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Giulio Cavalli

Il manuale antimafia di Giuseppina Pesce

Le parole sono importanti. E forse ci perdiamo sui convegni e le analisi mentre qualcuno serve elementi che semplificano la visione, devastanti nella loro semplicità, mentre ci dicono cosa sta succedendo e quali sono i lati della storia che non riusciamo o non vogliamo vedere. E che comunque sono sempre difficili da raccontare. Giuseppina Pesce ha deposto durante un’udienza del processo “All Inside” che ha portato alla sbarra la cosca Pesce proprio grazie alle sue dichiarazioni. Le frasi sono lame affilate. Lo racconta un articolo di net1news:

«I contatti con Carnevale – ha detto la pentita – avvenivano tramite mio suocero, Gaetano Palaia, che era suo amico».  Il giudice Carnevale, il quale in alcune intercettazioni proferiva insulti contro il defunto giudice Giovanni Falcone,  veniva definito “l’ammazzasentenze”: era stato il pentito Gaspare Mutolo a dichiarare che Carnevale era “avvicinabile”. Dopo di lui altri 11 pentiti hanno fatto il nome del magistrato. Nel 2002, però, la Cassazione lo ha assolto con formula piena perché “il fatto non sussiste”, constatando prove insufficienti a sostenere tali accuse e respingendo anche le deposizioni dei colleghi di Carnevale, magistrati di cassazione, che denunciavano le sue pressioni per influire sui processi: secondo i giudici le loro dichiarazioni erano inutilizzabili in giudizio. Successivamente la deposizione di Pina Pesce ha avuto come oggetto la descrizione degli affari della cosca Pesce. Questa, secondo quanto ha affermato la pentita rispondendo alle domande del pm, Alessandra Cerreti, trae enormi guadagni dal controllo degli appalti per l’ammodernamento dell’A3 nel tratto che attraversa la Piana di Gioia Tauro per quanto riguarda, in particolare, i lavori di movimento terra. In più, ha riferito ancora la pentita, ci sono le estorsioni:  « Non c’è un negozio o un’impresa di Rosarno – ha detto Giuseppina Pesce – che non paga il pizzo. A meno che non sia di proprietà di nostri parenti».   La pentita ha riferito delle disposizioni che vengono dettate dai capi della cosca detenuti attraverso colloqui con parenti che si spacciano come loro familiari grazie a falsi certificati di parentela che sono stati rilasciati dal 2006 e fino al 2011 dal Comune di Rosarno. Giuseppina Pesce ha parlato anche di come la cosca riuscisse a nascondere i cadaveri delle persone uccise e fatte sparire nel cimitero di Rosarno minacciando i dipendenti. «I corpi di mio nonno Angelo e di mia zia Annunziata – ha detto la pentita -, uccisi entrambi per punizione perchè avevano relazioni extraconiugali, in realtà non sono stati portati lontano da Rosarno. Si sono sempre trovati nel cimitero del paese in loculi senza nome dove venivano tumulati di notte».   Un ultimo riferimento la pentita l’ha fatto al giro di carte di credito clonate gestito dalla cosca. «Carte – ha detto – intestate a clienti statunitensi che le hanno utilizzate in alberghi e ristoranti della Lombardia. Ne ho avuto una anch’io e l’ho usata un paio di volte prima che il titolare la revocasse dopo avere notato spese che non aveva effettuato».

Ecco, per chi voleva una lezione di mafia (e antimafia) qui gli elementi ci sono tutti.

Umberto Ambrosoli e Giulio Cavalli si tuffano nell’epopea di Andreotti

da ILCITTADINO

«Il processo Andreotti racconta che, in questo Paese, ripetere una bugia infinite volte funziona»: questa l’amara tesi di fondo di Giulio Cavalli, attore e regista teatrale, nonché scrittore e consigliere della Regione Lombardia nelle file di Sinistra ecologia e libertà, che ha presentato mercoledì sera a San Giuliano la sua ultima fatica, il libro “L’innocenza di Giulio”. In una serata organizzata dalla sezione locale di Sel e moderata da Valentina Draghi, esponente locale del partito di Nichi Vendola, il poliedrico autore lodigiano è intervenuto insieme a Umberto Ambrosoli, figlio dell’avvocato e giudice Giorgio Ambrosoli, ucciso nel 1979 mentre operava come liquidatore della banca di Michele Sindona, personaggio legato allo storico esponente della Dc.Argomento del libro, l’irrazionale normalità con cui il processo Andreotti, giudicato per concorso esterno in associazione mafiosa e dichiarato nel 2003 prescritto per aver commesso il reato fino alla primavera del 1980, è stato mediaticamente celebrato alla stregua di un’assoluzione, senza lasciare strascichi degni di nota nell’opinione pubblica del nostro paese. Tutto questo nonostante, come affermato da Cavalli, «una lettura politica della vicenda ci dice che egli ha usato la mafia per motivi di consenso elettorale». Tuttavia il testo, e la sua presentazione, non si sviluppa tanto sul terreno storico, ma rimane invece ancorato ad una prospettiva di tipo politico: posto che «il metodo Andreotti è un metodo in cui poche persone si mettono d’accordo per perseguire il proprio guadagno personale ai danni di quello pubblico», ne deriva che «è importante raccontare la vicenda Andreotti per riconoscere gli “andreottismi” contemporanei, per capire le dinamiche andreottiane che vengono usate quotidianamente ancora oggi». Solo in questo modo si può porre rimedio al grande vulnus che ha permesso il passaggio sotto silenzio delle vicissitudini giudiziarie dell’anziano senatore a vita, ovvero «l’aver dimenticato di insegnare alle giovani generazioni ad essere curiose, a porre le domande giuste». Il provocatorio auspicio di Cavalli è che, per facilitare la presa di coscienza della responsabilità collettiva verso il bene comune, gli argomenti legati alla vita politica diventino “pop”, abituale oggetto delle usuali conversazioni quotidiane. «L’analisi di quegli anni – è l’auspicio di Umberto Ambrosoli – non deve procurare un senso di ingiustizia e frustrazione, ma bensì farci aprire gli occhi, renderci più partecipi. Questa è la sfida che Giulio Andreotti ci consegna. Perché storie come questa siano mattoni con i quali poter costruire un argine che permetta di tenere fuori una simile concezione del potere dal futuro del Paese».

Riccardo Schiavo

Economia e comunità

Una riflessione economica senza fronzoli, senza utopie e che proviene dalle pagine di un quotidiano nazionale (a indicare che l’urgenza di un alternativa economica è generalizzata). Mark Twain diceva che non bisogna avere paura di ciò che non si conosce ma di ciò che si crede vero e invece non lo è per intendersi. L’articolo è lungo ma non complicato e, del resto, come diceva ieri sera con me Umberto Ambrosoli la ‘curiosità costa fatica’.

MAU­RO MA­GAT­TI (da Repubblica)
Con la cri­si del 2008 sia­mo en­tra­ti nel­la “se­con­da glo­ba­liz­za­zio­ne”: la fa­se espan­si­va è ter­mi­na­ta, co­me sap­pia­mo be­ne, e si av­via una nuo­va sta­gio­ne in cui la que­stio­ne del­la cre­sci­ta va ri­pen­sa­ta, a par­ti­re dal­la ri­de­fi­ni­zio­ne del rap­por­to tra eco­no­mia e po­li­ti­ca.
Co­me ad una va­sca a cui è sta­to tol­to il tap­po, le eco­no­mie con­tem­po­ra­nee, in­te­gra­te nei mer­ca­ti e nel si­ste­ma tec­ni­co pla­ne­ta­rio, ri­schia­no di gi­ra­re a vuo­to, bru­cian­do in un bat­ter d’oc­chio quan­to fa­ti­co­sa­men­te rie­sco­no a pro­dur­re. Èque­sto il no­do che strut­tu­ra og­gi i rap­por­ti tra eco­no­mia e po­li­ti­ca. Ed è ri­spet­to a que­sto no­do che i di­bat­ti­ti di que­sti me­si – tan­to quel­li sul­l’Eu­ro­pa quan­to quel­li sul­la cre­sci­ta – deb­bo­no es­se­re ri­de­fi­ni­ti.
Nel­la sua teo­ria po­li­ti­ca, Sch­mitt con­trap­po­ne­va il ma­re al­la ter­ra: il pri­mo è il re­gno del­l’in­sta­bi­li­tà, del mo­vi­men­to, del­la li­ber­tà; la se­con­da in­di­ca sta­bi­li­tà, or­di­ne, di­stin­zio­ne. In que­sta pro­spet­ti­va, si ca­pi­sce per­ché, dal mo­men­to in cui l’or­di­ne ter­ra­neo eu­ro­peo col­las­sa a se­gui­to del­la sco­per­ta del­l’A­me­ri­ca, l’in­te­ra vi­cen­da mo­der­na si tro­va a fa­re i con­ti con il te­ma del­la tec­ni­ca: «il pas­so ver­so un’e­si­sten­za pu­ra­men­te ma­rit­ti­ma pro­vo­ca la crea­zio­ne del­la tec­ni­ca in quan­to for­za do­ta­ta di leg­gi pro­prie. (…) lo sca­te­na­men­to del pro­gres­so tec­ni­co è com­pren­si­bi­le so­la­men­te da un’e­si­sten­za ma­rit­ti­ma (…) tut­to ciò che si la­scia rias­su­me­re nel­l’e­spres­sio­ne “tec­ni­ca sca­te­na­ta”, si svi­lup­pa so­la­men­te… sul ter­re­no di col­tu­ra e nel cli­ma di un’e­si­sten­za ma­rit­ti­ma».
Ora, do­po gli an­ni ram­pan­ti del­la “pri­ma glo­ba­liz­za­zio­ne”, la cri­si apre una nuo­va fa­se ri­por­tan­do in pri­mo pia­no la que­stio­ne “po­li­ti­ca”, cioè la ri­de­fi­ni­zio­ne di con­fi­ni e rap­por­ti di for­za: nel nuo­vo “ma­re tec­ni­co” che av­vol­ge or­mai l’in­te­ro pia­ne­ta – e de­fi­ni­to da quel­l’in­sie­me diin­fra­strut­tu­re, co­di­ci, pro­to­col­li, stan­dard in gra­do di pre­scin­de­re da qual­sia­si con­no­ta­zio­ne spa­zia­le o cul­tu­ra­le – che si­gni­fi­ca­to ha la “ter­ra”? Ov­ve­ro, com’è pos­si­bi­le, nel­le nuo­ve con­di­zio­ni, la ri­co­stru­zio­ne di co­mu­ni­tà di mu­tuo ri­co­no­sci­men­to di na­tu­ra fon­da­men­tal­men­te po­li­ti­ca?
Eti­mo­lo­gi­ca­men­te, il ter­mi­ne “ter­ra” si­gni­fi­ca sec­co, non umi­do, in con­trap­po­si­zio­ne al ma­re, am­bien­te li­qui­do e in­fi­do e co­me ta­le dif­fi­ci­le da do­mi­na­re. Dan­te usa l’e­spres­sio­ne “gran sec­ca” per di­re che la ter­ra, per esi­ste­re, de­ve emer­ge­re dal ma­re – ri­spet­to al qua­le sta in re­la­zio­ne, sen­za es­ser­ne som­mer­sa. La ter­ra dà dun­que il sen­so di una so­li­di­tà e di una per­ma­nen­za, cioè di una sto­ria, di un la­vo­ro, di un fu­tu­ro. Ma an­che di un ser­vi­zio.
Nel ma­re tec­ni­co, la ter­ra “emer­ge” là do­ve si ren­de di nuo­vo pos­si­bi­le la vi­ta uma­na as­so­cia­ta, met­ten­do la tec­ni­ca al ser­vi­zio dei suoi abi­tan­ti. Ma af­fin­ché­ciò sia pos­si­bi­le, so­no ri­chie­sti im­pe­gno e in­ve­sti­men­to: an­che og­gi, per por­ta­re frut­to, la ter­ra va la­vo­ra­ta e cu­ra­ta. Par­la­re di ter­ra, nel­l’e­ra tec­ni­ca, è, dun­que, una scel­ta emi­nen­te­men­te po­li­ti­ca. Lo di­mo­stra la ri­cer­ca sul­le “glo­bal re­gion”: ad af­fer­mar­si so­no quei ter­ri­to­ri (cit­tà, re­gio­ni o sta­ti) che rie­sco­no a ri­com­por­re la tec­ni­ca con il sen­so, la mo­bi­li­tà con la vi­vi­bi­li­tà, l’ef­fi­cien­za con l’af­fet­ti­vi­tà, la cre­sci­ta con il li­mi­te. Ma, so­prat­tut­to, lo di­mo­stra la cri­si eu­ro­pea: sen­za un’in­te­gra­zio­ne po­li­ti­ca ca­pa­ce di de­ter­mi­na­re una in­ter­ru­zio­ne, una dif­fe­ren­za, la so­la in­fra­strut­tu­ra­zio­ne “tec­ni­ca” espo­ne al­la for­za di un ma­re im­per­scru­ta­bi­le, fi­nen­do per pro­vo­ca­re la som­mer­sio­ne di un in­te­ro con­ti­nen­te.
Ma se, in­fat­ti, non si dà “ter­ra” sen­za emer­sio­ne, al tem­po stes­so nes­su­na ter­ra può vi­ve­re in­di­pen­den­te­men­te dal ma­re – che, fuor di me­ta­fo­ra, è og­gi il si­ste­ma tec­ni­co pla­ne­ta­rio, con i suoi co­di­ci, i suoi lin­guag­gi, i suoi­stan­dard.
Da que­ste con­si­de­ra­zio­ni de­ri­va­no di­ver­se pro­po­si­zio­ni di or­di­ne po­li­ti­co. La pri­ma è che, og­gi, la ter­ra si ri­de­fi­ni­sce co­me con­te­ni­to­re di un va­lo­re che, in­ve­ce di di­sper­der­si, si se­di­men­ta. Es­sa, cioè, esi­ste so­lo là do­ve si com­pie que­sta ca­pa­ci­tà di crea­zio­ne e di de­po­si­to. Lo scri­vo­no ef­fi­ca­ce­men­te Por­ter e Kra­mer: per reg­ge­re le sfi­de del­la “se­con­da glo­ba­liz­za­zio­ne” – quel­la che si de­li­nea con la cri­si e le sue con­se­guen­ze – oc­cor­re pro­dur­re – sen­za li­mi­tar­si a con­su­ma­re – “va­lo­re con­di­vi­so”, lad­do­ve la no­zio­ne di “va­lo­re” non è ri­du­ci­bi­le ad una de­cli­na­zio­ne me­ra­men­te eco­no­mi­ci­sti­ca.
In un mon­do aper­to e in mo­vi­men­to, il va­lo­re, che fa emer­ge­re la ter­ra, è il ri­co­no­sci­men­to di un in­te­res­se co­mu­ne – che pos­sia­mo chia­ma­re an­che be­ne co­mu­ne – e che, pro­prio per que­sto, si co­sti­tui­sce co­me dif­fe­ren­za ri­spet­to al­l’am­bien­te cir­co­stan­te.
Da que­sto pun­to di vi­sta, nel­ma­re del­la tec­ni­ca la ter­ra è il luo­go po­li­ti­co del­la cu­ra del­l’u­ma­no che fa la dif­fe­ren­za. E que­sto non so­lo per­ché, in un mon­do do­ve tut­to è mo­bi­le e in­ter­scam­bia­bi­le, i con­fi­ni ten­do­no a es­se­re sta­bi­li­ti più che dal po­te­re di coer­ci­zio­ne – a cui i flus­si sfug­go­no – dal­la ca­pa­ci­tà di una par­ti­co­la­re co­mu­ni­tà di crea­re con­di­zio­ni qua­li­ta­ti­va­men­te dif­fe­ren­zia­li, di or­di­ne eco­no­mi­co e non so­lo. Non si può più pun­ta­re sul­la me­ra espan­sio­ne quan­ti­ta­ti­va, ma bi­so­gna scom­met­te­re sul­la ca­pa­ci­ta in­no­va­ti­va e crea­ti­va. Pren­den­do­si cu­ra del­le per­so­ne e del­l’am­bien­te in cui vi­vo­no.
La ter­za pro­po­si­zio­ne è che la ter­ra non si può più pen­sa­re, og­gi, co­me se­pa­ra­zio­ne, ma so­lo co­me re­la­zio­ne. Mai co­me og­gi le si­re­ne del­la “chiu­su­ra for­zo­sa” pos­so­no ap­pa­ri­re sua­den­ti. Ma la ve­ri­tà è che, per­sa l’au­to­suf­fi­cien­za, la ter­ra si co­sti­tui­sce so­lo in rap­por­to al ma­re del­la tec­ni­ca, da un la­to, e ad al­tre ter­re emer­se, dal­l’al­tro. Non ba­sta­più ri­ven­di­ca­re o peg­gio pre­ten­de­re una di­ver­si­tà.
Se­con­do Ri­chard Sen­nett la di­re­zio­ne da se­gui­re si com­pren­de ri­chia­man­do la di­stin­zio­ne bio­lo­gi­ca tra pa­re­te e mem­bra­na cel­lu­la­re: la pri­ma trat­tie­ne tut­to per quan­to può e dà via quan­to me­no pos­si­bi­le; la se­con­da, in­ve­ce, po­ro­sa e re­si­sten­te, per­met­te il flui­re dei va­ri ma­te­ria­li sen­za per que­sto per­de­re la pro­pria strut­tu­ra. In un mon­do com­ples­so e in pe­ren­ne mo­vi­men­to, per con­ti­nua­re a esi­ste­re – cioè emer­ge­re nel ma­re tec­ni­co – oc­cor­re chiu­de­re quel tan­to che è ne­ces­sa­rio per es­se­re ve­ra­men­te aper­ti. La “chiu­su­ra” di cui ab­bia­mo bi­so­gno con­si­ste nel­lo sti­pu­la­re “nuo­ve al­lean­ze” in gra­do di co­strui­re con­fi­ni che non si­gil­la­no, ma che met­to­no in re­la­zio­ne una dif­fe­ren­za con il mon­do in­te­ro.
Co­sì se ri­co­no­scia­mo che il tem­po del­l’e­span­sio­ne in­fi­ni­ta è al­le no­stre spal­le, al­lo­ra pos­sia­mo am­met­te­re che, in fu­tu­ro, per cre­sce­re, qual­sia­si ter­ra do­vrà reim­pa­ra­re a “fa­re eco­no­mia”, cioè a usa­re al me­glio, cioè in mo­do so­ste­ni­bi­le, le ri­sor­se di­spo­ni­bi­li. Sen­za spre­chi, sen­za pri­vi­le­gi, sen­za ec­ces­si. Il che non è ne­ces­sa­ria­men­te un ma­le. Co­me ne­gli an­ni ’30 la Gran­de De­pres­sio­ne co­sì og­gi la Gran­de Con­tra­zio­ne nel­la qua­le sia­mo im­mer­si po­trà es­se­re ri­sol­ta so­lo da una di­ver­sa idea di cre­sci­ta. Al cuo­re del nuo­vo mo­del­lo di cre­sci­ta c’è la que­stio­ne del­la “pro­du­zio­ne del va­lo­re” – ab­ban­do­nan­do la stra­da fa­ci­le ma per­ver­sa del­la spe­cu­la­zio­ne fi­nan­zia­ria. Nel­la “se­con­da glo­ba­liz­za­zio­ne” si af­fer­me­ran­no quei ter­ri­to­ri, quel­le co­mu­ni­tà che sa­pran­no “pro­dur­re va­lo­re”. Un va­lo­re eco­no­mi­co e spi­ri­tua­le in­sie­me, ca­pa­ce di te­ne­re in­sie­me aper­tu­ra e chiu­su­ra, ef­fi­cien­za e sen­so, in­di­vi­dua­li­smo e con­vi­via­li­tà, im­ma­nen­za e tra­scen­den­za.
Al­la po­li­ti­ca il com­pi­to stra­te­gi­co di rian­no­da­re i fi­li di una tra­ma so­cia­le che non esi­ste più nel­le for­me del XX se­co­lo: in un mon­do avan­za­to, tec­ni­ca­men­te e cul­tu­ral­men­te evo­lu­to, la po­li­ti­ca sta­bi­liz­za ciò che è in­sta­bi­le, fa per­ma­ne­re ciò che è con­tin­gen­te, ra­di­ca ciò che è mo­bi­le.
(L’au­to­re è do­cen­te di so­cio­lo­gia al­la Cat­to­li­ca di Mi­la­no)

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La memoria di Falcone secondo Ilda

Non c’è stato uomo in Italia che ha accumulato nella sua vita più sconfitte di Falcone: bocciato come consigliere istruttore, bocciato come procuratore di Palermo, bocciato come candidato al CSM e sarebbe stato bocciato anche come procuratore nazionale antimafia se non fosse stato ucciso. Eppure ogni anno si celebra l’esistenza di Giovanni come fosse stata premiata da pubblici riconoscimenti o apprezzata nella sua eccellenza. Un altro paradosso. Non c’è stato uomo la cui fiducia e amicizia è stata tradita con più determinazione e malignità. Eppure le cattedrali e i convegni, anno dopo anno, sono sempre affollati di “amici” che magari, con Falcone vivo, sono stati i burattinai o i burattini di qualche indegna campagna di calunnie e insinuazioni che lo ha colpito.

Voglio ricordare che la magistratura italiana addirittura scioperò contro Falcone nel 1991. Scioperò contro la legge che creava la Procura nazionale antimafia a lui destinata. Per bloccarne la candidatura, ricordo, un togato del Csm, Gianfranco Viglietta, di Magistratura democratica, esaltò in una lettera al presidente Cossiga l'”assoluta indipendenza” dell’antagonista di Falcone, Agostino Cordova, osservando che “i criteri per la nomina a importantissimi incarichi direttivi non prevedono notorietà o popolarità”. Dunque, Falcone non era indipendente, ma solo “popolare” per Viglietta. Più esplicito in quell’accusa fu Alfonso Amatucci, anch’egli togato al Csm, per la corrente dei Verdi (cui pure Falcone aderiva). Scrisse al Sole-24 ore che Giovanni “in caso di designazione, avrebbe fatto bene ad apparire libero da ogni vincolo di gratitudine politica”. Falcone era più o meno un “venduto” per Amatucci. Ancora un ricordo. Leoluca Orlando nel 1990, sostenne e non fu il solo, soprattutto nella sinistra – che “dentro i cassetti della procura di Palermo ce n’è abbastanza per fare giustizia sui delitti politici”. Quei cassetti, dove si insabbiava la verità sulla morte di Mattarella, La Torre, Insalaco, Bonsignore, erano di Falcone. Ritorna l’accusa di Amatucci e Viglietta: Falcone è un “venduto”. Delle due l’una, allora. O quelle accuse erano fondate e allora non si beatifichi come eroe un magistrato che ha fatto commercio della sua indipendenza o quelle accuse erano, come sono, calunnie e gli artefici avvertano la necessità di fare pubblica ammenda.

In dieci anni, non ho ancora ascoltato una sola autocritica nella magistratura e nella politica. Fin quando ciò non accadrà, io sentirò il dovere di ricordare. Perché solo ricordare le umiliazioni subite da Giovanni Falcone permette di comprendere il significato del suo sacrificio, il suo indistruttibile senso del dovere e delle istituzioni; di afferrare l’eccentricità “rivoluzionaria” del suo riformismo rispetto a un modo di essere magistrato in Italia o a fronte dell’idea subalterna della funzione giudiziaria coltivata dalla politica. Era questa sua diversità a renderlo inviso a una parte della magistratura e a rendergli diffidente e nemica la politica, tutta la politica, se si esclude la parentesi al ministero dove gli fu possibile.
(Ilda Boccassini, 2002)

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Chi ha ammazzato Falcone e Borsellino

Chi ha la vera responsabilita’ di quelle uccisioni, secondo Scarpinato? “Un popolo di colletti bianchi che hanno frequentato le nostre stesse scuole e che affollano i migliori salotti: presidenti del Consiglio, ministri, parlamentari nazionali e regionali, presidenti della Regione siciliana, vertici dei servizi segreti e della polizia, alti magistrati, avvocati di grido dalle parcelle d’oro, personaggi apicali dell’economia e della finanza e molti altri”. “Tutte responsabilita’ penali certificate da sentenze definitive -rammenta ancora il procuratore generale di Caltanissetta- costate lacrime e sangue, e tuttavia rimosse da una retorica pubblica e da un sistema dei media che, tranne poche eccezioni, illumina a viva luce solo la faccia del pianeta mafioso abitata dalla mafia popolare, quella del racket e degli stupefacenti, elevando una parte a simbolo del tutto”. Frammenti di verita’, purtroppo, emergono “solo a distanza di decenni dagli eventi, dopo essere stati estratti con il forcipe delle indagini penali a imbarazzati e riottosi custodi di segreti consumatisi in quel ‘fuori scena’ della storia, da sempre bandito dalle cerimonie ufficiali”. Il sasso nello stagno plumbeo delle commemorazioni di Stato e’ tirato.

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BRINDISI: LA PAURA FEROCE (intervista di Cadoinpiedi)

Il momento del dolore dovrebbe essere un momento molto silenzioso in cui un Paese si stringe. Solo successivamente arrivano indagini e analisi. I tempi, invece, sono stati confusi: gli analisti avevano fretta di intervenire e dare un cappello a questa storia

Sabato mattina l’esplosione di Brindisi. La paura, la morte, un Paese intero che rivive sentimenti andati. Oggi, a tre giorni di distanza, che analisi si può fare su quanto accaduto, anche alla luce del caos mediatico… ?

Immediatamente dopo il fatto di Brindisi si è accesa una paura feroce. E si è accesa per l’età della vittima e dei feriti, e poi perché è inevitabile che la scuola abbia un valore simbolico, poiché è il luogo della formazione e delle speranze per il futuro (anche se ci sarebbe poi da aprire una discussione proprio sulla scuola, tanto bistrattata negli ultimi anni e oggi diventata improvvisamente monumento dell’Italia migliore).
Quando si accende questa paura feroce si avverte un bisogno immediato di rassicurazioni, a volte anche spettacolari. Purché immediate.Personalmente credo che questa caccia al colpevole, che cammina su ipotesi basate su poco o niente, non sia del tutto etica e rispettosa.
A mio avviso il momento del dolore dovrebbe essere un momento molto silenzioso. Un momento in cui un intero popolo, un intero Paese si stringe. Solo successivamente arriva il momento delle indagini, e ancora dopo il momento delle analisi. Mi sembra, invece, che in questo caso i tempi si siano un po’ confusi: gli analisti avevano fretta di intervenire, gli opinionisti avevano fretta di dire la loro opinione. E si è cercato di mettere il cappello a questa storia.
Lo stesso giorno dell’esplosione ho visto anche alcune manifestazioni in piazza, a cui ho partecipato, in cui anche la politica credo abbia cercato di strumentalizzare il tutto, quasi a voler rivendicare la paternità del dolore delle persone che avevano deciso di scendere in strada per ricordare. Non dobbiamo dimenticare che in questi casi esiste solo una bandiera: quella della civiltà.

E l’informazione non ha fatto un gran lavoro, cercando di sbattere subito il mostro in prima pagina…

Sì, credo di sì. Non abbiamo visto un’informazione elegante e intellettualmente onesta. Del resto questo è un Paese che ha sempre cercato in qualche modo di delegare tutto, nel bene e nel male. Ci sono sempre stati gli eroi, che sono i protagonisti che incarnano lo spirito salvifico, e poi i cattivi che devono essere riconoscibili e il più possibilmente lontani dalla nostra quotidianità per poterci comunque permettere di sentirci sicuri.

da CADOINPIEDI

#openlombardia I ribelli in casa Formigoni

Un siparietto irresistibile. Fabio Massa lo descrive benissimo.

Secondo quanto ha appreso Affaritaliani.it oggi in Consiglio regionale c’è stato un siparietto che di certo non farà piacere al governatore della Lombardia Roberto Formigoni. Durante la votazione infatti della mozione dell’opposizione sull’operato politico della Giunta che guida la Regione, per un mero errore di regia, il voto che doveva essere segreto è risultato palese. A questo punto tutti hanno potuto constatare come nella maggioranza in tre abbiano votato contro la Giunta Formigoni. I tre ‘ribelli’ del Pdl sarebbero l’ex assessore del Pdl Stefano Maullu, Angelo Gianmario e Sante Zuffada. La notizia non è ancora confermata ma pare che l’avvenuto stia creando non poco imbarazzo e mal di pancia tra le mura di Palazzo Lombardia.

Sonia Alfano non è in IDV. Parola di Massimo Donadi.

Un’Ansa di ieri. Per dire.

BALLOTTAGGI:DONADI,SONIA ALFANO?CHI NON E’ QUI NON E’ IN IDV
PALERMO
(ANSA) – PALERMO, 21 MAG – “Idv oggi è tutta in questa sala e con Leoluca Orlando, chi non è qui e non è con Orlando non é dell’Idv. Sonia Alfano ha appoggiato Ferrandelli? Non è di Idv, non cacciamo chi non ha neppure la tessera ma bisogna condividere il sistema dei nostri valori per stare nel partito”. Lo dice il capogruppo di Idv alla Camera, Massimo Donadi, ai cronisti che gli hanno chiesto come si comporterà il partito nei confronti dell’eurodeputato Sonia Alfano eletta a Strasburgo come indipendente ed attuale presidente della commissione antimafia del Parlamento europeo. (ANSA).