governissimo come è stato fatto in Germania qui non è attuabile» (Enrico Letta, 8 aprile 2013).

«I contrasti aspri tra le forze politiche rendono non idoneo un governissimo con forze politiche tradizionali» (Enrico Letta, 29 marzo 2013).

«Non sono praticabili né credibili in nessuna forma accordi di governo fra noi e la destra berlusconiana» (Pier Luigi Bersani, 6 marzo 2013)

«Il governissimo non è la risposta ai problemi» (Pier Luigi Bersani, 13 aprile 2013).

«Il governissimo predisporrebbe il calendario di giorni peggiori» (Pierluigi Bersani, 8 aprile 2013).

«Se si pensa di ovviare con maggioranze dove io dovrei stare con Berlusconi, si sbagliano. Nel caso io, e penso anche il Pd, ci riposiamo» (Pierluigi Bersani, 2 ottobre 2012).

«In Italia non è possibile che, neppure in una situazione d’emergenza, le maggiori forze politiche del centrosinistra e del centrodestra formino un governo insieme» (Massimo D’Alema, 8 marzo 2013).

«Il Pd è unito su una proposta chiara. Noi diciamo no a ipotesi di governissimi con la destra» (Anna Finocchiaro, 5 marzo 2013).

«Fare cose non comprensibili dagli elettori non sono utili né per l’Italia né per gli italiani. Non mi pare questa la strada». (Beppe Fioroni, 25 marzo 2013).

«Non si può riproporre qui una grande coalizione come in Germania. Non ci sono le condizioni per avere in uno stesso governo Bersani, Letta, Berlusconi e Alfano» (Dario Franceschini, 23 aprile 2013).

«Sono contrario a un governo Pd-Pdl» (Andrea Orlando, 22 aprile 2013).

«Abbiamo sempre escluso le larghe intese e le ipotesi di governissimo» (Rosy Bindi, 21 aprile 2013).

«Serve un governo del cambiamento che possa dare risposta ai grandi problemi dell’Italia. Nessun governissimo Pd-Pdl» (Roberto Speranza, 8 aprile 2013).

«Non dobbiamo avere paura di confrontarci con gli altri, ma non significa fare un governo con ministri del Pd e del Pdl. La prospettiva non è una formula politicista come il governissimo, è quel governo di cambiamento di cui l’Italia ha bisogno» (Roberto Speranza, 7 aprile 2013).

«L’alternativa non può essere o voto anticipato o alleanza stretta tra Pd e Pdl» (Roberto Speranza, 7 aprile 2013).

«Lo dico con anticipo, io un’alleanza con Berlusconi non la voto» (Emanuele Fiano, 28 febbraio 2013).

«I nostri elettori non capirebbero un accordo con Berlusconi» (Ivan Scalfarotto, 28 febbraio).

«Non c’è nessun inciucio: se questa elezione fosse il preludio per un governissimo io non ci sto e non ci starebbe neanche il Pd» (Cesare Damiano, 18 aprile 2013).

«Serve un governo di cambiamento vero ed è impensabile farlo con chi in questi anni ha sempre dimostrato di avere idee opposte alle nostre» (Fausto Raciti, 14 aprile 2013).

«Un governo Pd-Pdl è inimmaginabile» (Matteo Orfini, 27 marzo 2013).