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Quel Paese che in questo tempo taglia gli stipendi della DIA

La lotta alla mafia è ancora una priorità per il governo? A parole sì, nei fatti sembra di no. Lo dimostrano i costanti tagli al bilancio della Dia, la Direzione investigativa antimafia, alle prese con una crisi finanziaria senza precedenti. L’ultimo taglio lineare riguarda il “Tea”, il trattamento economico accessorio che viene erogato ai 1.300 dipendenti della Direzione. Sino a due anni fa questa voce di bilancio – che rappresenta il 20 per cento dello stipendio – era considerata spesa obbligatoria.

Dal 2011 in poi, con le leggi di stabilità, il “tea” per i dipendenti dell’Antimafia rischia di diventare un miraggio, perché quelle somme non sono più stanziate automaticamente per legge, ma soggette alla discrezionalità dell’esecutivo che ne dispone il pagamento con successivo decreto.

Per garantire il “tea” servirebbero 10 milioni di euro l’anno, ma la somma disponibile ammonta a poco più della metà. Dal 2001 al 2012 il bilancio della Dia è passato da 28 milioni di euro a 17. La Direzione investigativa sconta anche carenze di personale: per lavorare a pieno regime la pianta organica prevede circa 3 mila tra funzionari e investigatori. In servizio ce ne sono meno della metà.

(click)

I negazionisti in Riviera

Avevo scritto di un piccolo assessore imbecille e invece gli amici del GAP (Gruppo Antimafia Pio La Torre) mi scrivono che la specie è vasta e (purtroppo per noi) in ottima salute. Il negazionismo è un male oscuro che si rivela non solo nelle negazioni grette e nette di qualche cretino ma galleggia anche tra i moderati per indole, posizione o professione che attraverso il “benaltrismo” o l’idiozia prêt-à-porter riescono a scalare l’argomento tra le cose poco importanti. Questo Paese si è salvato con gli allarmisti, miei cari: dal Peppino Impastato esibizionista e buffone, il Pippo Fava idealista, donnaiolo e complottista, dal Beppe Alfano che vedeva mafia dappertutto o dal Giovanni Falcone che faceva antimafia per fare carriera. Riflettiamoci, va.

Qui i piccoli imbecilli in Riviera schedati dal GAP.

Pippo Fava non amerebbe questo Paese

Pippo_Fava30 anni fa moriva ammazzato Pippo Fava. Oggi sono da leggere le parole (come sempre bellissime) del figlio Claudio nella sua intervista per L’Unità (qui) e riprendendo un articolo memorabile scritto proprio per I Siciliani dopo la sua morte. Perché quei ragazzi di Fava oggi sono una lezione che sarebbe meglio perseguire piuttosto che commemorare:

Un uomo

da “I Siciliani”, gennaio 1984

Pippo Fava ha scritto un sacco di libri, e cose di teatro anche.

Però Pippo Fava non è mica uno importante.

Per esempio, arriva una centoventiquattro scassata, dalla centoventiquattro esce uno con la faccia da saraceno e un’Esportazione che gli pende da un angolo della bocca e ride e quello è Pippo Fava.

Bene, un giorno a Pippo Fava gli dicono di fare un giornale, è una faccenda strana affidare un giornale a Fava che, dice la gente perbene, è uno che non si sa mai che scherzi ti combina: comunque il giornale c’è, si chiama il Giornale del Sud e subito Pippo Fava lo riempie di ragazzi senza molta carriera ma in compenso mezzi matti come lui.

«Tu, come ti chiami?». «Così e cosà». «E cosa vorresti fare?».

«Mah, politica estera…». «Ok, cronaca nera».

La cronaca, al Giornale del Sud, la si fa all’avventura.

Non si conosce nessuno, si parte proprio da zero. Ci sono storie divertenti, tipo quella del povero emarginato napoletano che arriva in redazione e tutti fanno i pezzi commoventi sul povero emarginato e poi arriva Lizzio dalla questura per un paio di stupri…

Si chiude alle tre di notte; non si “buca” una notizia.

Con grande stupore, i catanesi apprendono che a Catania c’è una cosa che si chiama mafia. E che Catania è divenuta un centro del traffico di droga.

Dopo qualche mese, un attentato: un chilo di tritolo. Ma si va avanti.

La faccenda dura un anno. Poi succedono tre cose.

La prima è che gli americani decidono che la Sicilia va bene per coltivarci missili.

E questo a Fava non va bene, e lo scrive.

La seconda che a Milano acchiappano un grosso mafioso, Ferlito, parente di un assessore e uomo di molto rispetto;

e anche qua, Fava si comporta piuttosto – come dire – maleducatamente.

La terza è che nella proprietà del giornale arrivano amici nuovi, uno dei quali è…

– ok, avvocato, niente nomi –

… un importante imprenditore catanese coinvolto nel caso Sindona e un altro un importante politico catanese coinvolto nell’assessorato all’agricoltura.

Telegramma all’illustrissimo dottor Fava:

«Comunichiamo con rincrescimento a vossignoria illustrissima che il giornale ora ha un altro direttore».

I matti, i ragazzi della redazione vogliamo dire, occupano il giornale. L’occupazione dura una settimana, durante la quale gli occupanti ricevono la solidarietà di alcuni tipografi, di una telefonista, di un guardiano notturno e di un ragazzino dell’Ansa (a pensarci, anche un giornalista ha telefonato, allora). Poi arriva il sindacato e, molto ragionevolmente, l’occupazione finisce.
Senza Fava finisce anche, e alla svelta, il Giornale del Sud (perché non-leggere le stesse notizie su un giornale nuovo, se puoi già non-leggerle su quello vecchio?).

Ma Fava nel frattempo non s’è stato con le mani in mano. Ha raccolto una decina dei “suoi” matti: «Si fa un giornale».

Come, quando e se si farà non lo sa nessuno.

Ma intanto si mette su una bella redazione, con le sue brave “lettera ventidue” scassate.
Chi è disposto a investire qualche centinaio di milioni su due “lettera ventidue” scassate, dieci matti fra i venti e i venticinque anni e uno di sessanta? Ovviamente, nessuno.

D’altra parte dopo l’esperienza del GdS Fava e i suoi, a sentir parlare di padroni, si mettono a bestemmiare.

Allora si mette su una bella cooperativa – «Radar!». «E che vuol dire?».

«Suona bene!» – si disegna un bellissimo stemmino per la cooperativa e si firmano alcune tonnellate di cambiali.

Due mesi dopo arrivano due bellissime Roland di seconda mano, offset bicolori settanta/cento, e Fava se le cova con lo sguardo che se invece di essere due offset fossero due turiste svedesi lo denuncerebbero per stupro.

A fine novembre, Pippo Fava arriva in redazione, schiaccia l’Esportazione nel portacenere e fa:

«Ragazzi, si fa il giornale». «Quando?» «Con quali soldi?»

«Io faccio il pezzo sulla Procura!» «Come lo chiamiamo?» «Io ho un’idea per il pezzo di colore» «Ma i soldi…».

La vigilia di Natale, le Roland sputano una cosa rettangolare con scritto su

«I Siciliani».

Anno uno, numero uno, i cavalieri di Catania e la mafia, la donna e l’amore nel sud. Un tipografo porta il pupo in redazione. «Be’, potrebbe anche andare» fa uno dei redattori con nonchalance, e subito dopo si mette a ballare.
Il giornale arriva in edicola alle nove di mattina.

A mezzogiorno non ce n’è più (a piazza della Guardia, dicono, due fanno a cazzotti per l’ultima copia: ma onestamente non ne abbiamo le prove). Si brinda nei bicchieri di plastica, e si prepara il numero due; nel cassetto i mazzi di cambiali sembrano meno minacciosi.

Ed è passato un anno. La mafia, a Catania, c’è o non c’è?

«Ma no… al massimo un po’ di delinquenza…» (il signor Prefetto).

«Cristo se c’è! E sbrigatevi a fare qualcosa che qui finisce peggio di Napoli» (I Siciliani).

E quel signore, come si chiama quel signore là?

«Noto pregiudicato…» (la stampa per bene).

«Santapaola Benedetto, detto Nitto, MAFIOSO!» (I Siciliani).

 

E i missili, dite un po’, vi dispiace se lascio un paio di missili nel sottoscala? «Ma prego, si figuri, come fosse a casa sua!».

«Ahò! Ca quali méssili e méssili! I cutiddati a’ casa vostra, si vvi l’aviti a ddàri!»

 

E i cavalieri, vediamo un po’; anzi, i Cavalieri?

«Ecco dunque cioè nella misura in cui ma però… AIUTO diffamano Catania!»

«I cavalieri catanesi alla conquista di Palermo con la tolleranza della mafia.

Firmato Dalla Chiesa. Noi stiamo con Dalla Chiesa».

Ed è passato un anno.

C’è un ragazzino, a Montepò, che ancora non sa bene se andrà a fare il suo primo scippo o no. C’è una vecchia, in via della Concordia, che è rimasta fuori dall’ospedale perché non c’era posto. C’è una tizia, a viale Regione Siciliana, che costa ventimila lire ed ha quattordici anni. C’è un manovale, alla zona industriale, che ci ha rimesso una mano e dicono che la colpa è sua. C’è uno sbirro, in viale Giafaar, che ha una bambina a casa ma va di pattuglia lo stesso. C’è una bambina, da qualche parte allo Zen, che forse diventerà una puttana e forse una donna felice.

E c’è un’altra bambina, in un cortile pieno di sole, e ora Pippo Fava prende in braccio la bambina e la bambina ride.

«Nonno, nonno, ora faccio l’attrice».

«Qualche volta mi devi spiegare chi ce lo fa fare, perdìo. Tanto, lo sai come finisce una volta o l’altra: mezzo milione a un ragazzotto qualunque e quello ti aspetta sotto casa…

Beh, te lo prendi un caffé? E l’occhiello, vedi che dieci righe per un occhiello a una colonna sono troppe».

Forse mezzo milione, forse di più: il tizio, con l’altro tizio e quello che doveva dare il segnale, era là ad aspettare e ha alzato la 7,65 e ha sparato. Professionale.

Certo, in una villa di Catania, s’è brindato, quella notte.

Forse ha avuto il tempo di guardarlo negli occhi. Non pensiamo spaventato.

Forse, impietosito. Sapendo benissimo che il tizio pagato – uscito forse da un miserabile quartiere, uno di quelli che lui non era riuscito a salvare – sparava anche contro se stesso, contro la propria eventuale speranza.

Forse ha pensato che un giorno o l’altro quelli che venivano dopo di lui ci sarebbero riusciti a farli smettere di sparare, a…

Ma forse non gliene hanno dato il tempo.

***

E questo è tutto.

Ok, ringraziamo tutti quanti, grazie di cuore a tutti.

Adesso dobbiamo ricominciare a lavorare, c’è ancora un sacco di lavoro da fare per i prossimi dieci anni.

Mica possiamo tirarci indietro con la scusa che è morto uno di noi.

Se qualcuno vuole dare una mano ok, è il benvenuto, altrimenti facciamo da soli,

tanto per cambiare.
Va bene così, direttore?

Elena Brancati, Cettina Centamore, Santo Cultrera, Claudio Fava, Agrippino Gagliano, Miki Gambino, Giovanni Iozzia, Rosario Lanza, Nanni Maione, Riccardo Orioles, Nello Pappalardo, Tiziana Pizzo, Giovanna Quasimodo, Antonio Roccuzzo, Fabio Tracuzzi, Lillo Venezia.

De Girolamo e il consociativismo

de-girolamo-interna-640Si parla di consociativismo quando:

Il consociativismo è una forma di governo che garantisce una rappresentanza ai diversi gruppi che compongono un paese profondamente diviso. Viene spesso adottato per gestire i conflitti che sorgono in comunità nazionali profondamente divise per ragioni storiche, etniche o religiose.

I suoi obiettivi sono: garantire la stabilità del governo, assicurare la sopravvivenza degli accordi di divisione del potere e la sopravvivenza della democrazia, evitare l’uso della violenza politica. Quando il consociativismo viene organizzato secondo le diverse confessioni religiose che convivono in un determinato paese, è noto anche come confessionalismo. Un esempio di governo in cui sia stato applicato il confessionalismo è offerto dal Libano.

È spesso visto come un sinonimo dell’espressione ‘condivisione del potere’ (power-sharing), sebbene da un punto di vista tecnico sia solo una delle forme attraverso cui può realizzarsi la condivisione del potere.[1]

Qui, invece, in Italia il consociativismo è il modell0 sullo stile di Nunzia De Girolamo che decide di aprire le “larghe intese” per coinvolgere persone di diversa stirpe e appartenenza politica con interessi comuni: solidali tra sodali. Come un clan. E questi ancora non capiscono che è finir l’epoca dei reati ma oggi infastidisce di più un atteggiamento non “consono” umanamente e politicamente, prima che per la legge. Così anche oggi lo chiudiamo con questa brutta pagina:

30 luglio 2012, ore 19 e 15. Inizia la riunione a casa del padre di Nunzia De Girolamo. Dura 116 minuti. Ad un certo punto il ‘direttorio’ affronta il problema dell’ubicazione degli uffici Asl ad Airola.
Nunzia De Girolamo: “Sai cos’è? Che Tanga (?) vuole un compenso… Dove dovremmo metterlo? A Sant’Agata che Valentino (il sindaco, ndr) è uno stronzo? Cioè, nemmeno è venuto da me”.

Michele Rossi (manager Asl Benevento): “Ma aspetta, attenzione, perché noi questo… Valentino è diverso, Nunzia. A Valentino noi non gli stiamo facendo un piacere”.

Felice Pisapia (direttore amministrativo Asl): “Mh”.

Rossi: “A Valentino stiamo creando un po’ di problemi che lui intelligentemente ha incassato”.

De Girolamo: “Ah”.

Rossi: “Nel senso che noi gli stiamo spostando delle attività da…”.

Pisapia: “Dal centro città alla periferia”.

Rossi: “Dal centro città nell’ospedale”

(…)

Rossi: “Quindi lui ha incassato questa cosa…”.

De Girolamo: “Ma lui però non ha… Non avrà piacere che lo mettiamo ad Airola”.

(…)

Più avanti si parla di una struttura a Puglianello
Luigi Barone (collaboratore di Nunzia De Girolamo): “…fatto a Puglianello, il coso… Puglianello era centrale, eh!”.

Gelsomino Ventucci (direttore sanitario Asl): “No ma quello quando…”.

Barone: “…il sindaco era Tonino Bartone, non perché era centrale…”.

Ventucci: “Sì, volere è potere, politicamente si può…”.

Barone: “Allora dico (inc.) a me se i nostri sindaci non hanno interesse, si fa ad Airola e si può fare anche a Forchia!”.

De Girolamo: “No, Forchia no!”.

Barone: “No, voglio dire…”.

De Girolamo: “Preferisco poi darlo ad uno del Pd che ci vado a chiedere 100 voti…”.

Infine si parla dell’ospedale religioso Fatebenefratelli
De Girolamo: “Miché, scusami, al Fatebenefratelli facciamogli capire che un minimo di comando ce l’abbiamo. Altrimenti mi creano “coppetielli” con questa storia. Mandagli i controlli e vaffanculo”.

Pisapia: “Sempre colpa tua è!”.

(…)

De Girolamo: “Così si impara Carrozza (direttore amministrativo Fatebenefratelli, ndr)! E che cazzo! Va da Michele, Michele è sempre disponibile, viene da me…”.

Rossi: “Quelle lettere che lui mi chiese gliele ho fatte tutte e due”.

(…)

Pisapia: “Se Fra’ Pietro gli dà l’ok, Carrozza, anche se non è d’accordo, lo fa”.

(…)

De Girolamo: “E perciò, se tu gli crei un problema di controllo, devi vedere come diventano tirchi! Devi vedere Fra’ Pietro come dice a Carrozza: Accelera”!

Pisapia: “Eh, credo”.

De Girolamo: “E fagli il 700!”.

Cosa bolle in SEL

Riporto due interventi di queste ore di Marco Furfaro e Fulvia Bandoli che aprono una discussione interessante (o vitale, dipende dai punti di vista) sulla questione SEL. Mi piacerebbe sapere cosa ne pensate:

Cosa aveva scritto ieri Marco Furfaro:

“Da un lato c’è un popolo, quello democratico, che ha cacciato un’intera classe dirigente e che attraverso le primarie si è affidato interamente a un leader sperando che sia la volta buona. Dall’altro ci siamo noi di SEL, all’estremo opposto, che stiamo per celebrare un congresso semiclandestino e che non riusciamo ad aprirci, nemmeno ai nostri iscritti, perché tutto rimane ipocritamente unanime, in modo tale da decidere e misurare le differenze nei soliti caminetti alla presenza di pochi. In mezzo c’è la strada giusta, quella dei percorsi collettivi, aperti e partecipati.

O si cambia o si muore. Vale anche per noi. Perché è finito il tempo dell’ipocrisia. E questo 2014 io lo inauguro così: smettendo di far finta che tutto vada bene, mentre tutto cambia e siamo stati mesi a discutere delle differenze del gruppo dirigente in luoghi chiusi invece che all’aperto o con i nostri iscritti. Come se ne avessimo paura.

Tra pochi giorni si apre il congresso nazionale di Sel. Tra definire un organigramma calato dall’alto o affidarci tout court al leader salvifico (che abbiamo già, tra l’altro), c’è solo una strada: il congresso stabilisca un processo partecipato, aperto, trasversale, che restituisca protagonismo agli iscritti, ai movimenti, alle associazioni. A chi ha a cuore le sorti della sinistra.

Un processo aperto che inauguri una sfida nuova, che porti alla definizione della proposta politica per le europee e pure alla selezione dei ruoli apicali di chi deve condurla. Per questo, oltre alla naturale conferma di Vendola, ho proposto le primarie per la scelta del coordinatore: perché non ne posso più di una discussione che vive da mesi nei corridoi e perché proposta politica e ruoli, anche quelli apicali, o sono frutto di percorsi collettivi che si misurano apertamente sulle loro differenze o non valgono niente. Io scommetto su Sel. E voglio farlo con tutti quelli che sono pronti a scommettere su una sinistra all’altezza del nostro tempo, così come voglio scommetterci io.”

Come risponde Fulvia Bandoli:

Caro Furfaro, ho apprezzato la tua presa di posizione di ieri anche se non tutto mi convince nel tuo linguaggio: ad esempio io credo che dentro Sel non si debba “spazzar via” nessuno, come ha fatto Renzi nel Pd, ma semmai far prevalere una linea politica più chiara attraverso un confronto pubblico che, dentro Sel, e’ stato sempre difficilissimo fare. Penso anche che oltre a quelli che individui tu ( chiusi in una stanza a decidere per tutti o a nascondere differenze che pure ci sono ci siano anche molte e molti altri che da tempo hanno cercato e cercano di fare battaglie politiche e un confronto di idee a viso aperto, mettendoci la faccia in prima persona, e che anche per questo non sono stati accolti molto bene: c’e’ chi propose, prima di fare il patto con il Pd, di fare un confronto ampio a sinistra in modo da far valere meglio e di più le cose che andavamo proponendo ad un Pd che continuava purtroppo a guardare a Monti e non si accorgeva di quanto crescesse la protesta e il voto a Grillo; ci venne  detto, in quell’occasione, che il tempo stringeva e che non si poteva aprire nessun confronto o cantiere.

Ci sono anche alcune centinaia di compagne e compagni che hanno cercato di animare questo congresso semiclandestino, come lo chiami tu, con emendamenti di sostanza su alcune questioni politiche e programmatiche tentando di aprire un confronto e che, lavorando politicamente da oltre due mesi, sono riusciti a farli votare e approvare in oltre venti congressi federaliinsomma non proprio tutti e tutte sono stati in questi mesi fermi a nascondere o a misurare le differenze nel gruppo dirigente ma hanno preso posizioni pubbliche chiare e tonde.

Anche sul discorso di ieri del Presidente della Repubblica, per citare l’ultimo esempio di un avvenimento politico sul quale non e’ rintracciabile una posizione di merito di Sel, alcune e alcuni di noi hanno detto la loro.

Dunque ben venga questo tuo appello, anche se un poco tardivo, ad aprirsi e a discutere , a non tenere tutto chiuso in una stanza, e a non trattare chi ha opinioni diverse solo come compagni che rompono le scatole; ma non illuderti che con quelle che chiami primarie ( oramai in italia si chiamano tutte primarie…) si possano trovare tutte le risposte che cerchiamo. Se non si rendono esplicite le differenze sul ruolo, sul futuro di Sel, sui suoi programmi rispetto all’Europa e alle riforme che si vogliono perseguire, se non si capisce cosa propone l’uno o l’altro di coloro che ambiscono a dirigere Sel sara’ difficile scegliere anche se fai le benedette primarie. Quello che escludo anch’io e’ che si possa continuare a scegliere i nostri dirigenti con il metodo medievale della spada sulla spalla imposta dal capo: un’ altra strada democratica e partecipata dobbiamo per forza trovarla.

Dunque chiunque intende candidarsi a dirigere Sel si presenti con una proposta politica chiara sull’Europa e sull’ Italia e sul ruolo della sinistra e di Sel nel ricostruire una alternativa al liberismo.

Poi potrà cominciare una discussione che non sia solo di metodo ma di sostanza. Qualcuno ti ha rimproverato il fatto che tu pur essendo nel coordinamento nazionale fino ad ora non abbia mai sollevato problemi: io non ho nulla da dire, se senti il bisogno di sollevarli adesso per me va bene.

E prendo sul serio la tua riflessione.

Scuola Diaz: 11 arresti 13 anni dopo

diaz_scuola_g8_irruzione_psDopo tredici anni (13) sono stati arrestati undici dei poliziotti responsabili della “macelleria messicana” all’interno della Scuola Diaz a Genova durante il G8 del 2001. Certo che in questi tempi di nuovismo (tra anno nuovo, pd nuovo e centrodestra nuovo) la notizia è passata pressoché inosservata come un normale raffreddore invernale ma non è facile dimenticare chi con grande sicumera ci diceva che alla Scuola Diaz non era successo nulla di illecito, dimenticare Castelli che definì normale lo stato delle stanze durante una visita alcuni giorni dopo senza notare il sangue sulle pareti, oppure il Ministro dell’Interno Bobo Maroni che oggi gioca a fare la verginella lassù in Lombardia, o il Ministro della Giustizia Nitto Palma oppure Gianfranco Fini che fu presente tutto il tempo nella sala operativa della Questura. Forse vale la pena di ricordare anche il brutto errore di Tonino Di Pietro che si accodò ai berluscones per negare una Commissione d’Inchiesta sul G8. Insomma è passata un’era eppure basterebbe così poco per ricordare.

Ci sono voluti quasi tredici anni ma adesso la vicenda dell’irruzione nella scuola Diaz, che chiuse nel sangue i giorni drammatici del G8 di Genova, può dirsi finalmente compiuta.

Fra Natale e Capodanno, su ordine del tribunale del capoluogo ligure, sono stati infatti arrestati 11 dei poliziotti condannati in via definitiva per l’irruzione del 21 luglio 2001 nella scuola dormitorio e per l’introduzione nella stessa di prove false che erano servite a giustificare la «macelleria messicana» (la definizione è di Michelangelo Fournier, all’epoca del G8 vicequestore aggiunto del primo Reparto Mobile di Roma) che aveva causato 87 feriti gravi e gravissimi. Gli ultimi due funzionari per cui sono scattati gli arresti, il pomeriggio del 31 dicembre, sono stati Spartaco Mortola, ai tempi del G8 capo della Digos Genovese poi diventato questore vicario di Torino e capo della Polfer nel capoluogo piemontese, e Giovanni Luperi ex dirigente Ucigos poi passato ai servizi segreti prima della pensione.

I due, in base alla sentenza definitiva emessa dalla Cassazione nel luglio scorso, devono scontare ancora rispettivamente otto mesi e un anno di reclusione (sui quattro di condanna). Li passeranno agli arresti domiciliari e devono ringraziare il decreto «svuota carceri» del ministro della Giustizia Cancellieri se per loro non si sono aperte le porte di una cella dopo che il tribunale di Sorveglianza di Genova, nei giorni scorsi, ha respinto le richieste di affidamento ai servizi.

Stessa sorte, soltanto poche ore prima, era toccata anche a Francesco Gratteri, ex capo dello Sco ed ex numero 3 della Polizia e una carriera piena di successi e encomi nella lotta contro la mafia (fu tra i poliziotti che fecero scattare la manette ai polsi di Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca) prima della sospensione dal servizio e della condanna definitiva che lo consegna adesso ad un anno di arresti domiciliari sui quattro a cui lo aveva condannato la Cassazione.

Dopo una battaglia legale durata anni, dopo tre processi, continui rinvii, silenzi, coperture istituzionali, depistaggi e infine prima la prescrizione, che ha cancellato le accuse di violenze lasciando in piedi solo quelle per la costruzione di prove false, e poi l’indulto, nei giorni scorsi è finito agli arresti anche l’ex capo dello Sco Gilberto Caldarozzi, per cui la Cassazione ha respinto il ricorso con cui chiedeva la cessazione della detenzione domiciliare e l’affidamento ai servizi sociali, che deve scontare gli otto mesi restanti della condanna originaria a 3 anni e 8 mesi (ridotta grazie all’indulto).

Stesso provvedimento, visto che il tribunale di sorveglianza ha negato per tutti l’affidamento ai servizi, anche per Nando Dominici, ai tempi del G8 capo della squadra Mobile di Genova e oggi pensionato, Filippo Ferri, ex capo della squadra mobile di Firenze e oggi responsabile della sicurezza del Milan, Massimo Nucera, l’agente che finse di essere stato accoltellato all’ingresso nella scuola Diaz, Salvatore Gava, ex capo della Mobile di Viterbo che ha lasciato la divisa, Fabio Ciccimarra, ex capo della Mobile de l’Aquila, e l’ispettore capo Maurizio Panzieri.

Tutti, durante gli arresti domiciliari che varieranno dagli otto mesi all’anno di detenzione, potranno godere di alcune ore di permesso, potranno utilizzare il telefono e godere degli sconti di pena per buona condotta. E per molti di loro non ancora arrivati alla pensione, una volta terminata la sospensione del ministero dell’Interno legata all’interdizione dai pubblici uffici, la carriera in polizia potrebbe anche ripartire dopo le molte promozioni accumulate in questi quasi tredici anni.

Massimo Solani per L’Unità

Facite ammuina

faciteammuina«All’ordine Facite Ammuina:
tutti chilli che stanno a prora vann’ a poppa
e chilli che stann’ a poppa vann’ a prora:
chilli che stann’ a dritta vann’ a sinistra
e chilli che stanno a sinistra vann’ a dritta:
tutti chilli che stanno abbascio vann’ ncoppa
e chilli che stanno ncoppa vann’ bascio
passann’ tutti p’o stesso pertuso:
chi nun tene nient’ a ffà, s’ aremeni a ‘cca e a ‘ll à”.
N.B.: da usare in occasione di visite a bordo delle Alte Autorità del Regno.»

traduzione in lingua italiana:

All’ordine Facite Ammuina
tutti coloro che stanno a prua vadano a poppa
e quelli a poppa vadano a prua;
quelli a dritta vadano a sinistra
e quelli a sinistra vadano a dritta;
tutti quelli sottocoperta salgano sul ponte,
e quelli sul ponte scendano sottocoperta,
passando tutti per lo stesso boccaporto;
chi non ha niente da fare, si dia da fare qua e là.

La fragilità pedagogica

Dopo il post sulla fragilità farmaceutica di oggi sono uscite analisi e commenti interessanti sia sui social (cercherò di condensarli in un post nei prossimi giorni) che nel web. Già il fatto che se ne discuta è un ottimo passo in avanti su un tema che vive spesso di certezze assolute, di qualche complottista e di interessanti dubitatori. Vale la pena ripartire dal post del blog di pedagogia Ponti e Derive:

Purtroppo la deriva di una reazione sana e legittima di una disciplina che sta ricercando una nuova ed ulteriore identità in un clima di trasformazione culturale epocale (rivoluzione web – globalizzazione ) rischia di negare il valore dell’alterità: pedagogia versus tutti, che può portare ad una poco proficua azione da Don Chiscotte,  esistere contro i mulini a vento.

Eppure educazione e pedagogia sono una struttura fondamentale della civiltà umana, irresistibilmente carsiche, irresistibilmente simili ad una araba fenice che rinasce dalle proprie ceneri ad ogni svolta epocale, e questo è uno di quei momenti di rinascita, in cui l’essere Don Chiscotte non serve.

La stessa natura del cambiamento epocale dichiara che la dimensione educativa e pedagogica non può resistere in una identità “muscolare”, che si dichiara onnipotente mentre che le altre professioni e gli altri saperi sono solo feccia, ma in una esistenza liquida e capace di mostrarsi nella complessità.

Probabilmente una critica al paradigma scientifico prevalente va posta, di default, con tutta le serietà professionale che nasce dal non farne una crociata, ponendo tutta la potenza argomentativa e disciplinare laddove la medicina e la psicologia non trovano confini ed errano nell’errore e negli eccessi, e nell’eccesso di risposta farmaceutica.

Ma ogni bambino gioverà oltre che un buon supporto educativo, anche dun eventuale sostegno di musicoterapia, arteterapia, musicoterapia, psicomotricità, logopedia, consentiti e raggiungibili solo attraverso un percorso diagnostico fatto in un servizio di neuropsichiatria infantile; che per mia personale esperienza non sempre così necessariamente improntate alla scelta farmacologica quanto più spesso a scelte multidisciplinari, integrative volte al benessere complessivo del bambino.

Questa dimensione va colta e pensata da parte di chi, occupandosi di educazione, è consapevole di dovere dare significato alla dimensione complessiva del bambino, alle percezioni sociali e culturali che si creano attorno a lui, alla visione che la sua famiglia ha di lui, e di ogni suo eventuale problema, sanitario, emotivo, o altro.

Come si vadano a collocare l’educazione professionale e la pedagogia in questo scenario è sicuramente una esplorazione che va fatta, anzi che deve essere fatta.

Il post completo è qui.