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scorta

“Gli dissi di andare avanti anche se non aveva più la scorta”

La bicicletta di Marco Biagi. Nel giorno del suo assassinio.
La bicicletta di Marco Biagi. Nel giorno del suo assassinio.

“Lo Stato aveva abbandonato mio marito nel momento peggiore ritirando la scorta che aveva avuto per un anno e mezzo. Ne parlammo anche la sera precedente l’assassinio e si chiedeva e mi chiedeva se doveva lasciare il lavoro che stava portando avanti, cosa che non accettava, e io capendo il suo stato d’animo gli risposi che doveva andare avanti perché la società ne aveva assolutamente bisogno”: è il racconto che Marina Orlandi, moglie di Marco Biagi, ha fatto in una scuola di Imola a pochi giorni dal 14esimo anniversario dell’omicidio del giuslavorista. (fonte)

Il bambino con il gelato blindato

411EUaV-LbL._SY300_La storia è uscita nei giorni scorsi, qualche quotidiano ne ha scritto ma è rimasta comunque sotto traccia. Una storia in cui la delicatezza e l’umanità ci chiedono di non fare nomi e nemmeno luoghi ma che anche scritta senza troppe indicazioni è dolorosa come una manciata di sale sul cuore: un bambino di nove anni, figlio di un magistrato antimafia, si ritrova sotto scorta insieme alla madre e alla sorella. L’obiettivo è lui: il bimbo. Il figlio maschio di un magistrato di cui (secondo le parole intercettate dal boss) “non deve rimanere nemmeno il seme”.

Provate a spiegare ad un bambino in compagnia del suo gelato blindato che la mafia non è un’emergenza prioritaria di questo Paese. Ai professionisti dell’antiantimafia consiglio di provare a convincere lui.

Morti per chi?

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La tutela di Marco Biagi era responsabilità di Claudio Scajola, oggi sotto processo per ‘ndrangheta. Questo direi che fotografa perfettamente la classe dirigente di questo Paese (negli scorsi anni ma sarebbe bello aprire l’analisi anche sull’oggi) che si ritrova a prendere decisioni come in questo caso vitali sulla sicurezza e la prevenzione. Oggi a capo di questa responsabilità c’è Angelino Alfano. Per dire. Per questo la notizia dell’apertura di un’indagine nei confronti di De Gennaro e dello stesso Scajola sulla morte di Biagi è da seguire con attenzione. Molta attenzione. Almeno noi.

Chi può ne parli: Michele Albanese

di Roberto Rossi /// Due agenti di scorta e un’auto blindata per ogni spostamento. Questo significa, concretamente,  avere una tutela di terzo livello, la disposizione di sicurezza personale che da ieri sera è stata assegnata a Michele Albanese, giornalista, corrispondente da Polistena per il “Quotidiano del Sud”. Stava seguendo l’omicidio di ‘ndrangheta avvenuto a Sinopoli, ieri, quando è stato convocato in Questura a Reggio: un’intercettazione ambientale dice che il giornalista è a rischio. Michele è stato minacciato di morte tante volte, in più modi. Telefonate, biglietti, lettere un’intrusione a casa; anni fa gli venne recapitata una foto che ritraeva sua moglie e la primogenita.

Difficile dire quali articoli hanno dato fastidio, ora come allora: le sue inchieste sul Porto di Gioia Tauro, dalle quali emerge quanto e quale sia il livello di inquinamento mafioso delle attività economiche dell’hub transhipment più grande del Mediterraneo; gli sviluppi sulle faide tra famiglie del calibro dei Piromalli e dei Molè, i rapporti che questi clan hanno intessuto per decenni con la politica locale e nazionale; e poi i Pesce e i Bellocco di Rosarno, dove l’intreccio tra schiavitù e mafia alimenta da anni una tensione sempre pronta ad esplodere violentemente; gli articoli sui rifiuti pericolosi, quelli sul clan Alvaro in Aspromonte. Recentemente, è stato lui il primo a dare la notizia dell’inchino di Oppido Mamertina, un fatto che ha riportato per qualche giorno la Calabria nel primo sfoglio di tutti i giornali. E Michele, memoria storica della Piana, come sempre in questi casi, ha fatto da sherpa per tutti i blasonati colleghi piovuti per qualche ora a raccontare i vizi di una civiltà abbandonata a se stessa, consegnata al volere di pochi.

Al telefono, oggi, Michele, marito e padre, è di poche parole. Non si parla di lavoro – continuare o meno a scrivere di ‘ndrangheta – non ha senso nemmeno accennare a discorsi del genere; il pensiero è per il dramma vissuto dai familiari. Ancora una volta, un’intera famiglia, non solo il giornalista, sente il gelo di quella condizione di accerchiati vissuta da chi sfida la ‘ndrangheta nei piccoli centri della Calabria: «Sanno chi sei, che lavoro fai –raccontava alcuni anni fa – conoscono i tuoi spostamenti e quelli dei tuoi cari. Li incontri al bar la mattina, o quando scendi per andare a comprare il giornale». Fu lui, il giorno in cui l’abbiamo conosciuto, a spiegarci il significato del termine ‘mpamu, infame, raccontandoci di quella volta che fu sua figlia a chiederne il significato perché un compagno delle elementari le aveva negato il saluto essendo lei figlia di ‘mpamu.

Il condizionamento dell’informazione in Italia è a livelli altissimi, basta fare dare un’occhiata al sito di Ossigeno per l’informazione per rendersi conto dei numeri e della qualità delle minacce subite dai giornalisti con cadenza ormai quasi quotidiana. Il problema è enorme considerando il valore della posta in gioco, il diritto all’informazione di ogni cittadino, il senso stesso della democrazia. Michele Albanese vive con convinzione questi valori, consapevole com’è che il binomio mafia e libertà sia quanto di più antitetico possa esistere. La disperazione più grande che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere rettamente sia inutile, Michele ha fatto un quadro di questa celebre citazione di Corrado Alvaro.

Sta sulla scrivania, appena sotto il monitor del suo computer.

(Link)

Chi ha ucciso Marco Biagi?

In questi giorni al di là delle abitudini sentimentali di Scajola sono le parole e i fatti sulla mancata scorta a Marco Biagi che fanno impallidire:

Marina Orlandi, ha spiegato l’avvocato della famiglia, Guido Magnisi, “come ha sempre fatto, ha portato tutti gli elementi di cui è a conoscenza e segue fiduciosa gli sviluppi dell’inchiesta”. Da quanto appreso, la moglie di Biagi non ha consegnato agli inquirenti nuova documentazione.

Orlandi, da sempre riservata, interruppe il proprio silenzio soltanto a dieci anni dall’omicidio.”Era stato abbandonato dalla polizia, dallo Stato che gli tolse la scorta proprio nel momento in cui era piùesposto. Era stato sbeffeggiato da chi avrebbe dovuto proteggerlo”, disse. E raccontò lapreoccupazione del marito e di conseguenza la propria. Ricordò una sera in cui Biagi andò al telefono per rispondere: “Lo vidi impallidire, dopo poco mise giù la cornetta. Gli chiesi: ‘Ma chi era?’, e lui cercò di minimizzare, ma era troppo turbato. Io insistetti. E allora mi disse che lo avevano minacciato, che era una delle brutte telefonate che riceveva in quel periodo”.

Raccontò anche del 20 maggio 1999, giorno dell’omicidio di Massimo D’Antona, a Roma, commesso dalle Nuove Brigate Rosse. Quello stesso giorno Biagi era nella Capitale: “Lo chiamai supplicandolo di tornare. Mi disse che sarebbe rimasto altri due giorni perché doveva finire il lavoro di D’Antona. Da quella sera ho cominciato a temere per la sua vita”. Eppure rimase senza scorta: “E io che posso fare? – mi disse Marco -. La scorta non me la danno”. Sui motivi e sulle responsabilità proprio di questa decisione, i pm stanno cercando di far luce.

O mio dio, ho la scorta

Di solito fanno una faccia mutevole di corsa: cambiano espressione e passano dal pentimento di non conoscermi attraverso la pena fino alla stima incondizionata. Il tutto in tre, quattro minuti in cui la vita davanti però se la vedono passare gli altri, mica io. Sono sette anni che vivo sotto protezione. Dal 26 aprile 2006. Come un anniversario ma con meno dolcetti, spumante e candeline. E in questi sette anni la scorta, lì fuori dove si scrive sui social o sui giornali, è diventata di tutto e di più: una condanna, un’esibizione, un privilegio, un costo, un diritto, un dovere, uno spreco fino a questi tempi ultimi in cui è scontata quasi banale.

Il primo giorno sono uscito dal cancello e ho trovato due tizi più stralunati di me che sembrava mi chiedessero i tempi del copione di questa drammaturgia inaspettata: avere la scorta a Lodi (quella provincia che esiste per essere la prima verso sud dopo il casello di Melegnano) è più o meno come girare nudo con un calzino sul pene per le vie di Roma o Milano, ti si nota, eccome.

Poi è venuta l’abitudine ma è un’abitudine inquieta. Sembra un ossimoro, effettivamente.  Ma l’abitudine ha l’occasione ciclica per essere spezzata della paura perché sì, ho avuto paura, ne ho ancora, ma è una paura che richiede anni di studio e alfabetizzazione per essere colta dal gambo in su senza fermarsi ai petali che fanno notizia ma sono solo un’escrescenza del totale.

Poi è venuta la delazione: quella subito, in contemporanea alle minacce perché in fondo hanno le stesse radici e pure la stessa natura, anche se i delatori pensano di poter essere i censori dei minacciati. Sono stati tanti e comunque simpatici: prima piccoli potentati lodigiani (sono in corsa in queste elezioni) che da sinistra sono riusciti ad essere sinistri solo per cercare di colpire me o Andrea Ferrari (un amico, in quei tempi, e si costruiva insieme) e che poi si sono sciolti anche solo per una presenza a qualche festival democratico, poi sono arrivate le delazioni dei berluscones (eppure proprio da quelle parti era arrivata l’offerta di una scorta “pagata privatamente per garantire la mia sicurezza”) e infine le delazioni peggiori, quelle dei divi antimafia che hanno il pregio di essere figli e presidenti o qualche altro membro di una qualsiasi accolita dei rancorosi.

Poi è venuta la lotta politica. Che non è mica lotta “in” politica ma sempre lotta “dalla” politica. E così ho un elenco lungo di dirigenti diligenti della sinistra che mi scrivono grosso sui manifesti delle iniziative elettorali ma poi bisbigliano più biliosi di una vecchia suocera e megera. Del tipo: Cavalli ha la nostra vicinanza perché scortato ma è un rompicoglioni. Perché gli sfugge che in un tempo così banale basta essere un rompicoglioni per avere bisogno di una tutela armata piuttosto che amabile. I delatori di sinistra sono fantastici: riescono a organizzare grandi fiaccolate per te e intanto organizzano l’ennesimo eccesso di difesa per un attacco che non ho mai sferrato. Pagherebbero per monetizzare politicamente una situazione come la mia. Rimangono basiti solo un attimo quando gli dico che vorrei indietro almeno i miei figli.

Poi ci sono i “pretini”: dicono che la scorta è una sventura. O mio Dio. Si inginocchiano e pregano, Pregano così forte che non hanno nemmeno un secondo per ascoltarti o al minimo sentirti.

Poi ci sono i democristiani della paura: ti dicono che la scorta è un dolore troppo grande per la politica. Come se Dell’Utri, Cosentino, Mangano, Mancino, Violante e Berlusconi fossero dei foruncoli che sono usciti solo per lo stress della paura. Gli dici che sei di sinistra, comunista forse, o comunque che Peppino Impastato era un “compagno” e si mettono le mani sulla faccia invocando dio (quello minuscolo funzionale alle schede elettorali) dicendo che la scorta e la paura non sono né di destra né di sinistra. Ma io no, perdio.

Poi ci sono gli indifferenti. Tanti, tantissimi e sempre eleganti. Camminano per la loro strada che di solito è un vicolo bavoso e angusto e ti insegnano che l’indifferenza è il balsamo della vita. Stanno bene. Hanno l’abito del magister e la responsabilità di un servitore gentile: ringraziano, si inginocchiano, omaggiano e poi cercano il riscatto nella pippata del sabato sera.

O mio dio (minuscolo) ho la scorta e così poca penna per raccontare tutto l’unto tutto intorno.

Per le figlie di Giovanni

Chi era Giovanni Sali lo potete rileggere qui. E la sottoscrizione vale proprio la pena di essere rilanciata:

La sottoscrizione per due borse di studio o due borse lavoro, lanciate per le figlie di Giovanni Sali, il carabiniere di Cavenago d’Adda barbaramente trucidato la sera del 3 novembre scorso: la volontà di lanciare una sottoscrizione pubblica è stata resa pubblica dall’Associazione Industriali del Lodigiano e ha trovato un aperto sostegno da parte del nostro giornale. Sono invitati a partecipare alla raccolta i privati cittadini, le imprese, gli enti, le istituzioni e tutti coloro che volessero farsene partecipi. Gli estremi della banca sulla quale far transitare i contributi volontari sono i seguenti:

IBAN IT87R0503520300325570525925

Veneto Banca scpa Filiale di Lodi via Volturno 41 26900 Lodi.

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Fare antimafia con “Abbondanza” in Liguria

Il mio pezzo scritto per IL FATTO QUOTIDIANO

gli-innominabili-FOTIA_ii-vol-quaderni-dell-attenzione“Due colpi di pistola alle gambe e se continua a scrivere un colpo alla testa che gli passa la voglia”, “Sanno tutto, scrivono di tutti”, “vanno lasciati perdere per un paio d’anni per eliminarli dopo”.
Dicono così i protagonisti delle intercettazioni dell’inchiesta “La Svolta” che ha colpito la ‘ndrangheta in Liguria. Messaggio chiaro: Christian Abbondanza e Marco Ballestra rischiano la pelle. Anche perché sono soli. Niente protezione per loro.

Comincia così l’articolo (che è più un grido di allarme) di Ferruccio Sansa su Il Fatto Quotidiano nel numero della vigilia di Natale; del bandito Christian ne abbiamo parlato e ne parliamo da un po’ cercando di sostenere  le sue denunce che risultano antipatiche e spigolose come sono spigolosi i rompipalle per vocazione. Vocazionista dell’antimafia più che professionista, si dovrebbe dire.

Se c’è qualcosa che a Christian va riconosciuto (da sempre) è l’amore per i dati, i confronti, i passaggi, le date e i collegamenti: merce rara in un movimento antimafia che rischai di diventare sociologico credendo di potersi bastare senza scendere nei dettagli investigativi e nella mappatura dei “cattivi” oltre alla memoria dei “buoni”, soprattutto se i “cattivi” sono sani, operativi e politicamente accolti nei loro territori.

So già (succede che me lo ricordino nei commenti ogni volta che ne scrivo) che Christian Abbondanza e la Casa della Legalità sono considerati scomodi anche da voci autorevoli dell’antimafia a cui sono molto legato (ne parla Savona News qui e risponde direttamente l’associazione qui) ma credo che il punto che oggi ci deve interessare sia un altro: la memoria antimafia deve essere abbastanza contemporanea da sfociare nella vigilanza per essere utile. E su questo credo non sia difficile essere uniti.

Oggi la Casa della Legalità decide di pubblicare uno dei loro Quaderni dell’Attenzione che contiene la raccolta (oltre 200 pagine), dal 2010 – 2012, delle pubblicazioni dedicata alla famiglia FOTIA ed alle loro imprese (il file è allegato). Il link per scaricare il volume [5,27 Mb] è questo (http://www.casadellalegalita.info/Gli-innominabili-FOTIA.pdf ).

La Nota Introduttiva al volume:

Questa è una raccolta dei testi sui FOTIA scritti e pubblicati tra il 2010 ed il 2012.
Molti di questi articoli hanno anche dato spunto ad attività investigative e giudiziarie e rotto
il silenzio che avvolgeva la famiglia FOTIA nonostante gli Atti parlassero da tempo
chiaramente.
Tutte le pubblicazioni si fondando su fatti di rilievo pubblico indiscutibile, ed informazioni
pubbliche relative ai FOTIA ed alle loro società.
Tra le fonti ufficiali utilizzate vi sono Atti Giudiziari (Sebastiano FOTIA, Pietro FOTIA,
SCAVO-TER, Mario VERSACI, indagine MAGLIO 3 e LA SVOLTA, TAR); Relazioni e
Rapporti della Procura Nazionale Antimafia, DIA, Commissione Parlamentare Antimafia;
Informative ROS e Polizia di Stato.
Sono stati inoltre richiamati articoli di stampa nonché documenti contabili e visure camerali
delle imprese dei FOTIA, oltre a delibere e determine di Enti Locali.
E’ una verità scomoda che qualcuno, oltre a loro, vuole oscurare, con una vera e propria
censura. Da un lato hanno tentato di fermarci con intimidazioni palesi, dall’altro con azioni
legali a raffica volte sempre a cercare di farci tacere. Hanno tentato aggressioni e
delegittimazioni di ogni genere… ma noi non abbiamo mai ceduto!
Noi non chiniamo il capo, altri sì, lo hanno fatto e lo continueranno a fare. Per noi conta la
verità dei fatti, piaccia o non piaccia agli “innominabili” signori FOTIA, secondo gli Atti:
cosca MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI.
Siamo o no dei “banditi”? Quindi, ecco a voi, questa storia, fatta di capitolo dopo capitolo,
in ordine cronologico di pubblicazione, dove la situazione veniva aggiornata, pezzo dopo
pezzo, sino ad oggi. Tasselli scomodi di una realtà indecente che bisogna conoscere!
Buona lettura e se volete diffondete!