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diritti

Al Torino Film Festival Ken Loach proietta i diritti (in cambio del premio)

Una bella lezione di solidarietà:

COMUNICATO STAMPA DI KEN LOACH  SUL PREMIO DEL TORINO FILM FESTIVAL
È con grande dispiacere che mi trovo costretto a rifiutare il premio che mi è stato assegnato dal Torino Film Festival, un premio che sarei stato onorato di ricevere, per me e per tutti coloro che hanno lavorato ai nostri film.
I festival hanno l’importante funzione di promuovere la cinematografia europea e mondiale e Torino ha un’eccellente reputazione, avendo contribuito in modo evidente a stimolare l’amore e la passione per il cinema.
Tuttavia, c’è un grave problema, ossia la questione dell’esternalizzazione dei servizi che vengono svolti dai lavoratori con i salari più bassi. Come sempre, il motivo è il risparmio di denaro e la ditta che ottiene l’appalto riduce di conseguenza i salari e taglia il personale. È una ricetta destinata ad alimentare i conflitti. Il fatto che ciò avvenga in tutta Europa non rende questa pratica accettabile.
A Torino sono stati esternalizzati alla Cooperativa Rear i servizi di pulizia e sicurezza del Museo Nazionale del Cinema (MNC). Dopo un taglio degli stipendi i lavoratori hanno denunciato intimidazioni e maltrattamenti. Diverse persone sono state licenziate. I lavoratori più malpagati, quelli più vulnerabili, hanno quindi perso il posto di lavoro per essersi opposti a un taglio salariale. Ovviamente è difficile per noi districarci tra i dettagli di una disputa che si svolge in un altro paese, con pratiche lavorative diverse dalle nostre, ma ciò non significa che i principi non siano chiari.
In questa situazione, l’organizzazione che appalta i servizi non può chiudere gli occhi, ma deve assumersi la responsabilità delle persone che lavorano per lei, anche se queste sono impiegate da una ditta esterna. Mi aspetterei che il Museo, in questo caso, dialogasse con i lavoratori e i loro sindacati, garantisse la riassunzione dei lavoratori licenziati e ripensasse la propria politica di esternalizzazione. Non è giusto che i più poveri debbano pagare il prezzo di una crisi economica di cui non sono responsabili.
Abbiamo realizzato un film dedicato proprio a questo argomento, «Bread and Roses».
Come potrei non rispondere a una richiesta di solidarietà da parte di lavoratori che sono stati licenziati per essersi battuti per i propri diritti? Accettare il premio e limitarmi a qualche commento critico sarebbe un comportamento debole e ipocrita. Non possiamo dire una cosa sullo schermo e poi tradirla con le nostre azioni.
Per questo motivo, seppure con grande tristezza, mi trovo costretto a rifiutare il premio.

Ken Loach

Le nostre differenze ci uniscono.

Le nostre differenze ci uniscono. Tu e io abbiamo l’enorme fortuna di vivere in un paese dove si nasce uguali qualunque sia il nostro aspetto, ovunque siamo cresciuti o chiunque siano i nostri genitori. Una buona regola è trattare gli altri nel modo in cui speri che loro trattino te. Ricorda ai tuoi compagni di scuola questa regola se ti dicono qualcosa che ferisce i tuoi sentimenti.

Obama risponde così (risponde, davvero) ad una bambina americana di 10 anni. Il G2 epistolare dei diritti (senza palazzi, rinfreschi e lobby) lo riporta Il Post qui.

Puttana, negra e clandestina: lo stupro perfetto (e un libro da leggere)

Il libro da leggere è “Le ragazze di Benin City“.

Sul perché leggerlo riporto un articolo di Laura Maragnani, una delle autrici. Non serve altro. No.

Diario del mese, anno VI n. 6, 20-10-2006

Il problema è solo questo, dice Isoke: da dove cominciare a raccontare. 

Da Judith, 14 anni appena, che alla sua prima sera di lavoro sui marciapiedi romani della Salaria è stata stuprata e picchiata dal primo cliente, e poi lasciata sull’asfalto più morta che viva? O da Joy, che era incinta, e che ha perso il bambino che aspettava? Da Gladys, a cui un cliente ha distrutto l’ano violentandola tre-quattro volte di fila? O da Rose, stuprata da chissà quanti e in chissà che modo, fino ad avere l’utero perforato; e che, pure, non osava nemmeno mettere piede in un ospedale per curarsi? 
Non sono le storie che mancano. Anzi, sono perfino troppe, quaggiù, sugli affollati marciapiedi d’Italia.

Gli stupri qui sono roba quotidiana; violenti, se non addirittura atroci; eppure assolutamente invisibili, e dunque assolutamente impuniti: «Perché le ragazze non denunciano mai. E nemmeno vanno al pronto soccorso, a meno di non essere moribonde», spiega Isoke. 
E la voce le trema. Le viene da piangere. 
Isoke ha 27 anni, è alta, mora, bella. Nigeriana. Di Benin City. È da Benin che provengono, a migliaia, le ragazze buttate dal racket sui marciapiedi italiani, 10-12 ore al giorno di macchine e di clienti, esposte in mutande e tacchi a spillo a ogni genere di violenze e di aggressioni. Lei, trafficata come le altre, è riuscita a uscirne e a salvarsi. Oggi vive ad Aosta, sta per sposare un italiano. 

E insieme, lei e io, stiamo scrivendo per l’editore Melampo un libro sulla tratta. Sulla sua esperienza di ieri e sul suo lavoro di oggi: uno, «dare voce a chi non ce l’ha», ossia alle ragazze che ogni sera scendono in strada senza sapere se mai ritorneranno, perché sono «almeno duecento, stando alle cronache dei giornali, quelle che negli ultimi anni sono state accoltellate, strangolate, uccise a furia di botte o di iniezioni di veleno agricolo», senza contare quelle torturate e stuprate e massacrate, ma che in qualche modo sono tornate a casa vive, e dunque non fanno assolutamente notizia; due, «cercare di creare una rete, di trovare insieme un percorso d’uscita, un’alternativa alla strada»; tre, «mettere in piedi una casa-alloggio per le ragazze che non ne possono più». 
Aprirà tra poche settimane, ad Aosta. E si chiamerà, ovviamente, la Casa di Isoke. Sottoscrivete. L’indirizzo è rbc_isoke@yahoo.it . 
Allora, dice Isoke. Questa storia degli stupri etnici. Le ragazze la vivono tutti i giorni, ogni volta che vanno al lavoro. Ogni sera escono di casa con due pensieri in testa: forse questa è la sera che incontro il cliente che mi aiuta, che magari mi risolve un po’ il problema del debito. 
Trenta, cinquanta, sessantamila euro. Il costo che le ragazze pagano per arrivare in Italia, con la promessa di un lavoro che le salverà dalla miseria di Benin City. Arrivano qui, dice, e scoprono che il lavoro è poi sempre uno e uno soltanto, il marciapiede. E sul marciapiede succede di tutto; ma voi non lo sapete. E dunque il secondo pensiero che le ragazze, ogni sera, hanno in testa è questo: speriamo che non mi succeda niente. Ma a una o all’altra qualcosa succede. Sempre. Gli stupri sono la regola. Tutti i giorni, dice Isoke. Tutti i giorni gliene segnalano uno.

Stavamo scrivendo la storia di Osas, arrivata a Torino dopo due anni (due anni? «Sì, due anni interi») di viaggio attraverso l’Africa, su su dalla Nigeria fino al deserto del Sahara. In 60 stipati su un camion, senz’acqua né cibo, e quelli che erano di troppo venivano lasciati giù. Così. A morire. Mentre il camion proseguiva verso il nord del Marocco su una pista punteggiata di ossa e di cadaveri freschi. Arrivata a Torino, Osas è stata buttata sulla strada. Caricata da un cliente. 
Dove andiamo? ha chiesto lui. «Posto tranquillo» ha detto lei; era una delle poche frasi che le avevano insegnato le compagne di lavoro. Solo che il posto tranquillo di lui era una cascina semidiroccata nell’hinterland torinese, spersa nella nebbia e nel freddo. E arrivati lì lui le ha puntato un coltello alla gola. L’ha violentata, picchiata, rapinata. Lei ha urlato e urlato. Da un’abitazione vicina una voce ha gridato: «Ma basta, ma finitela. State zitti». 
E solo dopo che l’uomo se n’è andato qualcuno ha osato mettere il naso fuori. Un ragazzo con un cane. Che vuoi, ha chiesto mentre il cane le ringhiava contro; che cosa è successo. Poi l’ha caricata in macchina e l’ha riportata a Torino. «È stato uno degli uomini più gentili che ho incontrato in Italia» dice Osas adesso. Bene. 
Stavamo scrivendo di Osas quando a Isoke è arrivato un messaggio dalle ragazze di Verona. È sparita Prudence. Arrivata una settimana fa dalla Nigeria. Vent’anni. Analfabeta. Non una parola che sia una di italiano. Prudence non tornava a casa da due giorni. A casa aveva lasciato i suoi vestiti e le sue poche cose. Le compagne di strada la stavano cercando dappertutto. Ospedali, questure. Niente. Fino a che è ricomparsa. Irriconoscibile. Sfigurata dalle botte. Quasi non riusciva a camminare. Che cosa è successo, le ha chiesto Isoke in dialetto ebo. «Mi hanno bucato l’utero, mi hanno bucato l’utero». Prudence riusciva a dire solo questo, ossessivamente. A fatica abbiamo saputo che un cliente l’aveva caricata al suo joint, che è lo spicchio di marciapiede che ogni ragazza ha in dotazione e per cui paga a chi di dovere un affitto mensile che va dai 150 ai 250-300 euro. L’aveva caricata e portata chissà dove. E violentata. E riviolentata. E picchiata. Massacrata. Derubata. Scaricata in un bosco, a chilometri dalla stanzetta che Prudence considerava casa sua. Prudence è rimasta in quel bosco tutta la notte, tutto il giorno dopo. Senza mangiare né bere. Sconciata. Sanguinante. A fatica s’è poi trascinata fino a un campeggio, c’era gente che faceva vacanza, che l’ha riportata a Verona. Lì è finalmente riuscita a orientarsi. È tornata a casa. «Mi hanno bucato l’utero, mi hanno bucato l’utero». 
In ospedale non ci è voluta andare, per paura che la polizia la rimandasse a casa. Rimpatrio forzato. Così com’era, in mutande. A marcire in una prigione di Benin City dove le altre detenute ti violentano con una bottiglia, ridendo e dicendo: cosa è meglio, dicci, questa bottiglia o quello che sei andata a goderti in Italia. Di Prudence non abbiamo saputo più niente. È diffìcile per una donna italiana ascoltare storie del genere. 
Ascoltare Isoke che dice: ogni africana stuprata è un’italiana salvata. È difficile. È orribile. Ma vero. I nostri uomini, gli italiani. Stupratori a pagamento, li chiamano le ragazze sulla strada. Quelli che perché pagano i 25 euro della tariffa standard si sentono in diritto di esigere qualunque cosa. Cazzo ti lamenti, bastarda. I soldi li hai avuti. Succhia. Girati. Apri il culo. E giù botte. Hanno l’ossessione del culo, gli italiani che vanno a puttane.
«Dicono: voglio fare quello che con mia moglie non faccio mai», spiega Isoke. «Scene da film porno. Tutto quello che hanno visto nei film porno e con la moglie non hanno il coraggio o il permesso di fare». Ho pagato, è la frase chiave dello stupratore da 25 euro. E giù botte, se solo dici di no. Gladys non riesce quasi più a camminare. Un cliente le ha sfondato l’ano. Era «come una bestia» dice, l’ha costretta a subire una, due, tre, quattro violenze, a un certo punto Gladys ha sentito «come un distacco, nel profondo». Da quella lacerazione non è più guarita. Ospedale? Cure? Denunce? Ha una paura terribile, Gladys. Non ne vuole sapere. Si trascina sul marciapiede a fatica, ogni sera. Ormai zoppica. E non c’è verso di convincerla ad andare da un medico. Dice: «Se la polizia lo viene a sapere mi rimanda a casa». È la regola. 
Dice Isoke: «A volte le ragazze ridotte molto male finiscono al pronto soccorso. Ma devono veramente essere ridotte molto, ma molto male. Incoscienti. In coma». Al pronto soccorso non è che le trattino coi guanti. Dovrebbe essere rispettata la privacy, certo. Ma chi mai dice che la legge valga anche per le puttane negre clandestine? A volte infermieri e medici sono cattivi, a volte addirittura strafottenti. Chiamano la polizia. 
La polizia prende svogliatamente la denuncia; poi ti da il foglio di via. Sei la vittima di uno stupro. Ma sei anche quella che ne paga le conseguenze. Così le ragazze, appena possono, girano alla larga dalla polizia e dagli ospedali. Tornano a casa più morte che vive. Traumatizzate. Distrutte.

La maman dice: ma di cosa ti lamenti, a me è successo tante volte. E il giorno dopo le rimanda sulla strada, coi lividi e i tagli e i segni dei morsi e delle cinghiate e delle bruciature di sigaretta in bella vista. I clienti a volte si impietosiscono, dice Isoke. Ti danno i soldi, dicono: vai a casa e curati. Allora la maman dice: vedi, anche ridotta così sei in grado di guadagnare. Di cosa mai ti lamenti. Sei scema. Gli stupri di gruppo. Capitano spesso. Tre-quattro per volta, arrivano, ti caricano a forza. Sei fortunata a uscirne viva. A volte gli uomini dicono delle cose, mentre ti stuprano. Cose come: brutta negra. Cazzo vieni a fare qui. Così impari. Startene in mutande a casa tua. Ti faccio vedere io. Schifosa puttana. Chi ti ha mai detto divenire qui. Tornatene nella foresta, insieme alle scimmie. Si sentono in qualche modo dei giustizieri, dice Isoke. Ce l’hanno con te perché sei donna. E nera. E puttana. E debole. Non so perché ma i più violenti, quelli più grandi e grossi, si scelgono sempre le ragazze più leggere e più fragili. Quelle così magre e sottili che sembrano una foglia di mais.
 Se ci provano i ragazzini, 16 anni, 18, bé, dice Isoke, gli molli un pugno da tramortirli e scappi via. I più pericolosi sono quelli dai 25 anni in su. Ottanta-novanta chili. Trent’anni. Quaranta. Quelli che a prima vista non diresti mai che sono stupratori. Che non hanno niente nel vestire che ti allarmi, nulla nell’approccio che ti metta in guardia. Sono quelli che poi dicono: ho pagato. Che magari hanno l’Aids ma non vogliono usare il preservativo, per sfregio, e poi ti mettono incinta. Che dicono negra di merda, adesso ti sistemo io. Che tirano fuori il coltello o la pistola. Che ti bruciano con le sigarette, ti riempiono di pugni, ti portano via la borsetta, i soldi, il cellulare. Che ti lasciano a decine di chilometri da casa tua, nel buio o nella neve. E queste sono soltanto alcune delle cose che ti posso raccontare. Solo ascoltare è mostruoso. E ascoltare non finisce mai. 

Ci sono le mille altre storie della strada, le mille vicine di marciapiede delle ragazze di Benin City: le trans sudamericane, vittima preferita dei nordafricani. Stupro omosessuale, lo chiama pudicamente Isoke. C’è la bambina brasiliana di dieci anni. Ci sono le albanesi violentate coi bastoni e con le bottiglie dai loro magnaccia, per convincerle ad andare sulla strada. C’è un campionario osceno di bestialità maschile, senza filtri e ma e se. E, soprattutto, c’è la paura delle ragazze. Perenne.

Dice Isoke: il primo stupro è diffìcile da superare. Sei distrutta. Qualcosa in te si è rotto per sempre. Però ti consoli dicendoti: mi sono vista morta, eppure sono viva. Al secondo dici: capita. Al terzo dici: è normale. Dal quarto in poi non li conti più. È un rischio del mestiere. Di Prudence, dicevo, non abbiamo saputo più niente. Non è ancora andata in ospedale. Se l’infezione non si aggrava non ci andrà probabilmente mai. La curano le sue compagne di strada e di casa.
Una di queste è Eki, che ha avuto finalmente il coraggio di raccontare: è successo anche a me. Mi hanno stuprata e picchiata e torturata con le sigarette accese. Allora le sue compagne hanno detto: anch’io. Stanno mettendo in comune la paura, lassù a Verona. Stanno cominciando a pensare che forse bisogna trovare il coraggio di sfidare il racket e decidere di smettere. Non che sia facile, dice Isoke. Non lontano da Verona una ragazza che non voleva più saperne del marciapiede, Tessie, è stata costretta dai suoi magnaccia a bere acido muriatico. È finita al pronto soccorso. L’hanno salvata per un pelo. E adesso si ritrova sfigurata e handicappata e quasi muta. Una ragazza africana di villaggio, semplice semplice. Ignorante. Analfabeta. Che diavolo di futuro può trovare in Italia. Ditemelo voi. Poi ci sono le ragazzine. Tredici anni, quattordici. Vergini. Vendute agli italos dalle famiglie che vedono i vicini che fanno una bella vita grazie alle figlie che lavorano in Italia. Che si comprano il motorino. Il Mercedes coi sedili leopardati che quando passa nei villaggi solleva una gran polvere e tutti i ragazzini gli corrono dietro rapiti. 
Quando ‘ste ragazzine arrivano in Italia le maman si mettono le mani nei capelli. Che cosa devo fare con te, che non sai niente. Allora pagano tré-quattro ragazzoni africani, grandi bastardi, dice Isoke, che le violentano in tutti i modi finché non hanno capito e imparato quel che si deve fare sulla strada.
Ora. Vorrei potermi risparmiare almeno questa parte della storia, ma non si può. Gli extracomunitari che raccolgono i pomodori, l’uva, le mele. Dodici, quindici ore di lavoro per sette, dieci, dodici euro. Frustrazione e rabbia pura. 
Vi siete mai chiesti come la sfogano? Sulla Domiziana, dalle parti di Castelvolturno, terra senza dio né legge in provincia di Caserta, le ragazze vivono in catapecchie senz’acqua né luce. Guadagnano 5 o 10 euro a botta. Sono la vittima perfetta dei loro stessi compaesani. Che le schifano, «perché si vendono ai bianchi». 
E non hanno soldi e non le pagano e le rapinano nella certezza della totale impunità. Si vendicano della vita di merda che fanno. Con loro, le ragazze di Benin City. 
Isoke dice: però questo io non lo posso dire. Allora lo dico io. In certe zone la polizia chiude non un occhio ma due, e forse anche tre, avendoli, e pure anche quattro. Va bene che ci siano le ragazze di Benin City: sono uno sfogatoio perfetto, un matematico calmieratore di tensioni sociali ed etniche. Sono la vittima designata, l’agnello sacrificale. Perché ogni africana stuprata è un’italiana salvata. E l’africana stuprata tace. Ha troppa paura per parlare. È perfettamente invisibile e dunque non fa notizia né statistica. Nemmeno di questi tempi, ragazze mie. Pensatele ogni volta che uscite di casa a notte fonda, e soprattutto ogni volta che rientrate. Voi, bianche. Voi, sane e salve.

 

Lettera di un’iscritta PD

Un pezzo a cuore aperto di Manila Filella per Non Mi Fermo. Manila oltre ad essere dei nostri per le attività di Non Mi Fermo è dirigente PD, per dire:

Ripeto a me stessa che il Pd è costituito da tante anime, perché ognuno possa ritrovare la sua, che la pluralità e la diversità delle sue componenti siano fonte di arricchimento culturale, che la complessità e la varietà ideologica siano la sua forza.

Mi convinco che i giovani, le donne, gli omosessuali, i disabili, avranno spazio… prima o poi…
– che se studi, approfondisci, segui la linea, mantieni un profilo basso, sei corretta e leale, i colonnelli delle varie segreterie saranno meritocratici…prima o poi;
– che se non ti pieghi agli interessi delle correnti e mantieni l’onestà intellettuale, troverai dei mentori che ti faranno crescere…prima o poi;
– che se presti, umilmente, la tua competenza professionale, offri un servizio utile agli elettori e di questo ti saranno grati…prima o poi;
– che da dirigente devi essere zelante, seria e non cadere in dinamiche che ti rendono ricattabile.

A volte mi ripeto che il Pd è un partito che premia le capacità della gente di spessore (dunque mi sopravvaluto, perché non sono ancora stata “premiata”);
– che solo l’etica ed il rigore morale è criterio di scelta dei rappresentanti istituzionali del partito;
– che l’estetica, soprattutto nelle donne, è solo un valore aggiunto, e che è immorale considerarlo come primario (salvo poi rilevarlo in camera di consiglio…con grande ipocrisia).

E invece a destra, da sempre, in modo opinabile, ma coerentemente, lo si utilizza come strumento di scelta!
Mi chiedo se ho compreso realmente la linea del mio partito, se ho ancora fiducia ed in cosa mi rappresenta realmente questa compagine confusa, se i vertici della struttura crollano sul famigerato art.18, prendendo posizioni al di fuori delle logiche.
Esistono tra i parlamentari del Pd o la dirigenza interna dei colleghi avvocati giuslavoristi? E qualcuno ha mai difeso in giudizio un lavoratore licenziato? In che modo? Lasciando a casa la coscienza?

E che dire dei toni morbidi o dicotomici del mio partito sulle questioni di natura etica? Ma qualcuno nella dirigenza è mai stato scosso dalla notizia di aver cresciuto un figlio omosessuale, a cui vengono negati i diritti fondamentali? O si è mai trovato nell’impossibilità di avere dei figli, confrontandosi con il tema dello straziante percorso dell’inseminazione artificiale?

Mi sono chiesta se per il mio partito gli stranieri siano davvero un patrimonio per il nostro paese o se la loro tutela sia strumentale ad una battaglia che predica la tolleranza meramente a fini propagandistici.
Inviterei i miei colonnelli nei tribunali o nelle carceri, a sostenere le ragioni dei clandestini, o in Questura, all’ufficio immigrazione, dove la dignità della persona umana viene calpestata giornalmente, pur di ottenere un permesso di soggiorno valido.
Oppure potrei invitarli a sentire le deposizioni dei minori stuprati da genitori “normali”, in famiglie borghesi, costituite da madri e padri eterosessuali.

«Auguriamo a Vendola possa rimanere incinta lui o la sua dolce metà»

Il deputato leghista Torazzi durante l’ostruzionismo leghista in aula al decreto sull’Ilva: «Auguriamo a Vendola possa rimanere incinta lui o la sua dolce metà».

E’ la Lega ripulita di Maroni, quella di #primailnord, quella che non doveva più lasciarsi andare a xenofobia o urla o battute. E ha lo stesso odore di un branco di cani bavosi che provano a volare ma hanno solo le ali da polli.

E poi ci vengono a dire che la questione dei diritti in Italia sta facendo passi in avanti. Che se ne può discutere. Che non ci sono preconcetti. E che non sono fondamentali per cambiare la cultura di questo Paese. Così intriso di subcultura di “bassa Lega”.

#legge40 nel nostro piccolo, un segnale dalla Lombardia

Il paventato ricorso del Governo contro la sentenza della Corte Europea sulla legge 40 è un atto politico che lede lo spirito laico delle istituzioni sancito dalla Costituzione e, ancor di più, la libertà delle donne. Ne avevamo parlato qui e riteniamo doveroso operare, ognuno nel proprio ambito, per affermare con forza questa posizione. L’integralismo sulla pelle delle donne è una pratica non solo contraria ai nostri princìpi ma fuori luogo per un governo legittimato dall’urgenza piuttosto che dalla politica. Però scriverne non basta e, visto che abbiamo l’onore di rappresentare una parte di cittadini nel (desolante) Consiglio Regionale della Lombardia ecco la mozione che proporremo come urgente nella seduta di giovedì 6 settembre:

MOZIONE IL CONSIGLIO REGIONALE DELLA LOMBARDIA

PREMESSO CHE

la Corte europea dei diritti umani (sentenza 28 Agosto 2012) ha bocciato la legge 19 Febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita) nella parte in cui vieta a una coppia fertile ma portatrice sana di fibrosi cistica l’accesso alla diagnosi preimpianto degli embrioni;

PREMESSO INOLTRE CHE

i giudici della Corte di Strasburgo hanno stabilito che la legge 40/2004 ha violato il diritto al rispetto della vita privata e familiare di Rosetta Costa e Walter Pavan, una coppia che desiderava utilizzare la tecnologia riproduttiva e assistita per avere un bambino senza che il feto venisse trovato affetto da fibrosi cistica;

CONSIDERATO CHE

è opportuna una modifica della legge 40/2004 affinché si possa avere una regolamentazione della riproduzione medicalmente assistita in linea con i parametri europei ma, soprattutto, con il rispetto e la tutela dei diritti umani;

INVITA

il Governo a non ricorrere contro la sentenza 28 Agosto 2012 della Corte europea dei diritti umani, ma ad adoperarsi per una concreta e radicale modifica della legge 40/2004 al fine di giungere ad una legislazione in linea con le disposizioni europee e il rispetto dei diritti umani

Milano, 3 settembre 2012 

Giulio Cavalli (SEL)

Chiara Cremonesi (SEL)

 

Presidi giuridici e capovolte oratorie

Forse il guaio è ancora più vasto e irrimediabile della sottrazione – grave, gravissima – di diritti importanti senza una giustificazione valida. È la scelta di usare parole ed espressioni incomprensibili per mantenere tutto fermo come in una radura nebbiosa, per non disturbare nessuno finendo per scontentare tutti, per farci perdere ore in una complessa e impossibile opera di esegesi.
Lo dice bene Fred Vargas in La cavalcata dei morti: “A furia di allontanarsi dalle parole, le più limpide teorizzazioni si trasformano in dicerie. E non si sa più niente. Fra approssimazioni e inesattezze la verità si dissolve e apre la via all’oscurantismo.”

Lo scrive Chiara Lalli in un post da leggere sui “presidi giuridici per gli omosessuali” ma in generale potrebbe essere la frase del momento politico. Sicuro.

Legge 40: i paradossi sul corpo delle donne

L’Europa ancora una volta mette impietosamente in luce i drammatici paradossi della legge italiana. In questo caso ad essere nuovamente messa in discussione è la legge 40 che viene in parte bocciata dalla Corte Europea perché lederebbe il diritto al rispetto della vita privata e familiare. A scoperchiare il pentolone è una coppia che dopo il pronunciamento di oggi dovrà essere risarcita dallo Stato con 15mila euro per danni morali e 2.500 euro per le spese legali.
Il nocciolo della questione è all’interno della normativa nel punto in cui si sancisce l’impossibilità per una coppia fertile, ma portatrice sana di fibrosi cistica di accedere alla diagnosi preimpianto degli embrioni, quando un’altra legge dello Stato permette alla coppia di accedere ad un aborto terapeutico nel caso in cui il feto fosse affetto da fibrosi cistica. Semplificando nel nostro Paese la donna deve prima farsi impiantare l’embrione, successivamente si può verificare se è affetto da fibrosi cistica e in caso accedere ad un aborto terapeutico con i conseguenti disagi fisici e psicologici per la donna.
Si riapre per l’ennesima volta una discussione che una volta per tutte dovrebbe essere affrontata con serietà e senza strumentalizzazione politica. Temi tanto delicati non dovrebbero essere utilizzati per assicurarsi bacini elettorali ed è per questo che ci auguriamo che l’attuale Governo attui immediatamente provvedimenti concreti che possano correggere le linee della legge 40 in previsione di una riscrittura da parte di un nuovo esecutivo politico e non tecnico.

Lo scrive Monica CeruttiE, come va di moda, ora ce lo chiede l’Europa.

E voi no: le critiche che ci meritiamo

Un commento che merita di essere un post. Scritto da Patty sotto questo articolo. E che dovremmo leggere e rileggere, stampare per le nostre scrivanie, per i dirigenti e per rispondere che sì, riusciamo a farle subito e portarle a compimento in tempi certi quelle proposte che sono nel nostro dna e che sembra ci facciano così tanta paura da rinunciare a farne una bandiera politica. Di solito si propagano e si mettono in evidenza i complimenti, che fanno curriculum. Questa è una critica che spiega molto di più di tanti sondaggi:

Posso dirti, caro Giulio, che le tue sono domande pleonastiche?
Possibile, davvvero possibile, che anche i migliori tra voi, persone di tutto rispetto come te, Civati, Chiara Cremonesi, la Alicata, Ignazio Marino, non percepiate che noi elettori PD o (come me ) ex PD delusi dal PD che hanno votato Sel, o magari Idv, siamo più avanti, molto più avanti di questi dirigenti del Pd e ora anche di Sel?
Com’è possibile che ancora vi e ci chiediate queste cose così ovvie? Noi vorremmo andare avanti. Siamo già, credimi, molto avanti. Molto oltre. Spaesati, però, e con il cerino in mano. Una bella collezione, di cerini:
Pronti a votare per il MATRIMONIO delle coppie omosessuali, oltre alle unioni civili. E voi, d’un tratto, NO.
Pronti a votare lo ius soli, ma voi, tutti al completo, NO.
Decisi, anzi, ferrei, nel non volere alleanze con l’UDC, a costo di NON governare, perché noi non vogliamo saperne PIU’, MAI PIU’ delle BInetti, dei Formigoni, dei Buttiglione, dei Giovanardi, dei Casini, dei CL e dei cilici e persino dei boyscout e voi, NO. Pensa un pò, Giulio, noi faremmo anche piazza pulita delle giovani marmotte alla Letta Enri, sai, quello che sponsorizzò Ferrandelli? Si accomodi fuori, prego, a casa Casini in Caltagirone, Letta Enri. Che prima o poi tradisce, ci puoi giurare, e noi, nel nostro centrosinistra ideale, ne facciamo anche a meno. Ci portiamo avanti. Siamo avanti. Ma voi no.
Noi, sai, eravamo pronti a REALIZZARE misure concrete per le PARI OPPORTUNITA’, ma voi, boh?
Eccoci, qui, invece, nel 2012, a dover gridare che la legge 194 NON si tocca. E si rispetta. Che il n. dei medici obiettori deve essere reso pubblico e PUBBLICATO in ogni H e NON deve essere superiore a quello dei NON obiettori.
Che la pilloa del giorno dopo NON può essere negata da nessun farmacista. Dei farmacisti obiettori?! Ma siamo matti? E’ illegale! E voi? Boh? Ragazze, donne, intanto, arrangiatevi.
Noi strapronti a votare le donne, tante donne. E dove sono? Dov’è, Giulio, la canditata donna alle primarie del centrosinistra? Dove?
Dove sono le proposte e le leggi nuove e al passo con questi tempi maledetti contro la violenza sulle donne?
Dove sono gli interventi, duri, quotidiani del PD e di Sel, sui Femminicidi giornalieri e sul linguaggio offensivo dei media nei confronti delle donne?
E potrei continuare per giorni.
Sai, siamo molto stanche, noi donne, degli uomini. Dei politici. Di questo paese.
Per dire, noi donne, se avessimo un nostro partito, per prima cosa andremmo avanti, certo, che lo siamo già, di natura, avanti. Siamo nate molto, molto multi tasking noi donne, per forza di cose, ma prima, caro Giulio, torneremmo anche indietro a riprenderci rapide, due o tre cose fondamentali che quando c’erano e funzionavano abbastanza bene, prima dell’osceno governo dei lanzichenecchi del PDL, prima delle Moratti, delle Minetti, delle Gelmini, ci servivano. Ci aiutavano. Tutti.
Sai? quelle due o tre cose PUBBLICHE e garantite a tutti i cittadini che ne determinano il benessere fisico e l’apprendimento. L’Abc di uno stato civile. La salute, l’istruzione e la cultura. Quando il liberismo sfrenato vuol scipparle ai cittadini in nome del profitto, di solito comincia con i soldi ai privati. Poi con i tagli. Poi con le assicurazioni(ne ha appena parlato Monti ) Poi, con i cittadini fuori dal welfare.
Loro, sono andati molto avanti, caro Giulio.
Noi, che una volta votavamo centrosinistra, sai, quegli ingenui che stanno ancora aspettando la legge sul conflitto di interessi, noi, lo sappiamo.

D’altronde non c’è nemmeno un nome per le mamme che perdono i figli.

Quando si banalizza il senso di famiglia, quando si ritiene di sapere cos’è una famiglia giusta, quale sia quella sbagliata, quando si pensa di regolamentare gli affetti per dogma o per legge, ecco, farebbe bene leggere post umanissimi come questo di Spora:

Alla fine non ho avuto bambini.
Anni fa li volevo ma non ha funzionato.
Credo sinceramente che sarei stata una mamma fichissima.
Una mamma di quelle che trattano i figli come essere umani e li accettano in quanto tali, con le loro idee, anche se sono dei cretini. Perché quando si figlia non si sa mai coqa viene fuori, e non puoi pretendere che facciano le cose fighissisme che immagini tu per forza.
Sono gente normale anche loro.
Ci saremmo divertiti.

A volte non funziona per motivi sconosciuti.
A volte la mente ti sterilizza il corpo.
Non capirò mai perché non ha funzionato.
O forse l’ho capito. Il mio corpo ragiona meglio di me.

Una. Due. Tre.
Quattro. Cinque. Sei.

Sei inseminazioni artificiali. Tre anni a piangere sui test negativi, a farmi le punture nella pancia.
Un utero perfetto. Ovaie trombe e ovuli bellissimi.
Un collo menomato dai tumori, una sterilità stupidissimamente meccanica.
Niente di grave, Madame.
E invece.

Non credo che si possa chiamare lutto, se i bambini non ce li hai.
D’altronde non c’è nemmeno un nome per le mamme che perdono i figli.

Nei commenti al post Aliyah dice che “la vita è breve ma larga, e ci sta tutto ciò che vogliamo”.