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Claudio è un conservatore

mario-monti-timeE lo scrive in un post memorabile per Non Mi Fermo:

Sono conservatore perché parlo ancora di “questione morale”. Sono conservatore perché promuovo iniziative di trasparenza nella pubblica amministrazione per contrastare la criminalità organizzata. Sono conservatore perché non ho conti all’estero e sono favorevole all’anagrafe fiscale sul modello francese. Sono conservatore perché favorevole a una legge sulla tutela del paesaggio in Italia.

Sono conservatore perché non vorrei essere governato da ragionieri, ma da “ragionieri della propria utopia”, per dirla con Magrelli.

Non so se Monti sappia chi è Valerio Magrelli. È un poeta, un bravo poeta, uno di quelli studiano e ascoltano persino nelle università americane. Lo so, citare un poeta contemporaneo è un po’ fuori moda.

D’altra parte sono un conservatore anche perché leggo ancora poesie.

LA STAMPA intervista Giulio Cavalli

Le cosche della ‘ndrangheta sono ben radicate in Lombardia. L’impegno di un attore che è arrivato al Pirellone
ILARIA LIBERATORE E MARCO PUELLI (MAGZINE)
Consigliere regionale per Sinistra ecologia e libertà e attore di teatro, Giulio Cavalli è impegnato da anni nella sensibilizzazione dei cittadini del Nord sul tema della criminalità organizzata. Affinché si sdogani questa idea che la Lombardia è immune dall’assalto delle mafie e si impari a riconoscerne i segni.

Ci voleva il teatro di Giulio Cavalli, il “teatro partigiano”, per raccontare e affrontare il problema della mafia a Milano?

Il vero problema della città è che sulla mafia si è passati dalla narcotizzazione della sua esistenza alla sua negazione assoluta. Ciò va imputato agli alti rappresentanti delle istituzioni del passato. Oggi prevale, invece, un sentimento di indignazione e si grida all’allarme. Ma, allo stato attuale dei fatti, bisogna fare un passo in più: serve una lettura collettiva del fenomeno che omogeneizzi la forbice tra chi fa attente analisi del problema e chi ancora lo tratta con toni romanzeschi. Questa è la funzione del teatro: creare una narrazione che sia credibile per il maggior numero di persone possibile. Gli intellettuali devono assumersi la responsabilità di farlo in prima persona. Certo, il teatro non risolve il problema mafia, ma se riesce a stimolare la curiosità sul tema, declinandolo nell’ordinario, si diventa tutti un po’ più vigili.

Per questo si è battuto per diversi progetti, compreso l’Expo No Crime?

Con Expo No Crime, progetto portato avanti anche grazie a Giuseppe Civati, consigliere regionale del Pd dal 2005, abbiamo voluto presentare un lavoro interconsiliare che tenga conto sia delle rappresentanze civiche, sia di quelle politiche regionali, provinciali e comunali per lavorare insieme su Expo. L’idea di base era confezionare una legge quadro antimafia, cosa che è avvenuta, anche se con risultati non del tutto soddisfacenti, perché in Consiglio regionale è stata oggetto di alcuni emendamenti. Abbiamo però ottenuto una legge regionale per l’educazione alla legalità (art.8 della legge regionale del 14 febbraio 2011, ndr).

A Milano, quale può essere un luogo simbolo della lotta al crimine organizzato?

Senza dubbio, lo stabile di via Montello 6. Era il fortino della Cosco, una famiglia calabrese molto rispettata nell’ambiente della criminalità organizzata milanese e che, con minacce e intimidazioni, lo aveva occupato. Lo sgombero, avvenuto lo scorso giugno, è stato un segnale molto importante. Gli ‘ndranghetisti della famiglia Cosco sono infatti gli assassini di Lea Garofalo, la testimone di giustizia rapita nel pieno centro di Milano e uccisa il 24 novembre 2009, la cui vicenda è uno degli esempi più evidenti di come i fatti di mafia al Sud siano sempre raccontati con loquacità, mentre ciò che avviene sul territorio milanese è sempre ridotto a liti famigliari. Questo perché non si vuole sentire odor di mafia.

Lei è uno dei pochi intellettuali del Nord Italia ad essere stato minacciato dalla mafia: cosa significa vivere sotto scorta a Milano?

Questa è una notizia falsa che continua ad esser utilizzata da chi mi osteggia per farmi diventare un fenomeno economicamente interessante. In Lombardia le minacce a pubblici amministratori e dirigenti del Comune e l’apertura di programmi di vigilanza sono all’ordine del giorno. Purtroppo le scorte che fanno più rumore sono quelle assegnate a una persona di teatro più che a un geometra. Mi chiedo se nei prossimi anni ci si domanderà perché è stata costruita un’aula bunker negli anni’80. Questa sì che è una realtà molto più interessante di un attore sotto scorta.

Qual è il suo rapporto con la città? Cosa le piace e cosa non le piace di Milano?

Molto buono, perché la cittadinanza di Milano ha sempre avuto delle reazioni migliori della propria classe dirigente. Comunque sia, la mia vicenda personale, teatrale e politica è sempre stata accolta a braccia aperte dalla città. Qui mi sento difeso. Mi sento protetto.

(Da La Stampa.it)

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La bellezza come senso di appartenenza

Architettura è quel che ci sta intorno. Noi – come tutti quanti – ci passiamo la vita dentro. (Louisa Hutton)

2vv5nhjUn articolo di Antonio Monestiroli su Repubblica che lascia una visione “politica” della bellezza, delle città, dell’urbanistica:

IN QUESTA confusione è necessario che ogni cittadino, prima di pensare di non essere all’altezza di giudicare, si faccia forte della propria esperienza. Affidarsi alla propria esperienza vuole dire giudicare i nuovi edifici allo stesso modo in cui giudichiamo i vecchi e cioè rispetto alla loro utilità e bellezza. L’utilità tutti sanno cosa è, la bellezza meno. Anche se c’è un modo molto semplice di definire la bellezza di un edificio: considerarla l’espressione della finalità dell’edificio stesso, che va oltre la sua utilità immediata, che pure è importante, che riguarda il suo significato culturale. Per capirci meglio pensiamo a un edificio straordinario come il Duomo di Milano, molto amato dai milanesi non solo per il suo aspetto esteriore, ma per il suo magnifico interno. Io credo che sia proprio la forma del suo interno a essere espressiva di un’idea di comunità che già appartienea tuttie che quando viene riconosciuta in un luogo dà un senso di pace e di benessere. Tutti gli edifici ben costruiti provocano in noi un’emozione: nei grattacieli è l’orgoglio della costruzione a provocarla, nella casa è il senso di appartenenza a un luogo. Ma perché questi nuovi e ingombranti edifici costruiti a Milano non provocano alcuna emozione? Il perché va cercato nelle premesse alla loro costruzione: la loro finalità non è quella di essere espressivi di alcunché ma quella di essere attraenti, qualità questa che per l’architettura è nefasta. Oggi i cittadini pagano il prezzo di una scarsa competenza dei progettisti che hanno lavorato a Milano, di una certa assenza dell’ amministrazione pubblica negli anni passatie di una ingiustificata libertà d’azione degli imprenditori, che hanno dimostrato di non avere alcuna attenzione per la città in cui hanno operato.

(Grazie a Daniele per la segnalazione)

OSTINATAmente sMODERATI: regole per l’uso

Schermata 2013-01-06 alle 12.33.08Abbiamo scelto la frase che ci rappresenta: OSTINATAmente sMODERATO.

Perché c’è dentro l’ostinazione con cui abbiamo lavorato in questi due anni e mezzo per tenere alto l’argine dell’opportunità nel fare politica in Lombardia dalle nomine al lavoro, dall’antimafia alla sanità, dall’ambiente alla cultura presidiando quotidianamente l’attività consiliare e in commissione.

C’è la parola mente che non è solo un organo svilito da alcune compagnie dell’ultimo Consiglio Regionale lombardo ma è un tenere a mente che l’impegno è bellezza se portato avanti con memoria della responsabilità e con la disciplina e con l’onore richiesti dall’articolo 54 della nostra Costituzione.

C’è la smoderatezza che sta nel sapere esattamente da che parte stare con coraggio, nella nostra idea di sinistra e nel volere uscire da questa rincorsa al centro che non ci piace, non ci assomiglia e ci puzza di banalizzazione per trovare posto. Vogliamo una Lombardia smodata perché innovativa e in discontinuità, davvero.

Nonostante in queste ultime settimane mi sia letto sui quotidiani in una decina di liste diverse per il Parlamento continuiamo il nostro lavoro in Regione Lombardia. Credo che ci sia la possibilità di costruire un’alternativa politica e di modi lontana dai danni del formigonismo di questo ultimo ventennio e credo che la coalizione di centrosinistra (SEL, PD, IDV, lista Di Stefano e gli altri) abbia una grande possibilità per disegnare scenari migliori e futuri anche su scala nazionale. E mi candido perché questi due anni “dentro” la Regione ci hanno fatto capire che ci sono gli strumenti amministrativi per declinare le nostre idee oltre alla  mera propaganda: tutte le declinazioni sono nelle nostre mozioni, negli ordini del giorno e nelle nostre proposte di legge che l’asse Formigoni-Lega ha lasciato nel cassetto senza discussione.

In molti mi stanno chiedendo (e vi ringrazio tutti) come poterci dare una mano, le regole sono poche e semplici:

– mi candido come consigliere regionale a Milano e provincia. Chiunque abiti qui può essere un nostro volontario nelle iniziative che metteremo in campo.

– chi non abita qui può essere un nostro volontario sul web e comunque avere un ruolo attivo nella nostra officina delle idee.

Nei prossimi giorni racconteremo l’organizzazione e il resto. Chi vuole darci una mano può segnalare la propria disponibilità semplicemente scrivendomi a giulio@giuliocavalli.net

Le politica dentro le liste, per pensare un’altra Lombardia

elezioni-schede_interna-nuovaMi permetto un piccolo consiglio ad Ambrosoli e in generale a tutti i partiti della nostra coalizione: la stesura delle liste è il momento politico più “manifesto” e pericoloso per l’imprimatur della Lombardia che stiamo pensando sul campo dell’etica, della discontinuità e delle lobby di tutti i differenti colori.

Dico questo perché qualcuno mi aveva dato del visionario quando avevo parlato di un peso specifico elettorale della ‘ndrangheta in Lombardia del 4% e il pm Gratteri mi corregge di un punto percentuale parlando addirittura del 5%.

Il tema antimafioso è un tema serio e pericoloso che ha bisogno di modalità completamente differenti rispetto alle solite che hanno già ampiamente dimostrato di non funzionare. Il disfacimento di Formigoni è entrato nella sua fase irreversibile con l’arresto dell’assessore Zambetti accusato di avere comprato voti della ‘ndrangheta e non ci può bastare (o almeno a me no, di sicuro) esserne usciti indenni e avere acquisito una credibile narrazione.

Per questo sarebbe utile pubblicizzare le novità introdotte nel metodo di compilazione delle liste (se ci sono) e sottolineare la cura e l’attenzione di questo momento politico. Anche perché loro (i mafiosi) e gli altri (i cittadini disposti a vendere il proprio voto che troppo spesso ci dimentichiamo) sono là fuori indipendentemente da Zambetti & co e di solito votano chi ha più possibilità di vincere. Appunto. E magari sarebbe il momento buono anche per adottare da subito il codice etico che già avevamo proposto come punto del programma elettorale. Davvero.

E mio papà sempre uno in più di te

bonelli-interna-nuovaPremetto: conosco Angelo Bonelli e ho stima per amici che fanno politica nei Verdi, la mia vicinanza ad Antonio Ingroia e ancora di più a Luigi De Magistris è cosa nota e non credo di essere mai stato un buon difensore d’ufficio del mio partito, tutt’altro.

Ma questa cosa che i Verdi ci dicano di andare con la Lista Civica di Ingroia perché l’ecologismo ce l’hanno solo loro e se non ce l’hanno solo loro comunque loro ce l’hanno più lungo proprio mi indigna. Mi indigna perché in Lombardia (e non solo) abbiamo curato l’ambiente (uso il plurale perché penso a me, Chiara Cremonesi ma anche Pippo Civati e Gabriele Sola) fino a sfinire l’assessore in Commissione e in Aula e perché rivendico il nostro impegno che non può essere sminuito da propaganda di chi si nomina padrone di un tema.

Ecco, sgridatemi per la mia troppa poca attenzione sull’agricoltura o sul Regolamento Regionale, ma sicuramente Angelo sa che molti dei suoi temi romani sono passati (e gli sono stati suggeriti) da queste parti lombarde.

Perché i partiti (o presunti movimenti civici) che fanno politiche “per erosione” sono tutt’altro che intellettualmente ecologici, alternativi e sostenibili.

Con tutto l’affetto, eh.

(ps la rappresentante dei verdi europei è capolista in SEL, per dire)

29 anni fa: Pippo Fava

Ricorrono oggi i ventinove anni dall’assassinio di Pippo Fava. In occasione dell’anniversario, riporto qui un estratto del mio libro NOMI, COGNOMI E INFAMI (Verdenero, 2010) , dedicato anche alla sua vicenda.

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PIPPO FAVA 2Ho riso incazzato sulle parole di Peppino Impastato, ho studiato con meraviglia l’integrità politica di Pio La Torre ma, più di tutto, sono rimasto incastrato per stima sulla vita di Pippo Fava. Incastrato da una stima immobilizzante che mi consola. Sarà che Giuseppe Fava era un giornalista, un drammaturgo, uno scrittore e un politico anche senza scranno. Politico nel senso di guardare la politica negli occhi e scriverne senza smancerie. Sarà che Pippo Fava l’ho visto per la prima volta in una fotografia in bianco e nero  con quel naso troppo grosso sopra una barba tagliata male mentre si apre in un sorriso pensieroso. Sarà che se c’è una forma che mi colpisce è sempre stato un uomo serio che riesce a distendere un sorriso.

O forse di Pippo mi colpisce soprattutto il carisma. Il carisma che non si riesce mica a sparare anche se l’hanno provato ad ammazzare a Catania il 5 gennaio del 1984. Un direttore che si è inventato il suo giornale (I Siciliani) che ancora oggi continua a vivere nelle penne dei suoi “carusi” che, ormai cresciuti, militano nelle testate più diverse del nostro panorama. Un giornale mica fatto solo con la carta da giornale ma vissuto come una missione. Un giornale con una stanza di militanti e senza nemmeno i pennivendoli. Lo racconta bene il suo ex collega Riccardo Orioles: “Chi non ha sentito parlare dei Siciliani di Giuseppe Fava? Un piccolo giornale, eppure ancora oggi – trent’anni dopo la fondazione – quando si parla di giornalismo antimafia si pensa a loro. Un giornale “anti” mafia ma in realtà “per” un sacco di altre cose. La democrazia della “polis”, i diritti dei poveri, la pace, il riscatto del Sud come rinnovamento profondo politico e morale: quante cose stavano in quelle duecento pagine che ogni mese uscivano, senza pubblicità e senza stipendi, da una città della Sicilia per parlare all’Italia intera!

È una storia lunghissima, quella di Pippo Fava e dei suoi “carusi”; non è mai finita. Vive tuttora in tanti gruppi di giovani – professionali e “militanti”, come allora”. Il proprio lavoro vissuto come l’unico vestito disponibile nell’armadio. Fieramente incapace di smetterlo e di dismet terlo. L’editoriale del primo numero de I Siciliani nel 1983 è il manifesto di una vita. Scrive Fava

“I Siciliani vengono avanti nel grande spazio della informazione e della cultura, nel momento preciso in cui il problema del Meridione è diventato finalmente, anzi storicamente, il problema dell’intera Nazione…I Siciliani vuole essere appunto il documento critico di una realtà meridionale che profondamente, nel bene e nel male, appartiene a tutti gli italiani. Un giornale che ogni mese sarà anche un libro da custodire. Libro della storia che noi viviamo. Scritto giorno per giorno”. Giorno per giorno, con quella quotidianità della battaglia che è il sale di tutte queste storie. La concezione etica del proprio lavoro come unica strada percorribile. Ogni tanto, quando mi prende lo sconforto, rileggo Fava nel silenzio della mia solitudine che non ha mai meno di tre persone. Leggo la sua caparbietà che ha la forma di un polso forte. Ripenso a quel sorriso nonostante (come diceva spesso lui stesso) “qualche volta mi devi spiegare chi ce lo fa fare, per dìo. Tanto, lo sai come finisce una volta o l’altra: mezzo milione a un ragazzotto qualunque e quello ti aspetta sotto casa…”

C’è un’altra dichiarazione che oggi, in questo paese in alcuni pezzi ancora così disgraziato e analfabeta (o colluso) sulla questione delle mafie, andrebbe stampata e distribuita fuori dalle scuole, sopra i tram o dentro i bar. È dell’undici 1981 ottobre mentre Fava dirigeva il Giornale del Sud.

«Io ho un concetto etico del giornalismo. Ritengo infatti che in una società democratica e libera quale dovrebbe essere quella italiana, il giornalismo rappresenti la forza essenziale della società. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza della criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili. pretende il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente allerta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo. Se un giornale non è capace di questo, si fa carico anche di vite umane. Persone uccise in sparatorie che si sarebbero potute evitare se la pubblica verità avesse ricacciato indietro i criminali: ragazzi stroncati da overdose di droga che non sarebbe mai arrivata nelle loro mani se la pubblica verità avesse denunciato l’infame mercato, ammalati che non sarebbero periti se la pubblica verità avesse reso più tempestivo il loro ricovero. Un giornalista incapace – per vigliaccheria o calcolo – della verità si porta sulla coscienza tutti i dolori umani che avrebbe potuto evitare, e le sofferenze, le sopraffazioni, le corruzioni, le violenze che non è stato capace di combattere. Il suo stesso fallimento! Ecco lo spirito politico del Giornale del Sud è questo! La verità! Dove c’è verità, si può realizzare giustizia e difendere la libertà! Se l’Europa degli anni trenta-quaranta non avesse avuto paura di affrontare Hitler fin dalla prima sfida di violenza, non ci sarebbe stata la strage della seconda guerra mondiale, decine di milioni di uomini non sarebbero caduti per riconquistare una libertà che altri, prima di loro, avevano ceduto per vigliaccheria.  È una regola morale che si applica alla vita dei popoli e a quella degli individui. A coloro che stavano intanati, senza il coraggio d’impedire la sopraffazione e la violenza, qualcuno disse: “Il giorno in cui toccherà a voi non riuscirete più a fuggire, nè la vostra voce sarà così alta che qualcuno possa venire a salvarvi!”».

Vorrei riuscire a tenermelo sempre nel portafoglio, questo suo spirito. E poi sarà che sono inchiodato su Pippo Fava perché anche lui ha dovuto subire l’onta di una morte distorta e calpestata. Fava viene ucciso alle 10 di sera del 10 gennaio 1984. Era in auto per andare a prendere la nipote che stava calcando le scene del Teatro Verga di Catania. Mi gioco tutto che era in auto con la soddisfazione a forma di sorriso della vecchia foto in bianco e nero, con una nipotina che seguiva le orme dello zio che i teatri li aveva abitati con la giacca del drammaturgo. In via dello stadio gli sparano cinque pallottole calibro 7,65 alla nuca. Come si usa per le bestie prima di passarle al macello. In Catania rimbombavano ancora le parole dell’articolo su “I quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa”, un pezzo sulle attività illecite di quattro imprenditori catanesi, Carmelo Costanzo, Gaetano Graci, Mario Rendo e Francesco Finocchiaro, e di altri personaggi come Michele Sindona collegati al boss Nitto Santapaola. Addirittura dopo quell’articolo Rendo, Salvo Andò e Graci avevano cercato di comprarsi il giornale, per zittirlo. Non si era ancora spento l’eco degli spari che già colava fango sopra al cadavere: il sindaco Angleo Munzone sposò subito la tesi dei giornalisti che parlavano di delitto passionale (tesi sostenuta sulla base dell’arma diversa da quelle solitamente usate per delitti mafiosi). L’onorevole Nino Drago addirittura esibì la propria pochezza istituzionale chiedendo una chiusura rapida delle indagini perché “altrimenti i cavalieri potrebbero decidere di trasferire le loro fabbriche al Nord”. Ma la denigrazione che mi più mi sanguina e mi lascia questo nodo alla gola è un passo di due articoli de La Sicilia nei giorni successivi alla morte. Quando li ho letti per la prima volta ero nel pieno della frana di silenzio e minaccia che mi aveva seppellito la famiglia e passavo ore a provare a raccontare il mio lavoro sempre in bilico tra la notizia, la scena, la parola, la risata e la favola. Sbattevo la testa per difendermi dal recinto dell’attore in cui sarebbe stato facile sminuirmi. Gridavo che era un gesto insulso e senza dignità. Non lo credevo possibile, prima di leggere gli articoli di Tony Zermo su Pippo Fava

“L’hanno ucciso da mafiosi. E non è facile capire il motivo, perché lui era sì scrittore di mafia, era sì uomo libero, e battagliero, ma era soprattutto un artista. […] Non era per naturale vocazione un inquisitore della mafia, era un uomo a cui piaceva profondamente vivere[…] Si possono fare tante ipotesi sul perché è stato ucciso. Tutto lascia credere che si tratti di un agguato mafioso. Ma perché la mafia ha deciso di eliminarlo? Cosa ha fatto, cosa ha scritto che ha portato alla sua eliminazione? Forse per le sue ultime parole pronunciate nell’ultima trasmissione  di Enzo Biagi?[…] Lui vedeva la mafia da artista[…]”. “Probabilmente bisognerà cercare, si dovrà cercare in quello che ha scritto sulla sua rivista[…] E però anche in questa direzione si troverebbe poco perché lui non aveva scoperto nulla di particolarmente importante[…] Sono parole di un uomo di cultura, di un giornalista che vede la realtà con l’occhio dello scrittore civilmente impegnato: ma non sono denunce precise, non ci sono nomi e cognomi, non c’è nulla che possa far presumere un delitto per ritorsione[…] Rappresentava un pericolo non per quello che aveva scritto, ma per quello che poteva ancora dire o scrivere[…] Non è facile, comunque, capire questo delitto[…]”.

Dentro la storia di Pippo Fava ci vedo il riflesso della stessa pochezza.

Solo una lettera d’amore

giulio cavalli 15 giugno-784459Hanno cercato di convincermi in tanti, per prima la vita, che bisogna attrezzarsi per essere sempre pronti alla difesa in quella posa tutta innaturale dove le spiegazioni sono sempre pronte in vasetto nel frigorifero per giustificarsi: spiegare le azioni prima che succedano, mi dicono, perché la vita pubblica è un gioco di  misure che premia gli ammennicoli e i lambicchi e conviene fare così, con le fragilità ben nascoste dentro le mutande e nel portamonete.

Pensavo qualche giorno fa, perso in un parcheggio sotterraneo come un lombrico, che nella vita ho fatto le mie cose migliori quando non ho avuto modo o tempo di imbavagliare le mie fragilità: mi sono sentito un buon padre mentre mi commuovevo sull’orlo della favola in cui si addormentano i miei figli, sono stato un buon figlio quando non sono riuscito a trattenere la gratitudine e sono un amico sincero quando confesso di non riuscire. E’ un peccato mortale essere umano, in pubblico poi, mi dicono, è un peccato mortale non seguire il copione che dovresti imparare per essere confortante senza preoccuparsi di essere credibile.

E’ successo che mi sono innamorato: innamorato dell’ebrezza di essere almeno un secondo all’altezza delle parole che scrivo, innamorato di spiegare le idee come una tovaglia aperta per una tavolata con le persone più vicine senza preoccuparsi della spendibilità pubblica, innamorato della mia incoscienza dei sogni che mi è stata sempre così fedele da volerla come compagna di vita, innamorato del profumo sulle isole in cui mi sento a casa senza architettare come travestirle. Non importa che capelli ha, come si chiama, da dove viene e dove vogliamo andare. Sono fiero di essermi innamorato dei miei sogni più imprudenti.

Hanno cercato di convincermi in tanti, per prima la vita, che un personaggio pubblico deve avere la grana fotografica dei film che riguardi cento volte di seguito per come è come te lo aspetti. Ho sprecato tempo sotto il palco a nascondere il filo del microfono perdendomi la gioia della mia inquietudine bambina poco prima della scena, ho finto in politica di provare un certo misurato sdegno per personaggi che sono un conato di disgusto, ho perso tempo a nascondere la mia paura, una paura fottuta, davanti alla miopia delle reazioni delle minacce più che delle minacce stesse, ho perso tempo ad ascoltare lezioni di anaffettività che voleva essere marketing della comunicazione, ho creduto per qualche anno che la misura giusta fosse un compromesso tra le linee che mi disegnavano altri.

Vedi cara, pensavo di avere perso la fantasia di pensarmi leggero (con una scorta leggera, se proprio è obbligatoria) o di credere davvero che gli affetti sono i nodi che non stringono ma sciolgono tutto il resto. Ho creduto esaurita l’immaginazione di portarmi la verità come unica spiegazione possibile e non conta se qualche volta sai per certo che sarà perdente: giochiamo ad un altro gioco, e ci invidiano così.

Ho perso le mie ore migliori ad ascoltare chi mi voleva convincere che il cinismo è una buona armatura e adesso mi prendo i miei anni con le mie rughe e la mia penna fragile. Non ci può essere arte dove va di moda vergognarsi della felicità. Non importa che capelli ha, come si chiama, da dove viene e dove vogliamo andare. Sono fiero di essermi innamorato dei miei sogni più imprudenti.

Io sono un conservatore

Conservatori. È l’accusa che Mario Monti ha rivolto a Stefano Fassina, Nichi Vendola. E a Susanna Camusso. I quali, da tempo, avevano imputato al Professore, questo stesso peccato capitale. Monti: colpevole di essere un “conservatore”. Perché i conservatori, in Italia, sono impopolari. E stigmatizzati. Da sinistra, ma anche da destra. Nessuno che ammetta di esserlo.

futuro_presente_passatoEbbene, vorrei fare coming out. Io sono un conservatore. Non riesco ad ad accettare i sentieri imboccati dal cambiamento. Molti, almeno. Il paesaggio urbano che mi circonda. E mi assedia. La plaga immobiliare che avanza senza regole e senza soste. L’indebolirsi delle relazioni personali e dei legami comunitari. Il declino dei riferimenti di valore  –  perfino di quelli tradizionali. La famiglia ridotta a un centro servizi, a un bunker sotto assedio. La retorica dell’individualismo esibizionista e possessivo. Che ci vuole tutti imprenditori  –  di se stessi. La Rete come unico “spazio” di comunicazione. Gli smartphone che rimpiazzano il dialogo fra persone. I tweet al posto delle parole. La relazione senza empatia. Le persone sparse che parlano  –  e ridono, imprecano, mormorano – da sole.

In tanti intorno a un tavolo, oppure seduti, uno vicino all’altro. Eppure lontani. Ciascuno per conto proprio, a parlare con altri. In altri luoghi – distanti. Tempi strani, nei quali tanti si sentono “spaesati”, perché il “paese” appare un residuo del passato. E la “comunità”: un fantasma della tradizione. Il lavoro senza regole e senza continuità. La flessibilità senza fine e senza un fine. Cioè: la precarietà. La politica senza società, il partito personale, riassunto in un volto e in un’immagine. Dove i consulenti di marketing hanno sostituito i militanti. E al posto delle sezioni si usano i sondaggi (d’altronde, quando si dà la possibilità ai cittadini di esprimersi si recano a milioni, alle urne, di domenica e persino a capodanno).

Insomma: i personaggi, gli interpreti e i luoghi della modernità liquida. Non mi piacciono. Li conosco ma non mi ci riconosco. Magari li subisco  –  in silenzio. Ma preferisco  –  di gran lunga – “conservare” quel che resta: del territorio, della comunità, delle relazioni personali, dell’economia “giusta”, della politica come identità. Il “nuovo” come valore in sé non mi attira.

Lo ammetto: sono un conservatore. E ne vado orgoglioso.

Ilvo Diamanti su Repubblica

Senza vergogna fino all’ultimo minuto

OLYMPUS DIGITAL CAMERAAvevo parlato ieri del vergognoso epilogo della legislatura lombarda con spacchettamenti e rivoluzioni di gruppi per non dovere raccogliere le firme e vedo che ne riparla oggi anche Il Fatto Quotidiano. Un giochetto che intanto (ovviamente) continua a pesare sulle tasche dei contribuenti e che dimostra tutta l’impunità ostentata di una classe politica che legifera per salvarsi e ha priorità sempre più deviate e scollegate dalla realtà.

Mentre si tagliano i posti letto negli ospedali lombardi, mentre questo 2013 porterà alla crisi definitiva di aziende in agonia da mesi e mentre le inchieste decimano la credibilità politica in Consiglio Regionale si pensa a come mettersi comodi per le prossime elezioni con scorciatoie di legge.

Mi chiedo come sia possibile che questa classe dirigente (e indigeribile) non possa capire che l’elettorato è alfabetizzato alla grettezza politica e la riconosce da lontano. E mi chiedo perché anche nel centro sinistra si permetta un trucco simile senza proferire parola. Perché a me sembra vergognoso in modo bipartisan e spero anche per Umberto Ambrosoli.