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trattativa stato-mafia.

Al Quirinale due chiacchere con i boss

7 OTT – La Procura di Palermo, in una memoria depositata alla Corte d’Assise, ha dato parere favorevole alla partecipazione dei boss Toto’ Riina e Leoluca Bagarella e dell’ex ministro Nicola mancino alla deposizione, al Quirinale, del Capo dello Stato al processo sulla trattativa Stato-Mafia.
I capimafia, qualora la Corte accogliesse la loro istanza di assistere alla deposizione, parteciperebbero in videoconferenza dal carcere, mentre Mancino potrebbe assistere dal Quirinale. Secondo i pm, infatti, la possibilita’ di partecipare all’udienza, seppure con le forme della videoconferenza, sarebbe prevista dalla norma richiamata dalla Corte d’Assise per lo svolgimento dell’udienza al Quirinale, cioe’ l’articolo che disciplina l’audizione del teste sentito a domicilio. Inoltre – per la Procura – alla luce dei principi generali che consentono all’imputato di partecipare al processo, un’eventuale esclusione, a fronte di una precisa istanza, potrebbe determinare una nullita’ processuale. Da qui il parere favorevole della Procura. (ANSA).

Io pagherei per sapere le domande che potrebbe porre l’avvocato di Riina, ad esempio.

“La vera storia della vicenda Berlusconi? Mafia, mafia, mafia, soldi, mafia”

emilio-1I pm che indagano sulla trattativa Stato-mafia hanno interrogato Fede dopo che dalla procura di Monza è arrivata la registrazione di una conversazione. Un file realizzato con il telefonino da Gaetano Ferri, personal trainer di Fede, che nel luglio del 2012 registra una conversazione con l’ex direttore del Tg4, all’insaputa di quest’ultimo. Nella registrazione si sente Fede che spiega alcuni passaggi dei collegamenti tra Arcore, Dell’Utri e Cosa Nostra. “C’è stato un momento in cui c’era timore e loro avevano messo Mangano attraverso Marcello” spiega Fede al suo interlocutore. Che ribatte: “Però era tutto Dell’Utri che faceva girare”. “Si, si era tutto Dell’Utri, era Dell’Utri che investiva” risponde Fede.

Poi il giornalista si pone una domanda retorica con risposta annessa: “Chi può parlare? Solo Dell’Utri. E devo dire che in questo Mangano è stato un eroe: è morto per non parlare”. Quindi il giornalista fornisce al suo personal trainer la sua estrema sintesi di quarant’anni di potere economico e politico: “La vera storia della vicenda Berlusconi? Mafia, mafia, mafia, soldi, mafia”.

Parola di Emilio Fede.

Trattativa Stato-Mafia: azzerato il pool

E’ una notizia che leggeremo poco, ne sono sicuro, domani sui giornali eppure pone qualche interrogativo:

“In conformità a quanto previsto dall’art. 102 terzo comma i procedimenti riguardanti i reati indicati nell’art. 51, comma 3-bis, c.p.p. debbono essere assegnati a magistrati della Direzione distrettuale antimafia, salvo casi eccezionali”. Il virgolettato parla chiaro. I primi di marzo il Plenum del Csm ha modificato l’art. 8 della circolare sulle Direzioni distrettuali antimafia nelle procure. Di fatto sono stati individuati criteri molto più rigidi per individuare i “casi eccezionali” che consentono la designazione di magistrati non appartenenti alla Dda per procedimenti da assegnare a quel gruppo di lavoro. Al di là dei codici e dei commi la circolare del 5 marzo del Csm potrebbe essere chiamata “anti pool trattativa”. Con un tratto di penna viene tecnicamente impedito ai pm del pool: Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene di poter fare nuove indagini sulla trattativa Stato-mafia in quanto fuori dalla Dda. Di Matteo non vi fa più parte da quattro anni ed è formalmente assegnato al gruppo che si occupa di abusi edilizi, mentre Tartaglia non ne fa ancora parte. Di fatto fino ad ora i due pm erano stati solamente “applicati” al pool del processo Trattativa. Per quanto riguarda Francesco Del Bene, dal primo giugno, scadranno i 10 anni di appartenenza alla Dda. Unico a rimanere: il procuratore aggiunto Vittorio Teresi, già coordinatore del gruppo, che si ritroverà a dover assegnare ad altri magistrati i nuovi e delicatissimi filoni di indagine sulla Trattativa.

Qui c’è il pensiero di Salvatore Borsellino.

Processo trattativa: Mancino non risponde

>>>ANSA/STATO-MAFIA: A GIUDIZIO TUTTI E 10 GLI IMPUTATILa strategia difensiva di Mancino al processo sulla trattativa Stato-mafia è il silenzio. Certo vale dal punto di vista giudiziario e quindi non resta che concederglielo ma un cosiddetto “uomo di Stato” che non parla e non sostiene una propria posizione in uno dei gangli più oscuri di questo Paese può essere liberamente, onestamente e oggettivamente giudicato un omertoso.

Quando fanno comodo i pentiti

«Storicamente ho constatato che quando i collaboratori di giustizia o i testimoni parlano di bassa macelleria criminale va tutto bene, quando arrivano dichiarazioni che attingono alla sfera politica o istituzionale cominciano le polemiche e le delegittimazioni. Fino a quando Gaspare Spatuzza si limitò a ricostruire la vicenda esecutiva della strage di via D’Amelio anche a livello di opinione pubblica e forze politiche registrammo plausi, nel momento in cui riferì le confidenze dei Graviano su rapporti con esponenti politici non solo iniziarono le polemiche ma addirittura non fu accolta la richiesta delle procure di sottoporre Spatuzza a un programma di protezione. È andata sempre così: la solita litania delle delegittimazioni gratuite e in alcuni casi delle calunnie. Il nostro compito è di andare avanti. Comunque».

Nino Di Matteo qui.

Mafia al chilo

Insomma, sul tema mafia questo governo sta lasciando spazio ad Angelino Alfano che rincorre la veste di “antimafioso d’etichetta” come già successe per Maroni. E ancora una volta il nostro Ministro dell’Interno ci rassicura dicendo che dovrebbero bastarci i settanta latitanti arrestati e un “impegno al fianco dei magistrati in prima linea”. Sulla trattativa “Stato-mafia” ovviamente non esce una parola che sia una, sull’autoriciclaggio nemmeno e sul dibattito che sta infiammando la questione dei beni confiscati ancora una volta si avanza l’ipotesi di venderli ai privati. Ma Angelino ci ricorda che “possono essere confiscati una seconda volta”. Ha detto proprio così, eh.

Lo schifo intorno alle chiacchierate di Riina

Prendetevi un minuto per leggere Roberto Galullo. Ne vale la pena:

Il ministro (ex) della Giustizia Anna Maria Cancellieri, il 30 gennaio viene audita in Commissione parlamentare antimafia.

In quella seduta si parla di tante cose. Tra le tante, anche degli ormai famosissimi colloqui registrati e videoregistrati nel carcere milanese di Opera (Milano) tra il capo di Cosa nostra (formalmente ancora lo è) Totò Riina e l’aspirante dama di compagnia e passeggio Alberto Lorusso.

La seduta si snoda in modo molto interessante fino a che…

Fino a che non si scivola sul ruolo del giornalismo e della libertà di stampa (e di cronaca).

Sapete quante volte ne ho scritto e quanto avverta sulla mia pelle, nella mia anima, intimamente, ogni vulnus, ogni ferita che viene inferta alla libertà di stampa. Quel che mi sconcerta, ogni volta e che ogni volta mi distrugge, è il tono con il quale i vertici dello Stato, in ogni sede, disquisiscono del giornalismo, quasi fosse ormai un residuato bellico e non un presidio di democrazia.

Ciò che mi ferisce profondamente è che ciascuno – dai più alti livelli fino a quelli più bassi – ritiene di voler e dover spiegare al mondo il giornalismo e la libertà di stampa: cosa può e cosa non può fare, cosa deve e non deve pubblicare, chi sentire e chi no, dove, come e quando, dove e come può spingersi alla ricerca di una notizia. La libertà di stampa e la stampa diventano bisogni personali e non diritti fondamentali e costituzionalmente garantiti per la vita stessa della collettività.

E’ mortale dover ascoltare stimatissimi Servitori dello Stato ai più alti livelli impartire lezioni su quali notizie debbano essere date, quando e perché senza invece pensare che nessun Giornalista degno di questo nome può e deve domandarsi quando, perché e soprattutto “se” dare una notizia.

La notizia si pubblica nel momento in cui un giornalista (sempre degno di questo nome) ne entra in possesso. Punto. Come facevano negli anni Settanta/Ottanta i cronisti di giudiziaria a Milano e Roma negli anni di piombo. Ogno notizia si pubblicava – pur quando le pressioni esterne a “selezionare” le notizie erano spesso forti – nel rispetto di un bene superiore: l’informazione al cittadino.

Quando una notizia è certa, verificata e degna di interesse generale qualunque Giornalista degno di questo nome deve (ripeto: deve) darla senza curarsi delle conseguenze della stessa. E’ come se un pm si dovesse interrogare sull’opportunità di emettere (o meno) un avviso di garanzia perché lo stesso potrebbe nuocere, più o meno gravemente, sulla salute dei parenti, dello stesso indagato o, salendo, alla tenuta politica di un Paese.

Vi ricorda nulla l’avviso di garanzia giunto all’allora premier Silvio Berlusconi nel 1994 durante il G8 e finito sulle prime pagine di tutto il mondo? Ebbene: se la magistratura ritenne che quello era il momento per farlo giungere e non altro, lo fece perché ne era convinta e (a meno che non si voglia credere a teorie politico/complottarde alle quali personalmente non credo e alle quali, viceversa, non dovrebbero credere le Istituzioni quando di mezzo ci sono i giornalisti) non si curò do-ve-ro-sa-men-te e le-git-ti-ma-men-te delle conseguenze internazionali che avrebbe avuto quel gesto.

Il tradimento più alto nei confronti di se stesso e nei confronti dei lettori che un Giornalista può commettere è non pubblicare una notizia vera, certa, verificata e di interesse generale.

Insomma cari lettori, mettetevi in testa che ogni svilimento (anche il più piccolo e anche non voluto) alla libertà di stampa è un atto di arretramento nella libertà di un popolo.

Queste riflessioni mi girano per la testa quando leggo quel che di seguito leggerete. Tutto legittimo per carità ma opinabile e criticabile. Le opinioni, così come le critiche, sono il sale della democrazia.

LE COLPE DEI GIORNALISTI

Riferendosi ai video trasmessi dalle tv che ritraggono il boss Riina e Lorusso, il commissario parlamentare antimafia Enrico Buemi (Psi) porge una domanda a mio avviso sconcertante fuori microfono: «Il video, signor ministro. Abbiamo giornalisti così bravi?».

Ora io sfido qualunque persona al mondo di buon senso a non ritenere degno di interesse collettivo e generale il fatto che un macellaio di Cosa nostra lanci messaggi criminali e di morte contro un magistrato come Nino Di Matteo e il pool che con lui lavora a partire da Vittorio Teresi (e poi vedrete che su quest’ ultimo tornerò in coda a questo articolo).

E’ o non è una notizia? Ovvio che lo è e sul come, quando e perché un Giornalista è entrato in possesso di quella notizia è dato e fatto che non solo non deve interessare a Buemi ma non deve interessare nessuno. La difesa di una fonte per un Giornalista è sacra. Chi ha pubblicato i video (Servizio pubblico della tv La7 e poi recentemente anche www.corrieredellacalabria.it con alcuni interessanti stralci sui dialoghi interenti la ‘ndrangheta) può averli ricevuti per grazia e virtù dello Spirito Santo, da Sua Santità, da Sua Eminenza, dai servizi segreti deviati, dalle famiglie di Corleone, dalle Carmelitane Scalze o da Topo Gigio ma le domande che si sarà posto chi li ha ricevuti sono: i video sono autentici? Sono intatti e non manipolati? Sono, fatte queste verifiche, di straordinario interesse per la collettività: Sì? E allora visto si stampi (in questo caso si mandi in onda).

La risposta di Cancellieri è netta: «Parliamo di video, possiamo parlare di tutto. È gravissimo». Non so se ci rendiamo conto: è gravissimo il fatto che la stampa abbia fatto il proprio mestiere!

Figuriamoci, Buemi va a nozze, sempre fuori microfono come testimonia la stessa fedele trascrizione della Commissione parlamentare antimafia: «C’è il problema delle trascrizioni… Signor ministro, queste problematiche hanno due risvolti. Uno è di carattere giornalistico, è evidente. Su questo non credo che ci debba essere un dubbio, ma bisogna sempre porsi il problema del perché e a chi interessa far uscire determinate informazioni e con quale modalità. Questo denota anche il fatto che noi abbiamo un sistema, quello del 41-bis, che continua a rimanere un colabrodo. Questo è il punto. Dopodiché, io introduco l’elemento dell’affidabilità delle trascrizioni degli interrogatori, che vedo collegato a questa problematica. Mi premurerò di presentare un’interrogazione specifica sull’argomento, perché è questione che deve essere affrontata a livello normativo, in modo tale da regolamentare meglio i fornitori del servizio. Non vado oltre».

Buemi non va oltre ma per lui c’è un risvolto giornalistico chiaro ed evidente. E la Fnsi e il sindacato dei giornalisti hanno nulla da dire a questo proposito?

Qualcosa da dire lo ha il presidente della Commissione Rosy Bindi: «Va bene. Sappiamo che dell’argomento si è interessato anche il Garante della privacy. È un argomento sul quale magari la Commissione avrà modo di ritornare».
Buemi, ancor più rafforzato nella propria convinzione: «Chiedo scusa, mi è sfuggito. Come ultima considerazione, io credo che sia un elemento da considerare sotto molteplici aspetti – ovviamente ci sono anche quelli relativi alla magistratura inquirente – ma le sembra logico che un filmato proveniente dal 41-bis possa finire sulle televisioni italiane?».

Il senatore Salvatore Tito Di Maggio (Sc) si accoda: «Svolgo una premessa, chiedendole se mi può rispondere prima che alle altre domande. Lo chiedo semplicemente perché io credevo di non doverle fare alcuna domanda, in quanto l’avevano già fatto i miei colleghi, ma non mi ha soddisfatto la risposta che lei ha fornito rispetto alle questioni del filmato che è apparso sulle televisioni e a Riina. Trattiamo di una questione estremamente delicata. Io credo che lei non ci possa dire soltanto che è gravissima, per una serie di motivi.
Innanzitutto, io credo che lei ci debba dire se ha attivato delle azioni ispettive, visto che è anche la titolare dell’azione disciplinare e che anche il Dap gerarchicamente dipende da lei.
Approfittando di questo e, quindi, trattando delle azioni disciplinari, io non sono a conoscenza – chiedo se ce ne vuole dare notizia – se lei abbia intrapreso un’azione disciplinare nei confronti del procuratore della Repubblica aggiunto di Palermo dottorTeresi, il quale non so che cos’altro debba fare dopo le dichiarazioni che ha rilasciato rispetto alla sentenza emessa nei confronti del procedimento Mori
».

Bingo! Non soltanto si chiede un’azione ispettiva e magari disciplinare contro chi ha fornito i filmati ai giornalisti (identificando il soggetto, con certezza, bontà di Buemi, nel Dap) ma già che ci siamo, per analogia, Di Maggio chiede se Vittorio Teresi(procuratore aggiunto di Palermo e pm del processo sulla trattativa Stato-mafia ndr) è sottoposto a procedimento disciplinare.

Cancellieri risponde così: «Per quanto riguarda azioni disciplinari verso il magistratoTeresi, non ne sono state disposte.
Per quanto riguarda gli accertamenti sulle foto, all’interno del dipartimento sono stati fatti tutti gli approfondimenti possibili. Non abbiamo elementi per poter procedere nei confronti di nessuno, perché naturalmente su queste questioni è ben difficile individuare l’autore
».

A quando il prossimo svilimento della libertà di stampa e, già che ci siamo, la richiesta di un’azione disciplinare, (l’ennesima) contro la magistratura?

Mancava la falange armata

Non so se sia credibile o se sia la boutade di chi vuole fare fumo su un processo delicato come quello della trattativa tra mafia e Stato, però la notizia è inquietante:

Per quattro anni ha rivendicato ogni singola operazione criminale andata in scena tra Milano e laSicilia. Telefonate di minaccia, ma anche comunicati di soddisfazione quando alcuni membri del governo vengono rimossi in piena Trattativa Stato – mafia. Adesso dopo vent’anni di silenzio laFalange Armata, oscura sigla legata alle stragi più oscure di questo Paese, è tornata. E con una breve lettera ha messo in allarme gli inquirenti. Perché il destinatario dell’ultima missiva della Falange è Totò Riina, che per otto mesi ha condiviso l’ora di socialità con Alberto Lorussolasciandosi sfuggire minacce e retroscena inediti sulle stragi mafiose, mentre le telecamere piazzate nel carcere di Opera dalla Dia di Palermo registravano tutto.

Solo che oltre agli inquirenti, una terza entità era al corrente delle lunghe chiacchierate tra il capo dei capi e il boss pugliese. “Chiudi quella maledetta bocca – è scritto nella lettera indirizzata a Riina e mai pervenuta al boss – ricorda che i tuoi familiari sono liberi. Per il resto ci pensiamo noi”. Firmato: Falange Armata. Una lettera inquietante, che nella sua forma estesa è scritta con un lessico militare, come pure militare è lo stile delle missive anonime arrivate negli scorsi mesi alla procura di Palermo, per segnalare la preparazione di attentati contro il pm Nino Di Matteo. La missiva arrivata a Riina però suscita almeno due interrogativi: chi c’è dietro quella sigla? E come faceva a sapere l’anonimo estensore delle esternazioni di Riina, detenuto in regime di 41 bis? Se lo chiedono Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia, Francesco Del Bene e Vittorio Teresi, i pm della procura di Palermo che indagando sulla Trattativa si sono già imbattuti nella Falange. “Non è verificata” dice il procuratore della Dna, Franco Roberti, la fondatezza delle minacce a Riina.

La danza pericolosa tra delegittimazione e rischio

“Possono essere un’ingerenza e una delegittimazione dei pm, col rischio anche per la loro sicurezza”. Si dice “sorpreso” il procuratore capo di Palermo, Francesco Messineo, davanti alle “pubbliche critiche” della Dna, oltre a quelle dei professori Salvatore Lupo Giovanni Fiandaca. “Lo Stato ha solo la scelta di combattere il crimine, non di trattare”, ribatte Messineo.

Io questa frase l’appenderei sulle finestre di tutti i contabili, gli intellettuali, i padrini, i presunti cultori dell’antimafia, gli spiritosi tra amici e soprattutto colore che per merito o cognome hanno un ruolo pubblico.