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Le conclusioni di Nichi Vendola alla Presidenza di SEL dell’11 marzo

sel-cuore-e-bandierePer ricominciare a fare politica e aprire un dibattito che sia coraggioso e puntuale sul futuro dello scenario italiano. Partendo dall politica del Paese per riconiugarla al futuro di SEL e dell’area che rappresenta e vorrebbe rappresentare. Vale la pena partire dalle conclusioni di Nichi. Discuterne. Per chi volesse si può fare qui tra i commenti o scrivendomi a giulio(chiocciola)giuliocavalli.net. Il viaggio è lungo ma necessario. 

 

Conclusioni di Nichi Vendola

(Presidenza di Sinistra Ecologia Libertà, lunedì 11 marzo 2013)

 

Il rischio di una drammatica deriva del nostro Paese. 

Non credo che potremo trovare un sentiero utile alla nostra ricerca guardandoci l’ombelico, come una parte grande di questa discussione ha fatto. Credo che tra le cose buone della cultura politica della sinistra che ci dovremo portare anche nel futuro, c’è la critica ai limiti del soggettivismo, l’incapacità di connettere le vicende di un soggetto di dimensioni assai modeste, di connettere le sue propensioni, le sue scelte, i suoi successi o insuccessi ad un contesto più generale. E non credo che faremo bene se isolassimo la nostra discussione da quello che ora dopo ora sta accadendo in Italia.

E’ drammatica la deriva del nostro paese, è drammatica oggi in questo momento più di ieri, a quest’ora più di stamattina. A quest’ora perché le dichiarazioni dell’onorevole Alfano sulla volontà di valutare un eventuale Aventino come risposta alle iniziative dei magistrati nei confronti dell’onorevole Berlusconi – dichiarazioni che si aggiungono a quelle dell’onorevole Gelmini che dice “per la prima volta praticheremo la disubbidienza al leader e andremo a manifestare davanti ai palazzi di giustizia”, – questo elemento di acutizzazione dello scontro tra politica e giustizia è un aggravamento serio di una condizione melmosa che segna il contesto democratico della nostra crisi. E mentre noi parliamo il governo in carica non smette di esercitare le proprie funzioni. Per esempio di congelare ulteriormente fino al 2014 i salari del pubblico impiego, con un intervento che continua ad essere depressivo dell’economia, un ulteriore contributo alla recessione. Monti non ha soltanto fatto male nell’anno in cui ha governato fino alle elezioni: continua a fare male. E questo dibattito, ma complessivamente il dibattito che si svolge nella politica italiana, ha rimosso quasi completamente uno degli ingredienti strutturali della nostra crisi, cioè la vittoria della Lega Nord nella regione Lombardia in una prospettiva qual’ è quella della macroregione settentrionale, un’idea  che contiene dentro di sé, in qualche maniera concentrati, tutti gli elementi rischiosamente secessionisti che hanno costituito una parte rilevante dell’immaginario e della comunicazione della Lega negli ultimi trent’anni. Non so se è chiaro: noi siamo collocati in questo punto della crisi e la nostra crisi è la crisi dell’Europa. Il grillismo è una delle varianti del potenziale sfaldamento dell’assetto democratico europeo, conseguenza di medio periodo della fine del compromesso tra capitale e lavoro così come si era realizzato alla fine della guerra. Noi siamo qua dentro. Dobbiamo ragionare partendo da questo punto di analisi e non adoperando il “senno di poi”. Il “senno di poi” è una scienza esatta, perché è una delle poche scienze assolute che esistano, dato che è facilissimo “poi” riconnettere le scelte in chiave di errore, insufficienza, debolezza.

 

 

La sconfitta della sinistra in Europa.

Ma attenzione: credo che faremmo un cattivo servizio alla verità se non andassimo a fondo nell’analisi della situazione in cui ci troviamo e se, a dimostrazione del fatto che noi siamo una parte del problema e non la soluzione del problema, usassimo occasioni come queste per atteggiamenti di critica e di autocritica che, decriptati, sono soltanto resa dei conti interna a un gruppo dirigente. Io vi invidio molto perché, avendo una responsabilità in più rispetto a voi, non posso partecipare al rito dei “sassolini nella scarpa” e devo invece invitarvi a non farlo, e a ragionare di politica. E a ragionare di politica per il dovere che noi abbiamo nei confronti del paese, perché penso di poter dire che non avevamo visto male. Non avevamo visto male a Firenze, nell’unico congresso che fin qui abbiamo fatto, un congresso né rituale né celebrativo, ma un congresso in cui abbiamo posto un problema: esattamente la lettura della sconfitta di lungo periodo. Una sconfitta che è tutta interna all’incapacità delle forze della sinistra di tutta Europa di leggere il mutamento di fase, la trasformazione del capitalismo mondiale da capitalismo prevalentemente industriale a capitalismo prevalentemente finanziario, con ciò che comportava anche nei suoi riverberi sui sistemi politici e sulle forme della democrazia.

 

La sinistra europea ha largamente pensato di poter dominare le tendenze liberiste del mercato mondiale e la sinistra radicale ha pensato che il suo compito fosse sostanzialmente quello di denunciare questa svolta a destra delle forze socialdemocratiche. In uno schema che era, congiuntamente, un de profundis per la sinistra del futuro. La sinistra del passato, nel frattempo, poteva  acconciarsi a sopravvivere in tanti modi. Noi abbiamo provato a nascere lì dentro, avendo una percezione del fatto che la forma partito fosse consumata, percezione che non aveva nessuno in Italia come l’avevamo noi. Vorrei ricordarvi che avevamo chiesto in prestito ad un protagonista della politica europea come Daniel Cohn-Bendit la sua indicazione sul futuro del partito come “cooperativa sociale”, una traccia interessantissima. La possibilità cioè di reinventare forme di agire collettivo che avessero dentro un elemento etico e comunitario, un elemento solidaristico. Sono molto contento di sentire adesso tanto rimpianto di quelle “Fabbriche di Nichi” che il partito uccise, considerando quell’esperienza nemica del partito, una minaccia per il partito. Bisogna pur ricordare come si sono svolti i fatti, proprio perché quell’esperienza forse conteneva francamente una minaccia all’idea che potesse esser tenuto in vita un partito la cui forma nasce morta e non invece un partito che vive una tensione permanentemente critica sul tema della sua forma.

 

I nostri risultati, i referendum e le amministrative.

Abbiamo sbagliato in questo? Io penso di no e abbiamo ottenuto dei risultati straordinari. Noi siamo stati un partito di modeste dimensioni elettorali che tuttavia ha segnato la storia politica del paese. Non mettiamoli in fila come se fossero dei salmi da recitare, ma il referendum e le amministrative sono stati il punto più alto dell’esibizione del pericolo che noi rappresentavamo per una serie di poteri reali. Noi. Referendum, che abbiamo correttamente letto come una vittoria del centrosinistra suo malgrado, cioè una vittoria del centrosinistra che non c’è, come domanda di popolo, come domanda di cambiamento. I 27 milioni di voti che mordono la natura del berlusconismo in quanto progetto di privatizzazione onnivora, globale, della realtà. E poi le partite su Milano, su Cagliari, su Genova, su Rieti e sulla Puglia. Che cosa hanno fatto emergere queste partite? Il punto non era quello delle percentuali nostre; certo, avere il 10% è diverso che avere il 3,5%. Ma il punto era quello di una capacità di egemonia sulla scena politica e sul centrosinistra tale per cui la prospettiva di un centrosinistra affrancato dalle ipoteche di subalternità e subordinazione alla cultura liberista era praticabile e apriva più di un varco a una speranza gigantesca. Ma, scusate, contro che cosa si è mosso il mondo se non contro questa idea? Ma pensate che io fossi emotivamente spompato a fare le primarie nel momento in cui sono stato costretto a farle, che il problema fosse un fatto mio psicologico, soggettivo? Non avevamo la percezione di come si fosse determinato un ribaltamento del terreno politico, culturale, simbolico? Le primarie sono state celebrate quando si è caricato su Matteo Renzi il ruolo che ancora un anno prima era prevalentemente sulle spalle della nostra vicenda collettiva. “Cambiamento” sulle nostre spalle aveva immediatamente un richiamo alla questione sociale e alla questione dei diritti civili: un anno dopo “cambiamento” diventata prevalentemente la rottamazione di una classe politica e di una generazione. Ma anche Renzi, subito dopo le primarie, ha fatto il suo tempo, ed è scoccata l’ora di Grillo. Il “cambiamento” come generalizzazione del rancore nei confronti di ciò che viene percepito come privilegio e inerzia a fronte di una povertà dilagante. E quello che è accaduto nell’anno di Monti noi ce l’avevamo chiaro in mente, ancor prima che il governo di Monti cominciasse.

 

 

La categoria politica del “centro” e la scomparsa del ceto medio. 

E anche qui, vorrei sapere in cosa abbiamo sbagliato. In cosa abbiamo sbagliato nel momento in cui nasceva il governo Monti e il popolo nostro ci diceva: attenzione. C’è stata una grande emozione popolare sulla nascita di quel governo, quell’emozione era dentro i nostri circoli, era dentro la nostra gente. E abbiamo dovuto evitare di disconnetterci sentimentalmente dal popolo nostro, abbiamo avvertito che le politiche di austerità sono l’altra faccia del populismo. L’abbiamo detto subito, con chiarezza, abbiamo soprattutto avvertito che la rimozione del berlusconismo era un fatto clamoroso, e immaginare che fosse una storia finita, quasi si trattasse di un epifenomeno della politica e non di un corposo fenomeno della società, della cultura, del berlusconismo come di una rivoluzione compiuta in Italia. Certo, rivoluzione reazionaria, con i tratti del regresso civile, del regresso culturale, del regresso sociale. Ma come si può immaginare, come noi abbiamo fatto, noi accecati, noi, dico, la sinistra dei facili festeggiamenti, che l’uscita da Palazzo Chigi  compisse un ciclo? E non consentisse invece di riprender fiato,  di ricalibrare un discorso pubblico in cui era evidente l’interesse a separare la classe dirigente del centrodestra dalla percezione del dolore sociale, in modo tale che si potesse compiere il gioco delle tre carte su chi ha la responsabilità del disastro attuale.

E la politica e il giornalismo, quanto hanno compreso che il dolore di cui si parlava talvolta nelle inchieste televisive non era lo stesso di prima, che non eravamo più al racconto della “società dei due terzi”, dove due terzi seduti sui propri stardard di sicurezza sociale guardano quel terzo escluso il cui smarrimento viene raccontato dalla sociologia del dolore? Un corno, compagni! E’ sempre la “società dei due terzi”, ma due terzi sono quelli esclusi, un terzo è quello incluso. Cioè il dato, vorrei che lo ricordassimo, è che siamo nati ragionando sul fatto che la categoria del centro non aveva a che fare con la realtà italiana perché stava scomparendo il ceto medio. Abbiamo fatto questo discorso: il centro ha un ruolo straordinario anche per la tenuta democratica quando, com’è stato per la vicenda italiana della democrazia cristiana, è il traghettamento della piccola borghesia fascista dentro la democrazia e l’invenzione di corpi intermedi della società che  – con l’ideologia del risparmio, la cultura del sacrificio, gli artigiani, i commercianti, la piccola proprietà contadina, i maestri e le maestre e così via –  consentono di guardare ai ceti subalterni come a una prospettiva di avanzamento e sono la base sociale di una democrazia. Credo che un regime, un regime di qualsiasi tipo, non si possa reggere senza ceti medi: un regime democratico fa fatica a stare in piedi senza un largo e diffuso ceto medio. La scomparsa del ceto medio è un problema sociale, politico e culturale di dimensioni gigantesche, che fa capire quanto siano ridicole le culture politiche del moderatismo, rispetto al problema di radicale espropriazione di senso sociale e di ruolo di questa parte della società.

Penso che noi abbiamo ragionato di questo, fondamentalmente. Abbiamo provato a lanciare un messaggio nella bottiglia. E’ ovvio che siamo arrivati alle primarie, dico per me, con il dovere di starci. Ma con la consapevolezza piena che stavamo dentro un’altra storia, non so se è chiaro. E che bisognava avere pazienza, che la fragilità, la vulnerabilità del nostro corpo è legata al fatto che siamo contemporaneamente percepiti o come rischiosamente eredi del bertinottismo, e quindi inaffidabili, o pericolosamente complici della subalternità culturale. In questa vicenda è difficile immaginare che ci fosse un modo preventivo di risolvere un problema che aveva a che fare con la lotta politica. Non si poteva sconfiggere Monti preventivamente nel rapporto con il partito democratico. Non so come, cosa bisognasse fare, se non sconfiggerlo come ipotesi di autoprigionia della cultura della sinistra: non un’alleanza ma una resa, abbiamo detto più volte. Ma in questo ha giocato il politicismo non soltanto del partito democratico, cioè di una cultura riformista esausta, bisognosa di rinnovare le fonti, le ispirazioni, il vigore, la natura e il vocabolario. Ma su questo il riformismo del partito democratico e il radicalismo alla nostra sinistra erano miopi nella stessa identica maniera. Tra D’Alema e Ingroia c’è lo stesso torcicollo, la stessa ossessione per Monti. E per noi è stato francamente duro e difficile.

Avessimo fatto un’altra scelta… Ma qual era un’altra scelta a nostra disposizione? Certo, dobbiamo partire dal fatto che la crisi importante del partito democratico coincide con la nostra crisi, cioè la nostra ipotesi è quella di una sinistra di governo capace di partire da qui, dall’Italia, per far massa critica e rimettere insieme un fronte dei progressisti in Europa. Tutta la nostra ipotesi politica è dentro lo schema non del prevalere dell’alleanza ma del prevalere della consapevolezza che si aggrava la crisi sociale del paese, nella pancia dell’Italia non covano fermenti rivoluzionari in senso progressista, ma covano fermenti rivoluzionari in senso reazionario, come sempre accade quando le società si impoveriscono. Si va verso la guerra, si va verso la dittatura, difficile andare verso il sol dell’avvenire, non so se è chiaro. Questa era la necessità nazionale di svolgere un ruolo e di darci una missione in questa partita.

 

 

Il Movimento 5 stelle e la nostra battaglia culturale e politica.

Oggi l’analisi che noi dobbiamo fare degli interlocutori, dei problemi, dei soggetti che abbiamo di fronte dev’essere, se posso dirlo, un po’ più smaliziata. Grillo: vi prego di non leggere le cose che diciamo su Grillo come ha fatto Mattia Feltri sulla Stampa in uno dei tanti pezzi intinti di vetriolo che quotidiani come la Stampa e il Corriere ci dedicano con ritmo incalzante. Mica si tratta di vedere ciò che è buono e ciò che è cattivo in Grillo. Il voto al Movimento 5 Stelle, poi la rappresentanza delle 5 Stelle, poi Grillo e Casaleggio, sono tre questioni tra loro distinte. Il movimento 5 Stelle prende un consenso straordinario che rappresenta un terreno molteplice, plurale e ambiguo di domanda di cambiamento. Io non propongo di selezionare gli elementi che hanno un qualche grado di consanguineità con i nostri elementi e di provare a governare. Io dico che dobbiamo veramente sconvolgere le nostre categorie con cui analizziamo un fenomeno come quello e semplicemente provare ad andare incontro a quel cambiamento con una battaglia culturale, con una battaglia politica. L’idea di avere come obiettivo il cento per cento del consenso è un’idea da brivido, come tutti voi potete immaginare. Dobbiamo ricordarci che la democrazia vive non soltanto della forza e dell’espressione orizzontale dei desideri delle persone,della loro soggettività: vive anche del culto assoluto dei diritti delle minoranze e su questo è inutile dire null’altro che non abbia già scritto Zagrebelsky nel suo saggio sul “Crucifige”, cioè su una democrazia plebiscitaria che mette in croce Cristo. Attenzione. Io penso che nessuno di noi abbia reticenza a questo livello della battaglia culturale.

Ne dico un altro di elemento. Si può avere la distanza più lontana dai propri avversari, considerarli veramente gli avversari della vita, combatterli con durezza. Ma l’elemento della denigrazione morale dell’avversario è però dentro di sé, in nuce, qualcosa di inaccettabile. Ognuno di noi, quando si legge nelle cose dei grillini, è colto da un elemento di ansia e di smarrimento. Io ho più di quarant’anni di vita politica, quarant’anni di vita politica inghiottiti dentro un insulto. Forse anche per il fatto che sono tanti quarant’anni di vita politica e chissà perché, avere passione civile e passione politica a quattordici anni è considerato segno di vitalità; averlo avuto a quattordici anni quando ne hai cinquantaquattro è segno di degrado morale, non lo so perché. Ma attenzione, anche questo è un elemento che culturalmente noi dovremmo apprezzare un po’ di più. La denigrazione organizzata: ogni volta che io scrivo qualcosa nella rete, so che ci sono almeno quaranta grillini che hanno proprio come loro missione il marcamento a uomo. Qualunque cosa io dico, qualunque cosa io propongo, hanno il compito dell’infamare, del macchiare. Anche questa è una modalità di sporcare una passione genuina. Perché io immagino che ciascuna di quelle persone che hanno come compito (io parlo di me, ho analizzato su di me queste cose) di sporcarmi, siano persone in perfetta buona fede, siano giovani pienissimi di volontà di cambiamento. Ma attenzione, la volontà di cambiamento è anche quella che ti porta a bombardare i Buddha e a pensare che sia salutare devastare i segni della civiltà degli altri. Anche su questo io non penso che dobbiamo fare un passo indietro rispetto alla battaglia culturale di civiltà.

Ma abbiamo sempre questi tre elementi: un voto straripante, che contiene fino in fondo anche il disincanto verso il centro sinistra; una rappresentanza di cui sappiamo molto poco (avremo modo di audire voci, pensieri e parole, ma ho l’impressione che nelle questioni di fondo, dal lavoro, alla giustizia, alla scuola, alle banche, ci possiamo trovare di fronte a un repertorio larghissimo di differenze interne a quell’area, e forse è anche questo un motivo per cui finora è stata un’area silenziata, perlomeno rispetto a quello che riusciamo a percepire); un capo, o forse due in Grillo e Casaleggio. Non si tratta però adesso di essere fiacchi con Grillo, si tratta di sapere che lì dentro ci sono anche degli elementi che appartengono fortemente ai doveri di una sinistra riformatrice in questo tempo di crisi. La riforma della politica: e qui, vi prego, non fate l’autocritica degli altri ( ricordo un simpaticissimo Giorgio Amendola quando diceva “i compagni sono bravissimi a farsi l’autocritica degli altri”), perché qui credo c’è un problema per tutti noi. Se ripercorressimo le vicende della formazione delle liste potremmo avere materiale su cui riflettere: qual è stato il riverbero dei territori su tutti i punti di crisi e di lacerazione e quali sono le tendenze non solo all’autoconservazione dall’alto ma anche a uno sfrenato elettoralismo dal basso. Noi siamo globalmente lo specchio di una crisi: quello che ci differenzia dagli altri è che lo diciamo, che proviamo ad analizzarla questa crisi e che in una qualche maniera proviamo anche a reagire, naturalmente con tutte le insufficienze di un’organizzazione come la nostra che nasce con una natura pattizia e che fa fatica a sciogliersi in una forma comunitaria in cui la solidarietà sia quella dei membri della nuova comunità e non quella degli antichi sodalizi.

 

 

Il PD, noi, la sinistra in Italia: si è esaurita una storia.  

Poi c’è il partito democratico. Anche qui, compagni: scioglierci nel partito democratico! E’ proprio un  modo di discutere fuori del contesto. Ad un certo punto ci si ferma e in astratto ci chiediamo: esistiamo? Ci sciogliamo? In questo momento il processo politico è ricco, articolato, vorticoso; vedremo che succederà con l’incarico a Pierluigi Bersani. Abbiamo apprezzato lo sforzo di stare in sintonia con noi di Bersani. Certo, non abbiamo una grandissima audience, però abbiamo svolto un ruolo. Nel momento del panico, quando il partito democratico diceva “elezioni anticipate” mentre ancora si stava scrutinando, o diceva “governissimo”, noi abbiam detto “no”. Abbiamo rotto il tabù e abbiamo detto di andare a vedere le carte di Grillo. Abbiamo provato a impostare differentemente la questione, anche per una previsione, che è quella che se si dovesse tornare alle elezioni anticipate dovrebbe essere chiaro a tutti che si tratta di una scelta frutto del politicismo di Grillo, cioè della prevalenza del calcolo elettorale rispetto agli interessi del paese. Questo  è quello che abbiam detto.

E’ finita la serie delle varianti? No, non è finita. Perché ovviamente ci sono altre varianti più consone alla cultura politica delle nostre classi dirigenti ed è probabile che se fallisce Bersani noi ci possiamo trovare di fronte a uno schema rovesciato, che è quello che pone, a fronte di un nuovo governo tecnico, il partito democratico dinanzi alla responsabilità di portare eventualmente il paese alla crisi. Salvare il senso di responsabilità e suicidarsi contemporaneamente, perché qualunque abbraccio con la pdl porta a un principio di deflagrazione. Questo è lo scenario. Quando io dico si è esaurita una storia, sia la nostra sia quella del partito democratico, sto dicendo che si è esaurito un ciclo, si è esaurita una fase. Sto dicendo che dobbiam fare politica, che dobbiam vivere, che dobbiamo essere capaci di fare qualcosa. Non dico raccogliere le firme per il reddito minimo garantito che forse è eccessivo come fatica fisica. Ma per lo meno essere attori nella società, capendo che il tema è posto, il suo svolgimento è davanti a noi. I partiti non nascono in laboratorio, non sono delle creature che nascono in provetta: si fanno nella società, nel vivo della contesa, nell’organizzazione degli interessi, delle culture.

Il tema è il vuoto della sinistra che c’è in Italia. Noi siamo stati una allusione, talvolta un’illusione. Oggi siamo un frammento di un discorso tutto da costruire, il partito del progresso del futuro. “Benvenuta sinistra” era lo slogan giusto, a una condizione: che si potesse spiegare che il deficit di sinistra aveva accompagnato lo smarrimento dei diritti delle persone. Quanto meno sinistra c’è stata nei luoghi istituzionali tanto peggio è stata la vita reale delle persone. La sconfitta politica della sinistra ha accompagnato simmetricamente il regresso sociale di una parte larga dell’Italia, questo è stato. Dunque, “benvenuta sinistra” doveva significare “benvenuta giustizia sociale”, “benvenuta la laicità”, “benvenuti i diritti di libertà”, “benvenuto un paese ambientalista”, “benvenuto un paese che fa una battaglia esplicita contro l’illegalismo di massa”. Ecco, riflettiamo anche sui tre ingredienti che hanno agganciato di nuovo la pancia larga del sud: condono tombale, condono edilizio e Imu. Veramente noi siamo diventati grillini al punto tale da pensare che tra politica e società c’è uno iato e che la politica fa schifo mentre la società è un’entità  virginale? Veramente pensiamo che  non c’è una relazione tra società e politica? Io ho provato a dirlo così in campagna elettorale: Berlusconi fa appello all’illegalismo di massa, cioè fa appello ad un terreno sul quale noi non possiamo agire moralisticamente. Si tratta davvero di capire qual è invece il modello di sviluppo che metti in campo, come cambia il tuo vocabolario. L’ambientalismo del centrosinistra è domenicale, mentre la sua propensione cementificatrice è feriale.

In questo momento mi pare molto saggia la scelta della CGIL di dire “facciamo un governo per il lavoro”. Noi di qua dobbiam partire. Il 65% degli italiani stanno male, ci dicono i dati. Cresce la povertà continuamente, ci sono urgenze di ore, di ore. Noi non possiamo tenere fermo il paese non dico per sei mesi, non possiamo tenere fermo il paese per tre mesi. E la ragione per cui andava fatto l’azzardo dell’alleanza con il partito democratico, è perchè sta crescendo ovunque in Europa la consapevolezza materiale  della sostenibilità delle politiche di austerità. Questa è stato il terreno. Credo che se potessero tornare indietro, sapendo quello fanno non solo dal punto  di vista elettorale, anche dal punto di vista dei dati più recenti che hanno fornito Banca d’Italia e altri su quella che è la condizione sociale reale del paese, penso che il partito democratico farebbe un’altra campagna elettorale. Allora, noi abbiamo urgenza di provare a dare delle risposte non moralistiche.

Sulla corruzione, c’è l’urgenza di dare una risposta a un fenomeno che è di devastazione dell’economia, della ricchezza del paese. Vorrei dire che c’è un silenzio sul processo di riorganizzazione capillare delle mafie in tutta Italia che fa paura. Quello che io osservo in Puglia, dopo anni e anni  di marginalizzazione dei clan, è che negli ultimi tre mesi c’è stato un salto incredibile. Ne parlo dicendo a tutti noi che l’educazione alla legalità e il galateo antimafia oggi sono veramente un orpello retorico a fronte della necessità di parlare di corruzione e di criminalità organizzata come di architravi dell’idea di uno sviluppo e della crescita di un modello sociale. Una cosa concreta, visto fra poco parleranno i parlamentari del partito democratico: che altro bisogna aspettare, dopo quello che ha scritto ieri il New York Times, per dire  non “diminuiamo” ma “cancelliamo” il programma di acquisto degli F35, che altro dobbiamo aspettare? Dice il New York Times di ieri: fonti del Pentagono asseriscono l’assoluta inutilità anche come strumenti di combattimento di questi velivoli. E’ una cosa, una, e su quella vorrei convocare una manifestazione di massa per dire, immediatamente, quelle risorse sono cifre che possono alimentare il fondo per la non autosufficienza, avviare un piano di rimessa in sicurezza delle scuole e così via. Allora, attenzione. Anche la maniera di discutere del partito democratico ha a che fare con soggetti esterni al partito democratico, basti citare la CGIL.

 

 

La casa dei progressisti e la nostra adesione al PSE.

Per noi c’è uno spazio politico reale, non per la nostra sopravvivenza, ma spero per la nostra dissoluzione in un soggetto che sia la casa dei progressisti del futuro e dobbiamo vivere questo spazio come un fatto costruttivo. Lo dico in forma provocatoria: dobbiamo essere capaci di parlare al paese e di parlare al partito democratico parlando al paese, Dobbiamo fare una riflessione sul nord molto seria, perché non sappiamo ancora come sarà la ripartenza della macroregione del nord. Voglio dire due ultime cose. Siccome la partita, come si è visto, è tutta sul destino dell’Europa, io francamente penso che noi non possiamo ulteriormente indugiare nel fare una scelta, nell’individuare qual è il luogo in Europa in cui si può determinare l’accumulo delle forze, delle energie necessarie, in questo momento particolarmente inquietante di crisi. Grillo è un fantasma che si aggira per tutta l’Europa e noi dobbiamo sapere qual è il luogo in cui si può ricostruire il fronte del progresso della sinistra in Europa.

Io penso, lo dico, non tutti siamo d’accordo: questa volta  dobbiamo giungere a sciogliere il nodo. Penso che questo è il tempo in cui dobbiamo entrare come componente caratterizzata da una forte propensione ecologista e libertaria, dentro il Partito del Socialismo Europeo. Penso che sia il modo non soltanto di segnalare che la nostra vicenda non è una vicenda di bassa cucina, ma è una vicenda della politica europea, un modo di stare dentro, anche  nei confronti del centrosinistra e del partito democratico, la costruzione di una nuova Europa e il modo più spiazzante, più intelligente di tornare a porre l’agenda vera delle cose da fare.

 

 

Essere il lievito del cambiamento.

Vorrei ringraziare le amiche e gli amici,le compagne e i compagni che si sono candidati con noi e che hanno partecipato a questa discussione. Noi come partito, io come persona, mi sento in debito nei loro confronti. A  molti di loro abbiamo chiesto qualcosa che è normale chiedere a noi stessi. Noi viviamo pericolosamente da tanti anni, viviamo con le nostre forze, i nostri sacrifici, facendo davvero degli sforzi talvolta sovrumani. Volevo dire alle compagne che il lavoro di cura va fatto in un contesto di reciprocità e siccome il leaderismo è una malattia e va combattuta costruendo comunità, penso che in una comunità il lavoro di cura sia un atteggiamento, uno stile operativo, culturale e umano che deve contraddistinguere tutti nei confronti di tutti, anche nei confronti di chi è momentaneamente il leader di questo partito. Penso che sia doveroso da parte mia dirlo, perché da alcuni anni, e ora in maniera particolarmente aspra, siamo dentro una vicenda nella quale capita a ciascuno di noi di discutere di una scelta che ha segnato la nostra vita. Chi ha fatto la politica come l’abbiam fatta noi, chi ad un certo punto ha deciso di non intraprendere la carriera universitaria o la carriera giornalistica e ha deciso un’altra cosa e l’ha decisa non come una carriera ma come una scelta di vita, si trova a fare delle considerazioni che riguardano persino la propria esistenza. Non parlo di me, parlo di ognuno di noi. E quindi bisogna avere delicatezza e rispetto nei confronti di tutti e di tutte. I compagni e gli amici che senza una tessera di partito hanno accettato di condividere con noi quest’esperienza hanno dato anche una prova straordinaria di maturità partecipando a questo dibattito e facendolo senza nessun tipo di recriminazione individuale. Ho trovato alcuni interventi di altissima levatura politica e penso che noi siamo in una situazione complicata e tuttavia credo che dobbiamo riflettere su quello che noi siamo sapendo che io non potrei mai più immaginare Sinistra Ecologia Libertà orfana del contributo di questi uomini e di queste donne. Alcuni di loro sono nella mia testa più vicini a Sel di quanto non lo sia io: mi convincono loro, con le loro parole, con la loro testimonianza, a credere ancora in questo progetto, Non un progetto di autosufficienza, ce lo siamo detti ma forse non ne eravamo convinti e forse questo è stato consentito al leader di dirlo come se fosse una sua civetteria.  La nostra autosufficienza è la nostra morte. O noi siamo lievito per far crescere una prospettiva di cambiamento che sia di sinistra oppure noi non abbiamo alcun senso. Su questo ho costruito il percorso che ho condiviso con tutti voi e in un momento di difficoltà come questo non posso che dirvi: o ripartiamo da qua oppure non c’è speranza per il nostro futuro.

La Lombardia degli -oni

maroni_e_formigoniFormigoni e Maroni, che non finiscono solo allo stesso modo per il cognome ma si assomigliano molto di più di quanto il Roberto leghista si stia impegnando di nascondere. Un’inchiesta sulla sanità come quella di oggi (“una ramificata rete di complicità nel mondo sanitario e istituzionale” si legge nelle carte) che coinvolge il leghista Boriani, ex direttore de La Padania, e i soliti noti amici del Formigoni.

Un’inchiesta che inizia con un suicidio nell’ospedale (San Paolo di Milano) dove (sarà un caso?) stanno ricoverati i boss del 41 bis (sarà un caso?). Una sanità che sorprende (ma non troppo) per la vicinanza con ambienti corrotti, corruttivi, corrutibili e criminali. Come reagisce Maroni? Con gli slogan, i soliti che, mio Dio, qui in Lombardia funzionano per vincere le elezioni.

Maroni di quella Lega che ha appoggiato Formigoni in questi ultimi anni.

Maroni di quella Lega che è alleata con quei parlamentari brutti ceffi che manifestano oggi in Procua a Milano come chiassosi alunni in gita alcolica.

Maroni che parla di cambiamento e promette la sanità al PDL (ancora) passando per un cambiamento che non cambia niente e nessuno.

Sarà una lunga notte per la Lombardia.

I nomi degli arrestati. In manette sono finiti Massimo Guarischi, 49 anni, ex consigliere regionale di Forza Italia vicino a Formigoni, già condannato a titolo definitivo nel 2009 per corruzione negli appalti per il dopo alluvione; Leonardo Boriani, 66, giornalista, ex direttore della Padania e ora della testata online www.ilvostro.it; tre imprenditori della famiglia Lo Presti di Cinisello Balsamo, titolari della società Xermex Italia (Giuseppe Lopresti, 65 anni, e i figli Salvo Massimiliano, 43, e Gianluca, 39); Luigi Gianola, 65, direttore generale dell’Azienda ospedaliera di Sondrio, e Pierluigi Sbardolini, 61, direttore amministrativo dell’ospedale Mellino Mellini di Chiari nonché ex direttore del San Paolo di Milano. L’operazione, denominata ‘La Cueva’, è stata coordinata dal colonnello Alfonso Di Vito (Dia). Fra gli indagati ci sono, oltre al direttore generale della Sanità lombarda, Carlo Lucchina, alter ego di Formigoni, numerosi altri manager pubblici degli ospedali di Chiari, di Cremona, di Valtellina e Valchiavenna (Sondrio) e dell’Istituto nazionale tumori. Perquisito anche uno svizzero, Giovanni Lavelli, titolare di una finanziaria a Lugano e accusato di aver costituito la provvista con cui pagare le tangenti.

Gli appalti nel mirino. Le mazzette, nella ricostruzione dei pm Claudio Gittardi e Antonio D’Alessio, erano pagate per ottenere l’appalto per la manutenzione di apparecchi elettromedicali al San Paolo, per i servizi di radiologia all’Azienda ospedaliera della Valchiavenna di Sondrio e per l’installazione di sofisticati macchinari per la diagnostica tumorale all’Istituto milanese dei tumori (che “si dichiara del tutto estraneo ai fatti”) e all’Azienda ospedaliera di Cremona. L’appalto valtellinese, per esempio, valeva 9 milioni di euro e il direttore generale avrebbe accettato la promessa di 500mila euro per assicurare un trattamento di favore all’azienda dei Lo Presti. Parte dei pagamenti è documentata con intercettazioni e pedinamenti degli investigatori della Dia, i quali sono partiti dalle indagini che nel 2010 avevano portato in carcere un ex direttore dell’Asl di Pavia, Carlo Antonino Ciriaco, e Giuseppe Neri, capo della ‘locale’ della ‘ndrangheta pavese. Ci fu anche un suicidio ad attirare l’attenzione della Direzione investigativa antimafia: quello di Pasquale Libri, dirigente del San Paolo, sfiorato dall’inchiesta su Ciriaco. 

Gli indagati eccellenti. Fra gli indagati spiccano i nomi di Danilo Gariboldi, direttore generale del Mellino Mellini di Chiari; Simona Mariani, direttore generale dell’ospedale di Cremona; Gerolamo Corno, direttore generale dell’Istituto tumori di Milano; Pierguido Conti e Vincenzo Girgenti (General elettric medical systems Italia di Milano); Alessandro Pedrini, già dipendente della Regione Lombardia;Massimo Streva (Fratelli Scotti, impresa edile di Cinisello Balsamo); Battista Scalmani (BS Biotecnologie di Bergamo); Carlo Barbieri (Brainlab Tecnologie di Milano); Giuseppe Barteselli (dirigente dell’ospedale San Gerardo di Monza) e Bruno Mancini (Biemme Rappresentanze di Roma). L’operazione ha portato anche a una cinquantina di perquisizioni.

A Desio, Brianza, dove si nascondono i boss

minniti_boss(ANSA) – MILANO, 11 MAR – I carabinieri della stazione di Desio (Milano) hanno arrestato Giovanni Minniti, di 27 anni, boss affiliato alla cosca Iamonte di Melito Portosalvo (Reggio Calabria). L’uomo era ricercato dal febbraio scorso per traffico, detenzione e spaccio di stupefacenti, essendo destinatario con altre 64 persone di un’ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip di Reggio Calabria. I militari lo hanno catturato ieri pomeriggio in un appartamento del centro cittadino di Desio dove si era rifugiato.

Per un latitante scegliere il luogo dove nascondersi è il risultato di un fine ragionamento che deve comprendere non solo la stanza e la casa che lo accoglierà ma anche (e soprattutto) una rete di protezioni “sociali” che renda fertile il territorio per garantire la segretezza e, nella segretezza, comunque la vivibilità e l’operatività. Ecco, appunto, benvenuti a Desio.

Chi guadagna sulle carceri-lager

Lirio Abbate per L’Espresso:

NU_appello_madre_figlio_carceratoMentre in galera le condizioni sono sempre più disumane, emergono le spese folli dei super dirigenti: foresterie con Jacuzzi in terrazzo, tivù da sessanta pollici e tappeti persiani (ma anche scopini da bagno pagati 250 euro l’uno)
Il vitto di un detenuto costa allo Stato meno di quattro euro al giorno, una somma che dovrebbe garantire tre pasti quotidiani. Ma non sempre le imprese che si aggiudicano gli appalti per cifre così basse riescono a garantire quantità e qualità del cibo che viene distribuito nelle celle. E così i reclusi devono arrangiarsi, con i viveri che ricevono dalle famiglie o con le merci acquistate a carissimo prezzo negli spacci delle case di pena.

Una situazione che condiziona la vita delle oltre 65 mila persone rinchiuse nelle prigioni italiane, in strutture che dovrebbe ospitarne al massimo 47 mila. Allo stesso tempo, però, alcuni magistrati al vertice dell’amministrazione penitenziaria godono di benefit scandalosi: hanno diritto ad appartamenti anche nel centro di Roma con un canone di sei euro al giorno, acqua, luce, gas e pulizie compresi, che non tutti però pagano. Un privilegio che, come nel caso di Gianni Tinebra da sette anni procuratore generale a Catania, mantengono anche dopo avere lasciato l’incarico. E per arredare queste foresterie non si risparmia sui lussi: sul tetto-terrazza di una è stata installata una Jacuzzi con idromassagio, in salotto ci sono tv da sessanta pollici costate duemila euro, sui pavimenti tappeti persiani e si arriva alla follia di far pagare 250 euro lo scopino di un bagno.

L’elenco di queste spese “fuori norma” è stato depositato ai pm di Roma e alla Corte dei Conti che hanno avviato indagini. Ma è solo uno dei paradossi di un sistema carcerario che continua a essere una vergogna italiana. I nostri penitenziari sono una discarica di esseri umani dove non solo è negata ogni possibilità di rieducazione ma viene umiliata anche la dignità delle persone. «Più volte ho denunciato l’insostenibilità di queste condizioni ma i miei appelli sono caduti nel vuoto», ha dichiarato il presidente Giorgio Napolitano nella storica visita a San Vittore del 7 febbraio. Il dramma è stato praticamente ignorato dalla campagna elettorale, con l’unica eccezione dei Radicali, soli a portare avanti una battaglia di civiltà per l’amnistia: un provvedimento che il capo dello Stato ha detto di essere stato pronto a firmare «non una ma dieci volte».

A testimoniare quanto sia paradossale la situazione bastano pochi dati: ogni anno lo Stato destina due miliardi e ottocento milioni per l’amministrazione penitenziaria, ma l’88 per cento finisce negli stipendi del personale. Un altro 7,3 per cento viene impegnato per il vitto dei detenuti e così rimane meno del 5 per cento per qualunque altra necessità: 140 milioni per la benzina, le vetture, le divise, gli arredi, la manutenzione e le ristrutturazioni. Insomma, non ci sono fondi per mettere mano alle terribili condizioni delle prigioni, spesso ancora ospitate in monasteri ottocenteschi o vetuste fortezze. Se si investisse poco meno di 200 milioni di euro sulla ristrutturazione, come spiegano funzionari del Dap, il Dipartimento amministrazione penitenziaria, si potrebbero ottenere subito nuovi posti per garantire spazi a 69 mila detenuti, solo per il circuito maschile: basterebbe puntare su un ampliamento degli istituti, senza impegnarsi nella costruzione di altre carceri.

La direzione generale risorse del Dap ha fatto un calcolo di quanto servirebbe per fronteggiare l’emergenza edilizia. La proposta è stata illustrata nei mesi scorsi al Consiglio d’Europa che si è svolto a Roma. Secondo il Dap oggi il valore convenzionale degli immobili è di circa cinque miliardi di euro: ci vorrebbero 50 milioni l’anno per la manutenzione ordinaria e 150 per quella straordinaria. La cronica carenza di stanziamenti oggi ha azzerato gli investimenti per nuovi padiglioni e l’assenza di manutenzione ha determinato la chiusura o il completo abbandono di intere sezioni che «attualmente si trovano in condizioni strutturali e igieniche assolutamente incompatibili con le finalità penitenziarie per cui gli spazi a disposizione dei detenuti si sono ulteriormente ridotti».

Ma invece di fare passi avanti, si continua a precipitare nel baratro. Perché sulla carta c’è «un numero eccessivo di istituti»: sono 206, ma di questi 120 hanno meno di duecento posti e 63 addirittura meno di cento. E le strutture piccole si trasformano in uno spreco di risorse, richiedono un numero più alto di agenti e personale rispetto al numero di reclusi. In teoria, l’Italia ha il miglior rapporto tra metro cubo di edifici e detenuti, senza però che questo dato statistico si trasformi in un miglioramento delle condizioni. Tutt’altro: secondo le analisi del Formez ci sono in media 140 reclusi per cento posti letto. Persone obbligate a vivere per ventidue ore al giorno in celle claustrofobiche, con tre-quattro brande sovrapposte, bagni minuscoli e pochissime docce.

(continua qui)

Forse ci manca

[…] il segreto di una classe politica consiste proprio nella sua capacità di non chiudersi in se stessa, di aprirsi alle contaminazioni e allo scambio con altri gruppi e forze sociali; che è poi l’unico modo per continuare a mantenere una qualche capacità di indirizzo e di governo e per superare le sfide imposte dal cambiamento dei tempi.

Alessandro Campi, Presentazione del Corso di sociologia politica di Roberto Michels, ed. Rubbettino 2009

La danza non è sordomuta

DANCE OF 1000 HANDS / BALLO DI 1000 MANI
 
Questo è un ballo chiamato il “Mille Mani Guanyin”. Tutte le 21 ballerine sono completamente sorde e mute. Seguendo i segnali dei direttori presenti ai quattro angoli del palcoscenico queste ballerine eseguono uno spettacolo straordinario, complicato e toccante. Il primo debutto internazionale più importante fu ad Atene durante la cerimonia di chiusura delle Paraolimpiadi 2004 e poi per anni questo gruppo si e’ esibito in più di 40 paesi. La prima ballerina si chiama Tai Lihua, ha 29 anni. Questo video è stato girato a Beijing durante la festa della primavera del 2012.
(Grazie a Pina Giorgio per la segnalazione)

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Scambiare il futuro per presente

twSuccede. Ed è un errore che ogni tanto paghi anche caro. Ieri discutevo nella cucina di un amico (le analisi politiche fatte nelle cucine degli amici mi appassionano molto di più delle liturgie da direttivi, ultimamente) di quanto sia facile credere che gli altri siano noi. Lo so, sembra una banalità detta così, a gli stessi risultati di Ambrosoli (vincente nelle città e sconfitto nelle valli e nelle periferie della Lombardia) dimostra come in fondo siamo caduti (tutti, io compreso, eh) nell’omologazione di credere che siano interessanti le cose che noi troviamo interessanti, che siano bisogni comuni i nostri bisogni personali, che il giusto linguaggio sia il nostro linguaggio. E così accade che ci immaginiamo l’elettore degli elettori (quella strana persona che è la gente) informato in rete, appassionato su twitter e accurato ricevitore di newsletter. Crediamo noi di essere tutti e che il futuro sia già presente e collettivo. Ed ho sbagliato anch’io.

E’ interessante l’analisi su rete e retorica fatta da Valigia Blu:

In definitiva, ci siamo innamorati di una retorica nuovista e dipendente da una presunzione di efficacia nei confronti della tecnologia che ha inficiato le nostre capacità analitiche rispetto al quadro complessivo di ciò che stava sedimentando nel corpo e nella testa dei cittadini. Non l’unico fattore, ma certo uno tra quelli di cui prendere nota per evitare che la prossima volta il risveglio dalle urne sia un incubo di irrilevanza dei media da cui non vediamo la via d’uscita. E che non eravamo stati in grado di anticipare in nessun modo, non certo calcolando la traiettoria di qualunque foglia si fosse mossa su Twitter.

L’articolo completo di Fabio Chiusi è qui.

Èupolis e i concorsi su misura in Lombardia. Ancora si stupiscono.

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Èupolis è l’ennesima scatola cinese del sistema Formigoni. Lì succedono cose così:

Quanto fa 31 più 46? Ottanta. E non 77, secondo l’aritmetica rivisitata di Èupolis, l’istituto di ricerca, statistica e formazione della Regione Lombardia. Come si possa essere arrivati a un calcolo così bizzarro, stanno cercando di capirlo i finanzieri del nucleo di polizia tributaria di Milano. Ai quali è stata affidata, dalla Procura di Milano, un’inchiesta su un concorso dagli esiti sorprendenti: la selezione, avviata tra novembre e dicembre, quando l’era formigoniana volgeva ormai al tramonto, per l’assegnazione di quaranta borse di studio. I bandi sono due: uno per 31 “giovani laureati”, l’altro per nove “dottori di ricerca”. Ed è proprio uno dei candidati al secondo concorso che ha fatto partire le indagini con una dettagliata denuncia inviata al procuratore capo Edmondo Bruti Liberati.

Nell’esposto uno degli aspiranti ricercatori tagliati fuori, Antonio Alizzi, professore a contratto di management per l’editoria all’università di Verona, spiega come si sia ritrovato – a suo dire inspiegabilmente – dal primo al secondo posto in graduatoria per una delle nove aree messe a bando. Nella selezione per titoli era risultato, con 40 punti, in cima alla classifica. Alle prove orali, che si svolgono il 18 dicembre, totalizza altri 39 punti e arriva a 79. Ma davanti a lui c’è Filippo Cristoferi, brillante studioso molto inserito nei giri di Comunione e liberazione, tra le firme del Sussidiario – la rivista d’area del movimento – e già collaboratore e borsista di Éupolis. Cristoferi ha un punto in più di Alizzi: 80. Ed è molto curioso, osserva il suo concorrente, visto che nella valutazione dei titoli aveva solo 31 punti e per la prova orale altri 46. Come si arriva a 80? Con un incremento di tre punti della valutazione ufficiale, che nella somma finale viene portata da 31 a 34 punti.

Il resto lo potete leggere qui.