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trattativa stato-mafia.

Il pentito rivela: “i servizi mi chiesero di fermare Falcone”

Parole di Franco Di Carlo, uno dei pochi collaboratori di giustizia dell’esercito corleonese, per Riina è stato l’ambasciatore nel mondo delle professioni e della politica, è stato corteggiato da servizi e apparati, ha mediato, portando in dote al gruppo egemone di Cosa nostra il capitale umano delle relazioni a tutti i livelli.

Lei ha avuto parte in questi disegni?
“Non ho preso parte alle stragi e non le avrei condivise, ma ero in carcere e ho ricevuto visite da esponenti di servizi che mi hanno proposto un accordo per fermare Falcone”.

Quando?

“Accadde prima dell’attentato all’Addaura dell’89, venne a trovarmi un emissario di un ufficiale dei servizi che era stato il mio tramite con il generale Santovito per tanti anni. Con lui c’era il capo della Mobile Arnaldo La Barbera, quest’ultimo non si presentò, ma assistette. Non lo conoscevo, lo riconobbi in fotografia in seguito. Vennero a chiedermi di trovare un modo per costringere Falcone ad andar via da Palermo, a cambiare mestiere. Mi spiego così l’attentato dell’Addaura”…

Di fronte a tutto questo non rispondo nemmeno

ninodimatteoPerdoni la domanda scomoda, ma c’è chi ipotizza che tutta la vicenda e il clamore mediatico che ha sollevato siano strumentali, addirittura volute.
“Lo pensino pure, sulle pelle degli altri è facile. Quando verranno depositate le trascrizioni delle frasi di Riina, ascolteranno le sue parole e guarderanno il video capiranno tutto”.

C’è allora un tentativo di delegittimare il suo, il vostro lavoro?
“Non mi sorprendo più nulla. C’è sempre chi, di fronte ai proiettili, parla di auto-minacce. Persino ai tempi di Giovanni Falcone è andata così. Di fronte a tutto questo non rispondo nemmeno, non degno di considerazione chi insinua senza conoscere. Non mi sorprendo. È una storia che si ripete da sempre. Stavolta, però, si dovranno scontrare con il video e la voce di Totò Riina. Ritengo che ci sia, proprio nell’ottica di delegittimare determinati tipi di indagini, un tentativo di non valutare i fatti, persino di ribaltarli”.

Un’intervista a cuore aperto di Nino Di Matteo, l’innominabile per la politica e pure qualche “antimafioso”.

Dove sono tutti? (Di Matteo)

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Ma c’è un altro ringraziamento che invece elaboro più col cervello ed in tanti anni di indagini di questo tipo. 
Ed è il grazie di chi sa che l’attenzione dell’opinione pubblica, della parte più informata e sensibile, costituisce per noi tutti da una parte uno scudo vero e reale e dall’altra un ulteriore sostegno per andare avanti nel nostro lavoro. È confortante vedere e sapere che una parte bella della nostra città si mobilita quando non c’è stato ancora nessun evento luttuoso. E questo probabilmente nella storia italiana era accaduto poche volte. Siete un segno di una mentalità che cambia. Siete il segno di una città, di una terra, di un Paese che vuole lottare contro la mafia e vuole anche cambiare quella mentalità mafiosa che si è insinuata troppo nell’esercizio del potere, anche del potere ufficiale.
Io credo che noi vi possiamo solo ringraziare, sopratutto perchè ci ricordate la cosa essenziale del nostro lavoro e del nostro ruolo: che non è un ruolo di potere ma di servizio nei confronti della collettività. E questo credo sia il segnale più bello che potevate darci.

Sono le parole di Nino Di Matteo al sit in di solidarietà organizzato per lui a Palermo. E sono parole importanti che forse avrebbero meritato qualche riga in più sugli organi di informazione e qualche momenti di riflessione politica. Forse. In un Paese più equilibrato nelle sue priorità.

Trattativa Stato-Mafia, il vuoto stretto intorno a Di Matteo

Scritto per Il Fatto Quotidiano

VNzEloqKahUGJXm-556x313-noPadNino Di Matteo cammina per Palermo con la scorta rafforzata che sembra un film degli anni ’80. Siamo un Paese che ultimamente ha ingoiato scorte patetiche dei signorotti o dei lacchè del re, che ha fantasticato sulle scorte “poetiche” da farci un film con un pizzico di commozione e che ha subito le sirene per un comizio in piazza di qualche Ministro. Di Matteo no: Di Matteo ha intorno il rischio a forma di paura, quello che a Palermo non si annusava dagli anni bui di una mafia che si lasciava andare con facilità alla polvere da sparo.

Forse non è un caso che Nino Di Matteo sia anche il magistrato che si occupa del delicato processo sulla trattativa Stato-Mafia, che prima è esploso in faccia ai negazionisti furibondi da talk show e oggi si è risotterrato tra le “cose che riguardano il passato”. Un processo che nell’informazione sta diventando un argomento per collezionisti e non importa se alla sbarra ci siano (alla stessa sbarra) politici e boss mafiosi che insieme disegnerebbero una foto devastante per la credibilità della democrazia italiana degli ultimi vent’anni.

Quando Salvatore Borsellino parlava di trattativa nei suoi incontri pubblici (lui e pochi altri “forsennati”) era facile relegarlo tra gli “allarmisti professionisti”. L’allarmista ha sostituito negli ultimi tempi il “professionista dell’antimafia” nel computo degli insulti istituzionali volti a delegittimare le battaglie antimafia. Allarmisti, rimestatori nel torbido, esagitati e visionari: chiunque parlasse di trattativa veniva fatto salire in fretta e furia nella “nave dei folli”.

Ora che quella perversione è diventata un processo sarebbe da tenere tra le mani con la cura di un buon padre di famiglia, sarebbe da osservare con l’attenzione di uno Stato che vuole essere garante della consapevolezza collettiva ed è, soprattutto, da proteggere.

Per questo la paura intorno a Nino Di Matteo è soprattutto la paura che si vorrebbe iniettare negli ultimi decenni politici per smussare la curiosità che ci dobbiamo e il vuoto intorno a Di Matteo sarebbe la latitanza più grave.

Per questo forse sarebbe meglio evitare gli editoriali sui pisolini in Parlamento e dedicarsi a questo vuoto istituzionale che si finge stretto intorno a Di Matteo. C’è un’aria grigia giù a Palermo. E una politica che può smettere di essere uguale a sé stessa.

(Ps per i fans delle “larghe intese con il Pdl: un’alleanza oggi con un processo del genere in corso è “concorso politico esterno”. Per dire.)

Intanto cercano di uccidere Di Matteo

pm_nino_di_matteoNon so se qualcuno tra tutto questo parlare di scontrini alla buvette, accordi e accordicchi si è accorto che il pm Nino Di Matteo è sempre più accerchiato e isolato. Le ultime minacce di morte non sono simpatici avvertimenti buoni per qualche servizio strappalacrime sulla paura ma un progetto di attentato ritenuto “assai serio”.

Non so se qualcuno si ricorda che Nino Di Matteo è il pm del prossimo processo sulla trattativa Stato-Mafia che fino a qualche anno fa ci dicevano fosse un’invenzione malata di Salvatore Borsellino e oggi invece vede alla sbarra importanti uomini politici e boss storici di Cosa Nostra.

Non so se qualcuno trova questa sera un secondo per pensare a questa Palermo che scorta un suo magistrato come nei tempi più bui mentre si scrivono editoriali sui sonnellini in Parlamento.

Noi, nel nostro piccolo, ti siamo vicini, Nino.

La verità

È un bene raro e prezioso. Per questo qualcuno tende a risparmiarla. Sugli anni 1992-1993, sulle conversazioni tra pezzi che dovrebbero combattersi piuttosto che dialogare. E, se il reato non c’è, sui processi politici che si erano aperti e quando, come e per mano di chi si sono incagliati.
Ma se quel qualcuno è lo Stato diventa tutto più difficile. Una firma per chiarezza forse vale la pena metterla. Anche se la narcotizzazione vacanziera non aiuta. Perché lo spiega bene Andrea Camilleri:
Eh certo, sarebbe bello, ma non facciamo gli ingenui: siccome chi ha trattato con la mafia è ancora al potere, non possiamo certo illuderci che si dia da fare per far emergere la verità. Sarebbe autolesionismo puro. Niente è più difficile che ammettere i propri errori e chiedere scusa. Per questo il potere sta facendo di tutto perché la verità su quel che accadde vent’anni fa non venga alla luce. Gli errori commessi nel 1992-’94 e forse anche dopo dai rappresentanti delle istituzioni sono gravissimi non solo in sé ma anche perché hanno prodotto metastasi cancerose vastissime, ramificate. Lo Stato, diceva Sciascia, non processa se stesso.

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