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speranza

Il bipolarismo perfetto (e obliquo)

 

la-rivoluzione-non-e-una-cosa-seria-L-hP5lHeHa ragione Alessandro nel suo post di oggi: il bipolarismo perfetto, quello che abbiamo cercato di costruire in questi ultimi mesi, quella Cosa Seria che  seriamente avrebbe dovuto chiarire che la lealtà nel preservare le differenze è un valore politico, insomma il nostro progetto politico (e mai come oggi quel “nostro” è così diffuso nel senso più disordinato e irresponsabile del termine). Solo che il bipolarismo perfetto (lo scrive Gilioli) lo stiamo lasciando agli altri. E se è vero che:

Il Pd si avvia dunque verso la sua scelta più immonda e catastrofica, allegramente condivisa da capi e capetti di ogni età un tempo avversari tra loro (Renzi e Bindi, Veltroni e D’Alema, per non parlare dell’imbarazzante capogruppo alla Camera Roberto Speranza).

Delle tre possibilità che avevano (proporre un ‘governo Zagrebelsky’ o simile per sfondare verso il M5S, andare dignitosamente al voto dopo aver rifiutato B. e tolto ogni alibi a Grillo, gettarsi nella mangiatoia insieme agli impresentabili) i vertici democratici stanno suicidandosi scegliendo l’ultima, nella piena consapevolezza (tra l’altro) di tradire il pensiero del 90 o più per cento dei loro elettori.

rimane anche in campo la posizione di SEL. Abbiamo promesso che non avremmo mai accettato un’alleanza con Monti (anche se qualcuno in cuor suo nemmeno troppo sotto sarebbe stato disponibile) e certo non possiamo accettare il governicchio che vorrebbe essere governissimo. Ma il rischio di assumere una posizione residuale è evidente e possibile e, intanto, da “motore di un cambiamento” si finirebbe per collocarsi semplicemente  “per esclusione”. Ancora, come in tutti gli ultimi decenni qui a sinistra.

Allora forse sarebbe il caso (anzi: è il caso) di chiedere subito a quelli del PD che non sono d’accordo con questa ennesima fase berluschina di avere coraggio, di alzare non solo la voce ma proprio il culo dalla sedia e prendersi la responsabilità di fare “altro”. Un “altro” serio, includente e semplice senza bisogno di essere banale. Includente, SEL incluso.

A Napoli il Nuovo Teatro Sanità

Mario Gelardi è un collega e amico che si porta Napoli in tasca quando scrive e quando prepara la scena. La notizia dell’apertura di un nuovo teatro (a Napoli nel rione Sanità come in qualsiasi rione di qualsiasi città nel mondo) è un raggio di arcobaleno. Perché alla fine in questo mondo di resistenti teatrali, in mezzo alla congiuntura di una cultura svilita dal governo e nel fosco di questo tempo, arriva sempre un’annunciazione come un canto.

Nel cuore di Napoli, nel ventre più profondo della città, c’è il Rione Sanità. Negli occhi di molti il Rione Sanità è identificato con quel filmato che ha fatto il giro del mondo in cui un pregiudicato veniva ucciso fuori da un bar. Ma questo luogo è anche e soprattutto altro ed è da questo che vogliamo partire. Vogliamo costruire una nuova immagine di questo rione e farlo partendo da un’idea concreta di cultura.

In particolare, il teatro a Napoli deve ritornare ad essere l’identità di un popolo. Non un teatro auto referenziato in cui gli operatori si avvicendano di volta in volta tra palcoscenico e platea, ma uno spazio aperto allo scambio tra artisti e pubblico, puntando sulla sensibilità degli operatori teatrali di farsi portavoce delle istanze che nascono dalla società civile. L’associazione ‘Sott’ o ponte’ insieme ad un gruppo di privati, ha creato proprio nella Sanità un teatro. Un teatro di 100 posti attrezzato a regola d’arte, pronto per essere inaugurato. A partire da settembre e con la mia direzione artistica e di un collettivo fatto da giovani operatori teatrali, partirà la prima stagione teatrale del “Nuovo Teatro Sanità”.

L’intento della direzione artistica è quello di fornire alla città un palcoscenico aperto e ricettivo alle istanze teatrali e culturali che negli ultimi anni sono diventate vera e propria emergenza. Una casa – comune, tecnicamente e strutturalmente adeguata in modo da offrire agli artisti uno spazio dignitoso e professionale. Una sfida, quella di aprire un nuovo teatro e di farlo nella Sanità, che in questo momento più che mai, sembra assolutamente da accettare. Una sfida che vuole vedere uniti artisti e professionisti della cultura che potranno trovare nel “Nuovo Teatro Sanità” un luogo lontano da logiche di schieramento.

Abbiamo bisogno dell’aiuto di tutti, abbiamo bisogno di completare al meglio la struttura a livello tecnico, abbiamo bisogno della sensibilità dei grandi artisti teatrali napoletani e dell’entusiasmo delle giovani compagnie. Vogliamo recuperare quelle realtà teatrali e quegli artisti che hanno costruito il teatro napoletano contemporaneo e che si trovano spesso orfani di spazi dove potersi esprimere. Vogliamo partire dai drammaturghi che sono sempre stati l’ossatura del teatro napoletano conosciuto e rappresentato in tutto il mondo. Vogliamo avere una particolare attenzione verso una generazione di giovani attrici ed attori di grande talento che questa città esprime. Esserci in questa prima stagione è un atto di fiducia, un vero atto di speranza per un quartiere per una città che ha bisogno della cultura e del teatro più di quanto le istituzioni vogliano ammettere e soprattutto più di quanto siano in grado di capire. Iniziamo con un budget pari a zero, iniziamo come volontari, abbiamo solo il nostro entusiasmo e la nostra professionalità, chi vuole darci una mano?

Mario Gelardi

info@nuovoteatrosanita.it

www.nuovoteatrosanita.it

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Le conclusioni di Nichi Vendola alla Presidenza di SEL dell’11 marzo

sel-cuore-e-bandierePer ricominciare a fare politica e aprire un dibattito che sia coraggioso e puntuale sul futuro dello scenario italiano. Partendo dall politica del Paese per riconiugarla al futuro di SEL e dell’area che rappresenta e vorrebbe rappresentare. Vale la pena partire dalle conclusioni di Nichi. Discuterne. Per chi volesse si può fare qui tra i commenti o scrivendomi a giulio(chiocciola)giuliocavalli.net. Il viaggio è lungo ma necessario. 

 

Conclusioni di Nichi Vendola

(Presidenza di Sinistra Ecologia Libertà, lunedì 11 marzo 2013)

 

Il rischio di una drammatica deriva del nostro Paese. 

Non credo che potremo trovare un sentiero utile alla nostra ricerca guardandoci l’ombelico, come una parte grande di questa discussione ha fatto. Credo che tra le cose buone della cultura politica della sinistra che ci dovremo portare anche nel futuro, c’è la critica ai limiti del soggettivismo, l’incapacità di connettere le vicende di un soggetto di dimensioni assai modeste, di connettere le sue propensioni, le sue scelte, i suoi successi o insuccessi ad un contesto più generale. E non credo che faremo bene se isolassimo la nostra discussione da quello che ora dopo ora sta accadendo in Italia.

E’ drammatica la deriva del nostro paese, è drammatica oggi in questo momento più di ieri, a quest’ora più di stamattina. A quest’ora perché le dichiarazioni dell’onorevole Alfano sulla volontà di valutare un eventuale Aventino come risposta alle iniziative dei magistrati nei confronti dell’onorevole Berlusconi – dichiarazioni che si aggiungono a quelle dell’onorevole Gelmini che dice “per la prima volta praticheremo la disubbidienza al leader e andremo a manifestare davanti ai palazzi di giustizia”, – questo elemento di acutizzazione dello scontro tra politica e giustizia è un aggravamento serio di una condizione melmosa che segna il contesto democratico della nostra crisi. E mentre noi parliamo il governo in carica non smette di esercitare le proprie funzioni. Per esempio di congelare ulteriormente fino al 2014 i salari del pubblico impiego, con un intervento che continua ad essere depressivo dell’economia, un ulteriore contributo alla recessione. Monti non ha soltanto fatto male nell’anno in cui ha governato fino alle elezioni: continua a fare male. E questo dibattito, ma complessivamente il dibattito che si svolge nella politica italiana, ha rimosso quasi completamente uno degli ingredienti strutturali della nostra crisi, cioè la vittoria della Lega Nord nella regione Lombardia in una prospettiva qual’ è quella della macroregione settentrionale, un’idea  che contiene dentro di sé, in qualche maniera concentrati, tutti gli elementi rischiosamente secessionisti che hanno costituito una parte rilevante dell’immaginario e della comunicazione della Lega negli ultimi trent’anni. Non so se è chiaro: noi siamo collocati in questo punto della crisi e la nostra crisi è la crisi dell’Europa. Il grillismo è una delle varianti del potenziale sfaldamento dell’assetto democratico europeo, conseguenza di medio periodo della fine del compromesso tra capitale e lavoro così come si era realizzato alla fine della guerra. Noi siamo qua dentro. Dobbiamo ragionare partendo da questo punto di analisi e non adoperando il “senno di poi”. Il “senno di poi” è una scienza esatta, perché è una delle poche scienze assolute che esistano, dato che è facilissimo “poi” riconnettere le scelte in chiave di errore, insufficienza, debolezza.

 

 

La sconfitta della sinistra in Europa.

Ma attenzione: credo che faremmo un cattivo servizio alla verità se non andassimo a fondo nell’analisi della situazione in cui ci troviamo e se, a dimostrazione del fatto che noi siamo una parte del problema e non la soluzione del problema, usassimo occasioni come queste per atteggiamenti di critica e di autocritica che, decriptati, sono soltanto resa dei conti interna a un gruppo dirigente. Io vi invidio molto perché, avendo una responsabilità in più rispetto a voi, non posso partecipare al rito dei “sassolini nella scarpa” e devo invece invitarvi a non farlo, e a ragionare di politica. E a ragionare di politica per il dovere che noi abbiamo nei confronti del paese, perché penso di poter dire che non avevamo visto male. Non avevamo visto male a Firenze, nell’unico congresso che fin qui abbiamo fatto, un congresso né rituale né celebrativo, ma un congresso in cui abbiamo posto un problema: esattamente la lettura della sconfitta di lungo periodo. Una sconfitta che è tutta interna all’incapacità delle forze della sinistra di tutta Europa di leggere il mutamento di fase, la trasformazione del capitalismo mondiale da capitalismo prevalentemente industriale a capitalismo prevalentemente finanziario, con ciò che comportava anche nei suoi riverberi sui sistemi politici e sulle forme della democrazia.

 

La sinistra europea ha largamente pensato di poter dominare le tendenze liberiste del mercato mondiale e la sinistra radicale ha pensato che il suo compito fosse sostanzialmente quello di denunciare questa svolta a destra delle forze socialdemocratiche. In uno schema che era, congiuntamente, un de profundis per la sinistra del futuro. La sinistra del passato, nel frattempo, poteva  acconciarsi a sopravvivere in tanti modi. Noi abbiamo provato a nascere lì dentro, avendo una percezione del fatto che la forma partito fosse consumata, percezione che non aveva nessuno in Italia come l’avevamo noi. Vorrei ricordarvi che avevamo chiesto in prestito ad un protagonista della politica europea come Daniel Cohn-Bendit la sua indicazione sul futuro del partito come “cooperativa sociale”, una traccia interessantissima. La possibilità cioè di reinventare forme di agire collettivo che avessero dentro un elemento etico e comunitario, un elemento solidaristico. Sono molto contento di sentire adesso tanto rimpianto di quelle “Fabbriche di Nichi” che il partito uccise, considerando quell’esperienza nemica del partito, una minaccia per il partito. Bisogna pur ricordare come si sono svolti i fatti, proprio perché quell’esperienza forse conteneva francamente una minaccia all’idea che potesse esser tenuto in vita un partito la cui forma nasce morta e non invece un partito che vive una tensione permanentemente critica sul tema della sua forma.

 

I nostri risultati, i referendum e le amministrative.

Abbiamo sbagliato in questo? Io penso di no e abbiamo ottenuto dei risultati straordinari. Noi siamo stati un partito di modeste dimensioni elettorali che tuttavia ha segnato la storia politica del paese. Non mettiamoli in fila come se fossero dei salmi da recitare, ma il referendum e le amministrative sono stati il punto più alto dell’esibizione del pericolo che noi rappresentavamo per una serie di poteri reali. Noi. Referendum, che abbiamo correttamente letto come una vittoria del centrosinistra suo malgrado, cioè una vittoria del centrosinistra che non c’è, come domanda di popolo, come domanda di cambiamento. I 27 milioni di voti che mordono la natura del berlusconismo in quanto progetto di privatizzazione onnivora, globale, della realtà. E poi le partite su Milano, su Cagliari, su Genova, su Rieti e sulla Puglia. Che cosa hanno fatto emergere queste partite? Il punto non era quello delle percentuali nostre; certo, avere il 10% è diverso che avere il 3,5%. Ma il punto era quello di una capacità di egemonia sulla scena politica e sul centrosinistra tale per cui la prospettiva di un centrosinistra affrancato dalle ipoteche di subalternità e subordinazione alla cultura liberista era praticabile e apriva più di un varco a una speranza gigantesca. Ma, scusate, contro che cosa si è mosso il mondo se non contro questa idea? Ma pensate che io fossi emotivamente spompato a fare le primarie nel momento in cui sono stato costretto a farle, che il problema fosse un fatto mio psicologico, soggettivo? Non avevamo la percezione di come si fosse determinato un ribaltamento del terreno politico, culturale, simbolico? Le primarie sono state celebrate quando si è caricato su Matteo Renzi il ruolo che ancora un anno prima era prevalentemente sulle spalle della nostra vicenda collettiva. “Cambiamento” sulle nostre spalle aveva immediatamente un richiamo alla questione sociale e alla questione dei diritti civili: un anno dopo “cambiamento” diventata prevalentemente la rottamazione di una classe politica e di una generazione. Ma anche Renzi, subito dopo le primarie, ha fatto il suo tempo, ed è scoccata l’ora di Grillo. Il “cambiamento” come generalizzazione del rancore nei confronti di ciò che viene percepito come privilegio e inerzia a fronte di una povertà dilagante. E quello che è accaduto nell’anno di Monti noi ce l’avevamo chiaro in mente, ancor prima che il governo di Monti cominciasse.

 

 

La categoria politica del “centro” e la scomparsa del ceto medio. 

E anche qui, vorrei sapere in cosa abbiamo sbagliato. In cosa abbiamo sbagliato nel momento in cui nasceva il governo Monti e il popolo nostro ci diceva: attenzione. C’è stata una grande emozione popolare sulla nascita di quel governo, quell’emozione era dentro i nostri circoli, era dentro la nostra gente. E abbiamo dovuto evitare di disconnetterci sentimentalmente dal popolo nostro, abbiamo avvertito che le politiche di austerità sono l’altra faccia del populismo. L’abbiamo detto subito, con chiarezza, abbiamo soprattutto avvertito che la rimozione del berlusconismo era un fatto clamoroso, e immaginare che fosse una storia finita, quasi si trattasse di un epifenomeno della politica e non di un corposo fenomeno della società, della cultura, del berlusconismo come di una rivoluzione compiuta in Italia. Certo, rivoluzione reazionaria, con i tratti del regresso civile, del regresso culturale, del regresso sociale. Ma come si può immaginare, come noi abbiamo fatto, noi accecati, noi, dico, la sinistra dei facili festeggiamenti, che l’uscita da Palazzo Chigi  compisse un ciclo? E non consentisse invece di riprender fiato,  di ricalibrare un discorso pubblico in cui era evidente l’interesse a separare la classe dirigente del centrodestra dalla percezione del dolore sociale, in modo tale che si potesse compiere il gioco delle tre carte su chi ha la responsabilità del disastro attuale.

E la politica e il giornalismo, quanto hanno compreso che il dolore di cui si parlava talvolta nelle inchieste televisive non era lo stesso di prima, che non eravamo più al racconto della “società dei due terzi”, dove due terzi seduti sui propri stardard di sicurezza sociale guardano quel terzo escluso il cui smarrimento viene raccontato dalla sociologia del dolore? Un corno, compagni! E’ sempre la “società dei due terzi”, ma due terzi sono quelli esclusi, un terzo è quello incluso. Cioè il dato, vorrei che lo ricordassimo, è che siamo nati ragionando sul fatto che la categoria del centro non aveva a che fare con la realtà italiana perché stava scomparendo il ceto medio. Abbiamo fatto questo discorso: il centro ha un ruolo straordinario anche per la tenuta democratica quando, com’è stato per la vicenda italiana della democrazia cristiana, è il traghettamento della piccola borghesia fascista dentro la democrazia e l’invenzione di corpi intermedi della società che  – con l’ideologia del risparmio, la cultura del sacrificio, gli artigiani, i commercianti, la piccola proprietà contadina, i maestri e le maestre e così via –  consentono di guardare ai ceti subalterni come a una prospettiva di avanzamento e sono la base sociale di una democrazia. Credo che un regime, un regime di qualsiasi tipo, non si possa reggere senza ceti medi: un regime democratico fa fatica a stare in piedi senza un largo e diffuso ceto medio. La scomparsa del ceto medio è un problema sociale, politico e culturale di dimensioni gigantesche, che fa capire quanto siano ridicole le culture politiche del moderatismo, rispetto al problema di radicale espropriazione di senso sociale e di ruolo di questa parte della società.

Penso che noi abbiamo ragionato di questo, fondamentalmente. Abbiamo provato a lanciare un messaggio nella bottiglia. E’ ovvio che siamo arrivati alle primarie, dico per me, con il dovere di starci. Ma con la consapevolezza piena che stavamo dentro un’altra storia, non so se è chiaro. E che bisognava avere pazienza, che la fragilità, la vulnerabilità del nostro corpo è legata al fatto che siamo contemporaneamente percepiti o come rischiosamente eredi del bertinottismo, e quindi inaffidabili, o pericolosamente complici della subalternità culturale. In questa vicenda è difficile immaginare che ci fosse un modo preventivo di risolvere un problema che aveva a che fare con la lotta politica. Non si poteva sconfiggere Monti preventivamente nel rapporto con il partito democratico. Non so come, cosa bisognasse fare, se non sconfiggerlo come ipotesi di autoprigionia della cultura della sinistra: non un’alleanza ma una resa, abbiamo detto più volte. Ma in questo ha giocato il politicismo non soltanto del partito democratico, cioè di una cultura riformista esausta, bisognosa di rinnovare le fonti, le ispirazioni, il vigore, la natura e il vocabolario. Ma su questo il riformismo del partito democratico e il radicalismo alla nostra sinistra erano miopi nella stessa identica maniera. Tra D’Alema e Ingroia c’è lo stesso torcicollo, la stessa ossessione per Monti. E per noi è stato francamente duro e difficile.

Avessimo fatto un’altra scelta… Ma qual era un’altra scelta a nostra disposizione? Certo, dobbiamo partire dal fatto che la crisi importante del partito democratico coincide con la nostra crisi, cioè la nostra ipotesi è quella di una sinistra di governo capace di partire da qui, dall’Italia, per far massa critica e rimettere insieme un fronte dei progressisti in Europa. Tutta la nostra ipotesi politica è dentro lo schema non del prevalere dell’alleanza ma del prevalere della consapevolezza che si aggrava la crisi sociale del paese, nella pancia dell’Italia non covano fermenti rivoluzionari in senso progressista, ma covano fermenti rivoluzionari in senso reazionario, come sempre accade quando le società si impoveriscono. Si va verso la guerra, si va verso la dittatura, difficile andare verso il sol dell’avvenire, non so se è chiaro. Questa era la necessità nazionale di svolgere un ruolo e di darci una missione in questa partita.

 

 

Il Movimento 5 stelle e la nostra battaglia culturale e politica.

Oggi l’analisi che noi dobbiamo fare degli interlocutori, dei problemi, dei soggetti che abbiamo di fronte dev’essere, se posso dirlo, un po’ più smaliziata. Grillo: vi prego di non leggere le cose che diciamo su Grillo come ha fatto Mattia Feltri sulla Stampa in uno dei tanti pezzi intinti di vetriolo che quotidiani come la Stampa e il Corriere ci dedicano con ritmo incalzante. Mica si tratta di vedere ciò che è buono e ciò che è cattivo in Grillo. Il voto al Movimento 5 Stelle, poi la rappresentanza delle 5 Stelle, poi Grillo e Casaleggio, sono tre questioni tra loro distinte. Il movimento 5 Stelle prende un consenso straordinario che rappresenta un terreno molteplice, plurale e ambiguo di domanda di cambiamento. Io non propongo di selezionare gli elementi che hanno un qualche grado di consanguineità con i nostri elementi e di provare a governare. Io dico che dobbiamo veramente sconvolgere le nostre categorie con cui analizziamo un fenomeno come quello e semplicemente provare ad andare incontro a quel cambiamento con una battaglia culturale, con una battaglia politica. L’idea di avere come obiettivo il cento per cento del consenso è un’idea da brivido, come tutti voi potete immaginare. Dobbiamo ricordarci che la democrazia vive non soltanto della forza e dell’espressione orizzontale dei desideri delle persone,della loro soggettività: vive anche del culto assoluto dei diritti delle minoranze e su questo è inutile dire null’altro che non abbia già scritto Zagrebelsky nel suo saggio sul “Crucifige”, cioè su una democrazia plebiscitaria che mette in croce Cristo. Attenzione. Io penso che nessuno di noi abbia reticenza a questo livello della battaglia culturale.

Ne dico un altro di elemento. Si può avere la distanza più lontana dai propri avversari, considerarli veramente gli avversari della vita, combatterli con durezza. Ma l’elemento della denigrazione morale dell’avversario è però dentro di sé, in nuce, qualcosa di inaccettabile. Ognuno di noi, quando si legge nelle cose dei grillini, è colto da un elemento di ansia e di smarrimento. Io ho più di quarant’anni di vita politica, quarant’anni di vita politica inghiottiti dentro un insulto. Forse anche per il fatto che sono tanti quarant’anni di vita politica e chissà perché, avere passione civile e passione politica a quattordici anni è considerato segno di vitalità; averlo avuto a quattordici anni quando ne hai cinquantaquattro è segno di degrado morale, non lo so perché. Ma attenzione, anche questo è un elemento che culturalmente noi dovremmo apprezzare un po’ di più. La denigrazione organizzata: ogni volta che io scrivo qualcosa nella rete, so che ci sono almeno quaranta grillini che hanno proprio come loro missione il marcamento a uomo. Qualunque cosa io dico, qualunque cosa io propongo, hanno il compito dell’infamare, del macchiare. Anche questa è una modalità di sporcare una passione genuina. Perché io immagino che ciascuna di quelle persone che hanno come compito (io parlo di me, ho analizzato su di me queste cose) di sporcarmi, siano persone in perfetta buona fede, siano giovani pienissimi di volontà di cambiamento. Ma attenzione, la volontà di cambiamento è anche quella che ti porta a bombardare i Buddha e a pensare che sia salutare devastare i segni della civiltà degli altri. Anche su questo io non penso che dobbiamo fare un passo indietro rispetto alla battaglia culturale di civiltà.

Ma abbiamo sempre questi tre elementi: un voto straripante, che contiene fino in fondo anche il disincanto verso il centro sinistra; una rappresentanza di cui sappiamo molto poco (avremo modo di audire voci, pensieri e parole, ma ho l’impressione che nelle questioni di fondo, dal lavoro, alla giustizia, alla scuola, alle banche, ci possiamo trovare di fronte a un repertorio larghissimo di differenze interne a quell’area, e forse è anche questo un motivo per cui finora è stata un’area silenziata, perlomeno rispetto a quello che riusciamo a percepire); un capo, o forse due in Grillo e Casaleggio. Non si tratta però adesso di essere fiacchi con Grillo, si tratta di sapere che lì dentro ci sono anche degli elementi che appartengono fortemente ai doveri di una sinistra riformatrice in questo tempo di crisi. La riforma della politica: e qui, vi prego, non fate l’autocritica degli altri ( ricordo un simpaticissimo Giorgio Amendola quando diceva “i compagni sono bravissimi a farsi l’autocritica degli altri”), perché qui credo c’è un problema per tutti noi. Se ripercorressimo le vicende della formazione delle liste potremmo avere materiale su cui riflettere: qual è stato il riverbero dei territori su tutti i punti di crisi e di lacerazione e quali sono le tendenze non solo all’autoconservazione dall’alto ma anche a uno sfrenato elettoralismo dal basso. Noi siamo globalmente lo specchio di una crisi: quello che ci differenzia dagli altri è che lo diciamo, che proviamo ad analizzarla questa crisi e che in una qualche maniera proviamo anche a reagire, naturalmente con tutte le insufficienze di un’organizzazione come la nostra che nasce con una natura pattizia e che fa fatica a sciogliersi in una forma comunitaria in cui la solidarietà sia quella dei membri della nuova comunità e non quella degli antichi sodalizi.

 

 

Il PD, noi, la sinistra in Italia: si è esaurita una storia.  

Poi c’è il partito democratico. Anche qui, compagni: scioglierci nel partito democratico! E’ proprio un  modo di discutere fuori del contesto. Ad un certo punto ci si ferma e in astratto ci chiediamo: esistiamo? Ci sciogliamo? In questo momento il processo politico è ricco, articolato, vorticoso; vedremo che succederà con l’incarico a Pierluigi Bersani. Abbiamo apprezzato lo sforzo di stare in sintonia con noi di Bersani. Certo, non abbiamo una grandissima audience, però abbiamo svolto un ruolo. Nel momento del panico, quando il partito democratico diceva “elezioni anticipate” mentre ancora si stava scrutinando, o diceva “governissimo”, noi abbiam detto “no”. Abbiamo rotto il tabù e abbiamo detto di andare a vedere le carte di Grillo. Abbiamo provato a impostare differentemente la questione, anche per una previsione, che è quella che se si dovesse tornare alle elezioni anticipate dovrebbe essere chiaro a tutti che si tratta di una scelta frutto del politicismo di Grillo, cioè della prevalenza del calcolo elettorale rispetto agli interessi del paese. Questo  è quello che abbiam detto.

E’ finita la serie delle varianti? No, non è finita. Perché ovviamente ci sono altre varianti più consone alla cultura politica delle nostre classi dirigenti ed è probabile che se fallisce Bersani noi ci possiamo trovare di fronte a uno schema rovesciato, che è quello che pone, a fronte di un nuovo governo tecnico, il partito democratico dinanzi alla responsabilità di portare eventualmente il paese alla crisi. Salvare il senso di responsabilità e suicidarsi contemporaneamente, perché qualunque abbraccio con la pdl porta a un principio di deflagrazione. Questo è lo scenario. Quando io dico si è esaurita una storia, sia la nostra sia quella del partito democratico, sto dicendo che si è esaurito un ciclo, si è esaurita una fase. Sto dicendo che dobbiam fare politica, che dobbiam vivere, che dobbiamo essere capaci di fare qualcosa. Non dico raccogliere le firme per il reddito minimo garantito che forse è eccessivo come fatica fisica. Ma per lo meno essere attori nella società, capendo che il tema è posto, il suo svolgimento è davanti a noi. I partiti non nascono in laboratorio, non sono delle creature che nascono in provetta: si fanno nella società, nel vivo della contesa, nell’organizzazione degli interessi, delle culture.

Il tema è il vuoto della sinistra che c’è in Italia. Noi siamo stati una allusione, talvolta un’illusione. Oggi siamo un frammento di un discorso tutto da costruire, il partito del progresso del futuro. “Benvenuta sinistra” era lo slogan giusto, a una condizione: che si potesse spiegare che il deficit di sinistra aveva accompagnato lo smarrimento dei diritti delle persone. Quanto meno sinistra c’è stata nei luoghi istituzionali tanto peggio è stata la vita reale delle persone. La sconfitta politica della sinistra ha accompagnato simmetricamente il regresso sociale di una parte larga dell’Italia, questo è stato. Dunque, “benvenuta sinistra” doveva significare “benvenuta giustizia sociale”, “benvenuta la laicità”, “benvenuti i diritti di libertà”, “benvenuto un paese ambientalista”, “benvenuto un paese che fa una battaglia esplicita contro l’illegalismo di massa”. Ecco, riflettiamo anche sui tre ingredienti che hanno agganciato di nuovo la pancia larga del sud: condono tombale, condono edilizio e Imu. Veramente noi siamo diventati grillini al punto tale da pensare che tra politica e società c’è uno iato e che la politica fa schifo mentre la società è un’entità  virginale? Veramente pensiamo che  non c’è una relazione tra società e politica? Io ho provato a dirlo così in campagna elettorale: Berlusconi fa appello all’illegalismo di massa, cioè fa appello ad un terreno sul quale noi non possiamo agire moralisticamente. Si tratta davvero di capire qual è invece il modello di sviluppo che metti in campo, come cambia il tuo vocabolario. L’ambientalismo del centrosinistra è domenicale, mentre la sua propensione cementificatrice è feriale.

In questo momento mi pare molto saggia la scelta della CGIL di dire “facciamo un governo per il lavoro”. Noi di qua dobbiam partire. Il 65% degli italiani stanno male, ci dicono i dati. Cresce la povertà continuamente, ci sono urgenze di ore, di ore. Noi non possiamo tenere fermo il paese non dico per sei mesi, non possiamo tenere fermo il paese per tre mesi. E la ragione per cui andava fatto l’azzardo dell’alleanza con il partito democratico, è perchè sta crescendo ovunque in Europa la consapevolezza materiale  della sostenibilità delle politiche di austerità. Questa è stato il terreno. Credo che se potessero tornare indietro, sapendo quello fanno non solo dal punto  di vista elettorale, anche dal punto di vista dei dati più recenti che hanno fornito Banca d’Italia e altri su quella che è la condizione sociale reale del paese, penso che il partito democratico farebbe un’altra campagna elettorale. Allora, noi abbiamo urgenza di provare a dare delle risposte non moralistiche.

Sulla corruzione, c’è l’urgenza di dare una risposta a un fenomeno che è di devastazione dell’economia, della ricchezza del paese. Vorrei dire che c’è un silenzio sul processo di riorganizzazione capillare delle mafie in tutta Italia che fa paura. Quello che io osservo in Puglia, dopo anni e anni  di marginalizzazione dei clan, è che negli ultimi tre mesi c’è stato un salto incredibile. Ne parlo dicendo a tutti noi che l’educazione alla legalità e il galateo antimafia oggi sono veramente un orpello retorico a fronte della necessità di parlare di corruzione e di criminalità organizzata come di architravi dell’idea di uno sviluppo e della crescita di un modello sociale. Una cosa concreta, visto fra poco parleranno i parlamentari del partito democratico: che altro bisogna aspettare, dopo quello che ha scritto ieri il New York Times, per dire  non “diminuiamo” ma “cancelliamo” il programma di acquisto degli F35, che altro dobbiamo aspettare? Dice il New York Times di ieri: fonti del Pentagono asseriscono l’assoluta inutilità anche come strumenti di combattimento di questi velivoli. E’ una cosa, una, e su quella vorrei convocare una manifestazione di massa per dire, immediatamente, quelle risorse sono cifre che possono alimentare il fondo per la non autosufficienza, avviare un piano di rimessa in sicurezza delle scuole e così via. Allora, attenzione. Anche la maniera di discutere del partito democratico ha a che fare con soggetti esterni al partito democratico, basti citare la CGIL.

 

 

La casa dei progressisti e la nostra adesione al PSE.

Per noi c’è uno spazio politico reale, non per la nostra sopravvivenza, ma spero per la nostra dissoluzione in un soggetto che sia la casa dei progressisti del futuro e dobbiamo vivere questo spazio come un fatto costruttivo. Lo dico in forma provocatoria: dobbiamo essere capaci di parlare al paese e di parlare al partito democratico parlando al paese, Dobbiamo fare una riflessione sul nord molto seria, perché non sappiamo ancora come sarà la ripartenza della macroregione del nord. Voglio dire due ultime cose. Siccome la partita, come si è visto, è tutta sul destino dell’Europa, io francamente penso che noi non possiamo ulteriormente indugiare nel fare una scelta, nell’individuare qual è il luogo in Europa in cui si può determinare l’accumulo delle forze, delle energie necessarie, in questo momento particolarmente inquietante di crisi. Grillo è un fantasma che si aggira per tutta l’Europa e noi dobbiamo sapere qual è il luogo in cui si può ricostruire il fronte del progresso della sinistra in Europa.

Io penso, lo dico, non tutti siamo d’accordo: questa volta  dobbiamo giungere a sciogliere il nodo. Penso che questo è il tempo in cui dobbiamo entrare come componente caratterizzata da una forte propensione ecologista e libertaria, dentro il Partito del Socialismo Europeo. Penso che sia il modo non soltanto di segnalare che la nostra vicenda non è una vicenda di bassa cucina, ma è una vicenda della politica europea, un modo di stare dentro, anche  nei confronti del centrosinistra e del partito democratico, la costruzione di una nuova Europa e il modo più spiazzante, più intelligente di tornare a porre l’agenda vera delle cose da fare.

 

 

Essere il lievito del cambiamento.

Vorrei ringraziare le amiche e gli amici,le compagne e i compagni che si sono candidati con noi e che hanno partecipato a questa discussione. Noi come partito, io come persona, mi sento in debito nei loro confronti. A  molti di loro abbiamo chiesto qualcosa che è normale chiedere a noi stessi. Noi viviamo pericolosamente da tanti anni, viviamo con le nostre forze, i nostri sacrifici, facendo davvero degli sforzi talvolta sovrumani. Volevo dire alle compagne che il lavoro di cura va fatto in un contesto di reciprocità e siccome il leaderismo è una malattia e va combattuta costruendo comunità, penso che in una comunità il lavoro di cura sia un atteggiamento, uno stile operativo, culturale e umano che deve contraddistinguere tutti nei confronti di tutti, anche nei confronti di chi è momentaneamente il leader di questo partito. Penso che sia doveroso da parte mia dirlo, perché da alcuni anni, e ora in maniera particolarmente aspra, siamo dentro una vicenda nella quale capita a ciascuno di noi di discutere di una scelta che ha segnato la nostra vita. Chi ha fatto la politica come l’abbiam fatta noi, chi ad un certo punto ha deciso di non intraprendere la carriera universitaria o la carriera giornalistica e ha deciso un’altra cosa e l’ha decisa non come una carriera ma come una scelta di vita, si trova a fare delle considerazioni che riguardano persino la propria esistenza. Non parlo di me, parlo di ognuno di noi. E quindi bisogna avere delicatezza e rispetto nei confronti di tutti e di tutte. I compagni e gli amici che senza una tessera di partito hanno accettato di condividere con noi quest’esperienza hanno dato anche una prova straordinaria di maturità partecipando a questo dibattito e facendolo senza nessun tipo di recriminazione individuale. Ho trovato alcuni interventi di altissima levatura politica e penso che noi siamo in una situazione complicata e tuttavia credo che dobbiamo riflettere su quello che noi siamo sapendo che io non potrei mai più immaginare Sinistra Ecologia Libertà orfana del contributo di questi uomini e di queste donne. Alcuni di loro sono nella mia testa più vicini a Sel di quanto non lo sia io: mi convincono loro, con le loro parole, con la loro testimonianza, a credere ancora in questo progetto, Non un progetto di autosufficienza, ce lo siamo detti ma forse non ne eravamo convinti e forse questo è stato consentito al leader di dirlo come se fosse una sua civetteria.  La nostra autosufficienza è la nostra morte. O noi siamo lievito per far crescere una prospettiva di cambiamento che sia di sinistra oppure noi non abbiamo alcun senso. Su questo ho costruito il percorso che ho condiviso con tutti voi e in un momento di difficoltà come questo non posso che dirvi: o ripartiamo da qua oppure non c’è speranza per il nostro futuro.

Rifondazione, rivoluzione o evoluzione

6958649e9c75d0802d4483a672aa295403a1cbf4a7d5a9ac245954eeAldo Giannulli sul suo blog affronta in modo sfrontato (che è un sinonimo spregiativo del tanto benvoluto “a viso aperto” la questione di Rivoluzione Civile, Rifondazione, Sinistra Critica e SEL ipotizzando scenari che hanno dell’apocalittico in un ecosistema a sinistra portato al conservatorismo che progredisce al massimo per frammentazione. Le conclusioni sono nette:

Debbo anche precisare che non ritengo affatto che una confluenza di Rifondazione in Sel risolva il problema di costruire un vero soggetto della sinistra radicale. Peraltro guardo con molta attenzione ad Alba e Cambiare si può oltre che Sinistra Critica. Però, Cambiare si può, Alba e Sinistra Critica sono un po’ un gioco di scatole cinesi, in cui una cosa sta nell’altra, ma le persone sono più o meno le stesse. E sono poche, molto poche. D’accordo che Csp ha inaugurato un metodo di lavoro interessante, però, date le scarse forze di cui dispone, è difficile che dia risultati in tempi brevi e qui i tempi sono stretti. Non dimentichiamoci che a giugno 2014 ci aspettano le elezioni europee, nelle quali si vota con sistema proporzionale ma con clausola di sbarramento al 4%. Dopo una nuova sconfitta, quel che resta della sinistra rischierebbe di disperdersi del tutto. E teniamo presente che neanche Sel ha il 4%.

Peraltro, alle Europee non ci sono le coalizioni ed ognuno corre per suo conto. Nel frattempo, c’è un’ emergenza: che si fa dei resti di Rifondazione che, nel complesso, dispone ancora di diverse migliaia di militanti e di sedi un po’ in tutta Italia? Teniamo conto che, allo stato attuale, non ha mezzo euro da spendere e che la prospettiva è quella di una nuova traversata del deserto senza parlamentari. Il rischio evidente è che, nel giro di qualche mese, si squagli tutto, se non c’è un approdo, per quanto provvisorio, verso il quale dirigersi per riprendere fiato.

Considerato che il suo attuale gruppo dirigente è al di sotto di ogni sospetto, la cosa più probabile è che, qualora restasse in sella, farebbe probabilmente due cose:

a- liquidare quel che resta del patrimonio immobiliare del partito per spartirsi con l’apparato il magro gruzzolo a titolo di  ultimi stipendi e liquidazioni

b- nascondersi dietro Ingroia, che è l’unico che continua a credere che Rivoluzione civile esista ancora, per poter andare a battere alle varie porte vicine (M5s, Sel, Pd..) nella speranza che se ne apra una.

Ovviamente, la seconda operazione ha ottime probabilità di fallire e, a quel punto, Rifondazione (posto che ci sia ancora) si disintegrerebbe del tutto. Di qui la necessità di liberarsi di questo branco di parassiti che “dirigono”: non ho detto “sfiduciare il gruppo dirigente”, intendo dire proprio ruzzolarli dalle scale (metaforicamente parlando… si intende).

Ma, anche dopo questa sana disinfestazione del partito (chiamiamolo ancora così), resterebbe il problema di cosa fare, senza denaro, senza accesso alle istituzioni ed ai media, con una base in grave crisi psicologica. Per risalire la china ci vorrebbe un colpo d’ala: un’ iniziativa politica forte ed innovativa, ma questo, a sua volta, esigerebbe un nuovo gruppo dirigente, che sappia prendere in mano le redini ed invertire la tendenza. Ma dove lo trovano?

Pensare che, dopo anni di sonno bertinottiano e di catastrofi ferreriane, dopo anni di assenza di idee politiche e di discussione vera, possa venir fuori d’improvviso un nuovo gruppo dirigente, come Minerva armata dal cervello di Giove, è solo una illusione illuministica. Dunque, le premesse per una ripresa immediata non ci sono, mancano i mezzi e la gente è fortemente sfiduciata. Che si fa? Si aspetta che tutto finisca per consunzione e che l’ultimo spenga la luce? Se non vogliamo che tutto evapori nel giro di una manciata di mesi, occorre dare “un tetto” a quel che resta e l’unica possibilità è Sel, che a sua volta deve iniziare un ripensamento molto serio di tutte le sue scelte. Inoltre, le critiche che vengono mosse circa l’alleanza di Sel con il Pd non tengono conto che:

a- c’è una consistente possibilità che muti la legge elettorale e che le coalizioni non si formino più, ma si vada al voto su liste scollegate

b- non è scritto da nessuna parte che si riformi l’intesa Pd-Sel e che magari non venga fuori un cartello Pd-Monti che obbligherebbe Sel a cercare altre strade

c- il Pd è sottoposto a forti sollecitazioni interne che non è escluso possano sfociare in aperte rotture, nel qual caso l’esistenza di un polo di sinistra piccolo, ma di qualche solidità, potrebbe risultare molto utile.

Insomma, non sto affatto proponendo di ridurre tutta la sinistra radicale a Sel, ma solo di iniziare un percorso di rifondazione (questa volta vera e non solo slogan) che porti alla nascita di un efficace partito di sinistra anticapitalistica. Su questa strada occorre anche lavorare con Alba, Csp e Sinistra Critica, d’accordo, ma intanto occorre evitare la diaspora finale.

La discussione sul futuro della sinistra diffusa è il santo graal di questi ultimi anni per tutto quel pezzo che passa dall’ala sinistra del pd fino ai gruppi più oltranzisti (e lo dico con affetto) a sinistra e la soluzione paventata alla fine è quasi la stessa: mettersi insieme. Eppure sfugge come il punto politico oggi sia questa idiosincrasia ad un percorso identitario reale prima di pensare alle somme: come un accorpamento di corpi celesti di cui non si conoscano ancora perfettamente le sostanze che li compongono ma che debbano stare insieme per la caratteristica comune di “essere troppo piccoli da soli”.

Io non credo che Rivoluzione Civile abbia fallito in questa ultima tornata elettorale (e, attenzione, ritengo che anche SEL esca sconfitta rispetto agli obiettivi) perché non ci sia bisogno di una sinistra in questo paese quanto piuttosto essere risultata una somma con poca identità. Chi come me ha partecipato ai direttivi nazionali (nazionali, attenzione) di IDV non può credere che il dialogo con Diliberto e Ferrero sia frutto di un percorso d’intenti piuttosto che di un calcolo algebrico e nemmeno posso pensare che Ingroia o De Magistris (e con entrambi mi lega una profonda stima e riconoscenza per la loro intelligenza) abbiano potuto credere il “pericolo Monti” potesse essere un valore fondante per una coalizione che vorrebbe guidare l’Italia. Ancora di più oggi che è chiaro che Monti è solo una scheggia rispetto al confronto doveroso con il Movimento 5 Stelle. E nemmeno posso credere che l’ipotesi di una Cosa Seria (e qui, come Puffo Quattrocchi, mi ripeto) con punti precisi e chiari (si possono leggere qui e guarda caso alcuni sono i punti che hanno fatto forte anche il M5S) sia stata vissuta come un azzardo inconcludente.

Ora siamo qui, con un Governo che forse non si farà e con un cerchio in cui non si capisce nemmeno chi ha la palla e chi sta sotto. E sembra impossibile che non si sia capaci di vedere il futuro come nascita piuttosto che conseguenza.

Sarò strano

Schermata 2013-03-02 alle 20.58.52Ma in una giornata come questa, con un Governo in bilico sulle decisione di troppo poche persone (collegate chissà come con i loro eletti e i loro elettori), con una situazione di lavoro e impresa che sta pagando (se ci riesce) questa terra di mezzo come l’ennesima tappa in salita di una crisi che non vede nemmeno l’ombra della speranza dell’arrivo, con un tasso di disoccupazione e produzione che ricorda baratri di altri tempi, con l’ennesimo femminicidio quotidiano, con Berlusconi che definisce (per l’ennesima volta, ma non abituiamoci) la magistratura “un cancro” e con tutto il resto, ecco, in una giornata come questa che il dibattito politico tra Grillo, Bersani e Renzi sia sul finanziamento dei partiti e i tagli alla casta mi fa pensare che forse sarò strano io e che l’agenda della politica segue meccanismi redazionali piuttosto che di responsabilità. Aspettando magari una parola anche dalla nostra parte, a sinistra.

Un voto smoderato

VolantinoA5_GiulioAlla fine si vota. E lo abbiamo voluto, qui in Regione Lombardia, per provare a respirare con la testa fuori da questo formigonismo che ci si è attaccato addosso come un’aria che sembrava inevitabile. Oggi chiudiamo una campagna elettorale che abbiamo annusato sotto questa coda d’inverno tra un’indolenza alla politica come risultato degli ultimi anni.

Sarebbe da scrivere un appello, mi dicono. Sarebbe da chiudere la campagna con il messaggio di fine anno, qualcosa con il vestito presidenziale e l’ottimismo quanto serve per essere leggero, leggibile, spendibile.

E’ stata una campagna elettorale per riattivare il meglio di una Lombardia addormentata tra le braccia di un’economia che sembrava infallibile, sempre abbastanza pronta a superare anche le crisi più dure e disposta (per qualcuno) a rinunciare al dovere dell’etica in nome del dio profitto. Il profitto lombardo che è diventato il paravento dietro al quale i politici si sono evoluti in profittatori, i disagiati sono solo costi, le mafie ottimi soci in affari, i partiti sono le cameriere disinibite delle lobby e le persone sono diventate numeri: numeri a forma di persone da catalogare, da indirizzare, da pesare un tanto al chilo, cose come persone a forma di numeri.

C’è una Lombardia che mi sta nel cuore come le favole dei bambini: la Milano capitale morale che adagia la paglia per rendere più silenziosa e leggera la morte del suo Maestro Giuseppe Verdi, la Lombardia che coltiva le proprie terre e insieme alleva anche la propria storia, la Lombardia dell’impresa che aveva un senso comune dai consigli di amministrazione fino all’ultimo apprendista dove l’impresa era fare impresa per il lavoro, dove il lavoro era l’esercizio della dignità che sta nell’avere diritto e dovere del proprio futuro.

E’ stata una campagna elettorale dove i cittadini mi hanno stupito ancora come due anni fa con il senso della speranza per non accettare una Regione che sembra impaurita e stanca, con l’energia pulita (ed economica) che abbiamo incontrato tante volte nelle commissioni regionali mentre i comitati di cittadini attivi smutandavano il dirigente di turno che abbozzava un mezzo sorriso di dispiacere di fronte alle bugie che non avevano gambe. 

Mi dicevano di non farlo, due anni fa. Di non candidarmi perché non ce l’avrei fatta e perché alla fine mi sarei inquinato anch’io. Mi dicevano che non funzionava la politica. Me lo ripetevano mentre abbiamo messo le mani dentro gli appalti, mentre abbiamo rimosso dirigenti inaccettabili in questi anni, mentre abbiamo percorso chilometri dalle valli ai centri metropolitani a raccontare che la solidarietà lombarda formigoniana è pericolosa e falsa: una solidarietà solo fra sodali, come un clan. Adesso sono ancora qui, per chiedervi se sono stato all’altezza del compito che mi era stato assegnato, se davvero il mio programma si legge in quello che abbiamo già fatto e se abbiamo la fiducia per continuare ancora. Insieme. A cambiare la Lombardia, ostinatamente smoderati e fieri delle nostre differenze. Perché le cose cambiano se siamo disposti a cambiare. E l’aria inevitabile sta cambiando direzione e soffia quasi come un vento.

Se volete votarmi, sarà un voto smoderato. Ostinatamente smoderato. Davvero.

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La signora mi ha sorriso

VolantinoA5_GiulioSono in tanti a chiedere come dare una mano, come essere attivi in questa campagna elettorale che in questi ultimi giorni si gioca sui centimetri delle proposte forse molto di più dei patetici balletti sulle alleanze. La Lombardia finalmente discontinua è un traguardo alla portata del centrosinistra e del Patto Civico per giocarsi con Umberto Ambrosoli la possibilità di raccontare un’alternativa a Formigoni e i suoi formigonismi: pensiamoci bene, una cosa inimmaginabile fino a non molti mesi fa. Quando finisce un’era forse non è tanto importante gioire per le inchieste, le indagini e i rinvii a giudizio ma raccontare i nostri progetti, le soluzioni, le proposte concrete senza perdersi in sofismi.

Qualche giorno fa mentre concludevo una serata nel nostra campagna elettorale a filo d’erba in Lombardia una signora mi si è avvicinata e con molta gentilezza mi ha chiesto “sì, ma se vincete voi, a casa mia, cosa cambia?”. Questa è la domanda a cui dobbiamo rispondere, e provare a spiegare a quella nostra elettrice che potrebbe cambiare il profilo della propria città dalla finestra della cucina senza essere oscurata da inutili infrastrutture che disegnano orizzonti così brutti e spesso vuoti, dovremmo spiegare a quella signora che potrebbe salire su un treno pulito, in orario e così servizievole da fare passare la voglia di tirare fuori l’auto dal box, potremmo spiegare a quella signora che non dovrebbe ogni acciacco spostarsi nell’ospedale convenzionato più vicino ma trovare salute e prevenzione dal proprio medico di base con a disposizione gli strumenti adeguati, dovremmo spiegare a quella signora che suo nipote sarà seguito nell’inserimento al lavoro dopo avere frequentato una scuola pubblica che eccelle in quella specifica professionalizzazione, dovremmo spiegare a quella signora che sua madre non sarà un peso per la sua Regione ma una memoria e una persona da custodire con il garbo che spetta alla storia di queste generazioni e che, magari, quei pochi anni dalla pensione che hanno reso suo marito un “esodato” sono la prima preoccupazione per garantire una serena e meritata vecchiaia. Oppure raccontarle quanto sarebbe bello che la Lombardia tornasse a ricordarsi di essere le regione più agricola d’Italia, con i prodotti, le sue tradizioni e il peso che si merita in Europa durante la discussione della Politica Agricola Comune o provare a raccontare il valore della solidarietà nella città che era la capitale morale d’Italia.

La signora mi ha sorriso. Provare a infondere speranza su un progetto chiaro. Non è difficile. #davvero

Attaccare bottone: la campagna cardiaca d’inverno in Lombardia

E’ uno spostamento di battiti, una campagna elettorale. Uno spostamento di fibre e sensibilità attraverso le storie che chiedono di essere abbracciate in un progetto che possa essere credibile, potabile e che profumi di speranza. Giro molto in questi giorni, inauguro le sezioni di SEL che in tempi di apolitica, antipolitica e sofisticati civismi suonano come avamposti fatti di persone e cose, terminali tattili di una voglia di concretizzare.

Ieri ho partecipato all’inaugurazione della sede SEL di Novate: l’apprensione di un varo preparato con il garbo antico delle vecchie sezioni di partito coccolate come la stanza in più della casa di tutti. Ogni volta che mi capita di stare in mezzo alla voglia di tenere le redini di un ideale mi commuovo. Sarò uno stupido idealista, anch’io, o forse uno spericolato sognatore che non riesce a sostenere l’umanità di quelle persone che ieri hanno speso il pomeriggio a rendere quella stanza (finalmente diventata sede) apparecchiata e pettinata per la festa. Ogni volta che vengo indicato come padrino di un battesimo del genere sento la responsabilità di essere all’altezza dei nostri e dei loro sogni e di questa faticosa costruzione di una chiave di lettura collettiva della Lombardia che in fondo ci immaginiamo così forte da farci sanguinare il naso. C’erano anche dei ragazzi che suonavano, ieri, ranicchiati in un angolo della stanza e ascoltati con la riverenza che si riserva alla musica delle celebrazioni. Io non so se sono troppo fortunato o ingenuo ma in un momento esatto del pomeriggio ho pensato che non possa essere irrealizzabile una volontà così fiera di essere così umana. Nonostante i proclami della Lega, i calcoli da scrivania delle segreterie e i balbettamenti di questo inverno che stringe sulla campagna elettorale. Ci siamo augurati tutti che si riesca a farsi carico del significato dietro quell’apertura. Di questo lavorare capillare. Di questi circoli, sedi e compagni che sono i capillari che chiedono a noi eletti (e eleggibili) di essere le arterie che li tengano in flusso costante con il cuore di una politica che tenga la barra diritta e che nei nostri valori fondamentali accetti solo mediazioni al rialzo. Ci siamo augurati che non fosse una sede con l’aria greve e museale ma fosse un ambulatori di caos vitale e virale che spezzi le catene di questo ripetere continuo che “non c’è alternativa”, che sono tempi di cicuta necessaria e amara. Pensiamo ad una Sinistra che sia la sentinella che veglia con impegno, serietà e professionalità sui valori che non sono storia ma programma.

E’ una campagna cardiaca, quella che si srotola in questi giorni in Lombardia. Fatta con il cuore di chi osa per davvero nel pensare ad una regione che parta dall’eccellenza dei lombardi, questa sì, che è stata tarpata da una classe dirigente nemmeno all’altezza dell’etica e della responsabilità del buon padre di famiglia richiesta ai politici nella nostra Costituzione. Una Lombardia che non dica sempre no ma che ponga le domande giuste: quante tangenziali e autostrade avremmo costruito vietando il cambio di destinazione dei terreni circostanti e immaginando piuttosto l’obbligo di zone boschive per abbattere l’inquinamento, sarebbero le stesse? Quanto dobbiamo aspettare ancora per avere risposte chiare su ipermercati costruiti troppo vicini per avere abbastanza clienti da sostenersi, a chi giovano? Quanto impegno dovremo mettere per raccontare che l’eccellenza degli ospedali privati è tutta nel personale medico e nei contributi a disposizione piuttosto che negli sciagurati consigli di amministrazione? Quanto abbiamo chiarito che la dignità passa per forza dal lavoro, lavoro, lavoro?

C’è già una Lombardia che fa bene. Facciamola insieme.

 

 

 

Un Paese non può giocarsi un’intera generazione

Ridare speranza2Memorandum per il centrosinistra. Di Beppe Severgnini, qui.

Le tradizionali reti sociali – quelle che hanno mantenuto finora la pace precaria nelle strade – si stanno progressivamente strappando. Le famiglie hanno esaurito la pazienza e stanno finendo i soldi: lo dimostrano i negozi «compro oro», il mercato immobiliare e l’andamento dei consumi di beni durevoli. La disoccupazione giovanile (15-24 anni) tra chi cerca un lavoro è al 37%, mai così alta dal 1992. E se questa è la media nazionale, immaginate cosa (non) accade nell’Italia del sud. La percentuale di laureati italiani che cercano fortuna all’estero, in dieci anni, è passata dall’11% al 28%. Non è più sana voglia di esplorare; è una diaspora, pagata con risorse pubbliche.

Davanti a fenomeni di questa portata, a cinque settimane dal voto, uno s’aspetta che la politica rifletta, decida, proponga piani precisi e misure concrete: un Paese non può, infatti, giocarsi un’intera generazione. Ma non accade. I candidati discutono appassionatamente di imposte e di pensioni. Parlano, quindi, a chi un lavoro ce l’ha o l’ha avuto. Chi rischia di non averlo non conta, pare.

Gli italiani con meno di trent’anni stanno diventando una generazione trasparente. Li attraversiamo con lo sguardo, anche quando diciamo di tenere a loro. Un atteggiamento pericoloso: la frustrazione potrebbe trasformarsi in rabbia e avere conseguenze drammatiche. Le avvisaglie ci sono. Gli spaccatutto non hanno trovato alleati. Per adesso. Ma ne cercano sempre, e le cose potrebbero cambiare.

‘Tracce nel villaggio’ intervista Giulio Cavalli

L’intervista originale la trovate qui.

Giulio Cavalli è consigliere regionale della Lombardia. Eletto inizialmente come candidato indipendente nelle liste di IDV ha aderito, successivamente, al gruppo diSINISTRA ECOLOGIA E LIBERTA’.
Oltre che con la politica, Giulio Cavalli, esprime la sua passione civile e lo spirito di appartenenza attiva ad una comunità attraverso la sua multiforme attività di narratore, artista, autore e scrittore.
I suoi libri, “LINATE 2001: la strage” – “Nomi Cognomi ed Infami” – “L’innocenza di Giulio” e gli spettacoli teatrali che scrive e mette in scena sono contaminati da un impegno civile forte ed appassionato.
Le produzioni artistiche ed intellettuali di  Giulio Cavalli sono la declinazione più naturale della sua partecipazione umana ed emotiva  ai grandi temi della vita civile.
Nei suoi spettacoli ha “sbeffeggiato” la mafia ed, a causa delle minacce ricevute dalle cosche,  vive sotto scorta.
Nel dicembre 2009, Giulio Cavalli è stato ricevuto dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che gli ha manifestato la propria solidarietà.

Ho chiesto al consigliere regionale lodigiano di SEL di aiutarci a ragionare sulla situazione politica attuale e sugli scenari futuri dell’Italia che verrà. Lo ringrazio molto per la disponibilità.

La fiducia nella politica e negli uomini che la rappresentano ha raggiunto ormai livelli sconcertanti di impopolarità. Meno del 3% della popolazione è ancora disponibile a riconoscerle un valore positivo. Ci dobbiamo davvero rassegnare alla situazione di rabbia e disaffezione che accomuna indistintamente tutti i politici ?
La rassegnazione non è nel mio vocabolario, sia quello politico che, in modo più largo, in quello professionale e umano. La disaffezione ai partiti è l’effetto di una causa che va affrontata con la voglia di mettersi in discussione sul serio, pensando che la “partecipazione” e la “democrazia interna” non possono essere slogan elettorali ma pratiche reali. Non credo che la disaffezione ai partiti si possa semplicemente risolvere con un “movimentismo” retorico quanto piuttosto con una riforma reale nei bilanci, nei finanziamenti, nella scelta della classe dirigente e nella scuola politica interna. Se il partito viene vissuto come un accrocchio di poche persone che coltivano la propria autopreservazione è normale che i risultati siano quelli che ci si presentano in questo periodo.

A livello nazionale SEL ha aderito formalmente all’alleanza con il PD. Non ritiene che su alcune questioni decisive vi sia una distanza talmente inconciliabile di vedute da disorientare l’elettorato ? Penso ad esempio al giudizio sulle riforme Monti, agli impegni militari internazionali, alla diversa visione sull’utilità delle opere pubbliche (TAV – rigassificatori), ai rapporti con il mondo della finanza e dell’economia.
Il rischio c’è ed è alto. La scelta di SEL è quella di rinunciare a lasciare il campo del centrosinistra scoperto per rivendicare i propri temi in un’ottica di governo. Si può essere d’accordo o meno nella scelta (è la bellezza della politica, del resto) ma resta un segnale chiaro di assunzione di responsabilità in un dibattito con posizioni spesso così diverse. La riuscita del percorso si può leggere nel momento in cui alcuni punti fortemente di SEL sono entrati nel dibattito delle primarie costringendo tutti i candidati a prendere una posizione. La vittoria stessa di Bersani bilancia la coalizione verso l’ala che non vede nessuna possibilità di un Monti bis. I prossimi mesi potranno dirci quanto possiamo riconoscere di avere influito su programmi e alleanze.

Il Movimento 5 Stelle è ormai segnalato come la seconda forza politica del Paese. Non le pare troppo sbrigativo liquidarlo come un fenomeno populista e frutto del sentimento incalzante dell’antipolitica ?
Certamente sì. Spesso sono stato criticato perché considerato troppo vicino al Movimento semplicemente perché ne sottolineo una rappresentatività che è da irresponsabili ricondurre al populismo. Il M5S risponde ad esigenze che non trovano risposte nelle altre forze politiche: questo dovrebbe essere lo spunto da cui partire. Quali dei punti di programma possono essere adottati anche da noi in modo intellettualmente onesto? Ci sono dei meccanismi del M5S che siamo pronti a riconoscere e sviluppare? Se partiamo da queste domande ritorneremo finalmente nel campo della politica.

Il consiglio regionale lombardo è stato falcidiato da una sequenza impressionante di episodi legati all’illegalità, alla corruzione ed alle infiltrazioni mafiose. La domanda è ricorrente: è mai possibile che solo l’intervento della magistratura possa modificare l’andazzo vergognoso della politica ?
E’ la sconfitta del primato della politica che proprio per questo paga pegno nel campo della credibilità. La caduta di Formigoni deve essere la discussione di un nuovo modello politico al di là delle responsabilità di questo o quell’assessore. La magistratura e gli scandali (se visti dall’alto con oggettività e la giusta distanza per giudicare le cose) raccontano un modello amministrativo in balìa dell’etica e della corruttibilità dei diversi interpreti assolutamente incapace di difendersi. Formigoni ha puntato tutto in questi 17 anni sull’accentramento dei poteri alla Giunta svuotando di fatto il Consiglio dei propri diritti e doveri di controllo e indirizzo: solo così infatti ha potuto prolungare un’attività di lobby che in Lombardia ha svenduto diversi settori a questo o quel gruppo di amici da mantenere.

Il suo giudizio sulla Lega 2.0. La convince il nuovo corso targato Maroni ?
Pubblicità allo stato puro e più banale: rimozione del passato per proiettare un futuro di speranza ignorante.

Le grandi opere regionali, la sanità, gli appalti ed EXPO sono materie particolarmente appetitose per la criminalità mafiosa. Dal suo punto di osservazione (da uomo politico, scrittore e conoscitore dei fenomeni mafiosi) qual è il livello di compromissione con la mafia e la corruzione della vita pubblica nella nostra regione ?
Al di là del fattore politico la questione lombarda è una questione morale. Mi rimane il dubbio che i “premiati” di questi ultimi anni siano (e non è un caso) coloro che sono riusciti a misurare con attenzione le proprie spericolatezze. Abbiamo dimenticato di innescare processi etici non solo in politica ma anche nell’imprenditoria, nell’educazione civica e nell’applicazione di una meritocrazia che premi la moralità. Quando ero poco più di un ragazzino coglievo già questo fenomeno tutto lombardo di ammirazione per le carriere “con ombre” come se fossero necessarie per tenere alto il PIL lombardo.

Formigoni non manca di celebrare pubblicamente l’eccellenza di regione Lombardia. Un confronto oggettivo con il resto del Paese ed il raffronto con i più standard avanzati europei depongono a favore della dichiarazione del presidente. Anche i cittadini lombardi riconoscono una elevata qualità complessiva del sistema dei servizi regionali. Qual è la sua opinione ?
Parlare di eccellenza lombarda è offensivo. Formigoni spieghi l’eccellenza della sanità ai parenti delle vittime della clinica Santa Rita o alle famiglie rimaste senza reddito dei lavoratori del San Raffaele. Poi ne riparliamo.

So che non è un argomento di cui parla volentieri, ma può chiarire meglio la vicenda della sospensione della sua scorta ? Le è stata reintegrata ? Come ha vissuto quel passaggio delicato della sua vita personale ? La questione è, a mio parere, di rilievo pubblico perché la sua battaglia contro la mafia è la battaglia della gente perbene e corrisponde al nostro desiderio di Stato e legalità.
Ritengo le questioni di scorte e sicurezza non notiziabili. La mia sicurezza rientra in un “patto” tra me e lo Stato che inevitabilmente ogni tanto si inceppa in alcuni atteggiamenti dei diversi interpreti come succede in ogni burocrazia. Sono e mi sento al sicuro.

Conferma la sua decisione di candidarsi alla guida di regione Lombardia ? Quali saranno i punti qualificanti del suo programma ?
La decisione definitiva è stata quella di appoggiare la candidatura di Umberto Ambrosoli che, tra le altre cose, è anche un amico. Credo che il rilancio etico della Lombardia possa trovare in lui un ottimo volano.

Il dopo Monti è una prospettiva ancora sfocata ed oggi impossibile da rappresentare. Quali sono secondo lei le linee guida che dovranno ispirare la nuova stagione politica ?
L’alternativa a Monti. Uscire dall’angolo in cui ci hanno cacciato tutti coloro che insistono nel convincerci che non esiste alternativa all’austerità per uscire dalla crisi, possibilmente con una sinistra che si prenda la responsabilità di essere di sinistra e di governo.

Dobbiamo davvero considerare concluso il periodo storico che passa sotto il nome di “berlusconismo” ? Che eredità lascia quest’esperienza ventennale al Paese ?
Culturalmente ci vorranno anni per un dipanarsi serio e sincero nei diversi strati sociali e nei modi della comunicazione imprenditoriale e politica. Il berlusconismo è l’amor proprio elevato a dovere antisociale per le legittima difesa, è la banalizzazione dello scontro per creare tifo e annullare le analisi, è nello strizzare l’occhiolino ai furbi che si arrovellano in prepotenze comunque legali e nelle regole privatizzate e vendute al migliore offerente. Purtroppo è un modello politico, imprenditoriale e sociale: ci vorrà un convincente controlavoro per rimettere in rete chiavi di lettura collettive di questi ultimi vent’anni.

Il suo giudizio sulle elezioni primarie del centro-sinistra.
Partecipate nella discussioni e nell’ampiezza della discussione, sicuramente, ma le primarie si pesano quando si arriva alla sintesi finale che serve per risultare convincenti alle secondarie. E le secondarie da sempre sono le elezioni che mi interessano di più.