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speranza

Ora a Lucano gli daranno il divieto di esistere

Non è più sindaco di Riace, ormai a trazione Lega. Non è nemmeno consigliere comunale, nonostante sia stato il più votato infatti la sua lista ha preso un solo seggio che è andato al candidato sindaco. Da otto mesi ha divieto di dimora nel suo comune, roba che nemmeno un boss ‘ndranghetista o un pericoloso killer. Eppure Mimmo Lucano non può ancora rientrare nel suo paese. Non si capisce bene quali sarebbero i pericoli di inquinamento delle prove e non si capisce nemmeno come potrebbe reiterare il presunto reato. Eppure il Tribunale di Locri presieduto da Fulvio Accurso ha rigettato l’istanza formulata dagli avvocati Antonio Mazzone e Andrea D’Aqua che avevano chiesto la revoca della misura cautelare. Sembrava una formalità ormai, ma la questione Lucano sta assumendo contorni da vicenda kafkiana.

Ma non è tutto. Ieri è iniziato il processo al Tribunale di Locri e il sindaco ha pensato bene di emanare un’ordinanza per vietare qualsiasi manifestazione di solidarietà nelle vicinanze, un provvedimento abnorme e mai preso per un tribunale che ha visto, tra le altre cose, il processo della strage di Duisburg, tanto per dare l’idea di cosa sia la criminalità, quella vera, da quelle parti.

Eppure non stupisce. Perché Mimmo Lucano deve sparire, gli arriverà prima o poi su carta bollata un gentile richiesta di non esistere più, di smetterla di veicolare il suo messaggio di speranza e di accoglienza. Non potendolo fare fuori malmenandolo come oppositore a un comizio e non scalfendolo con il continuo dileggio che gli è stato riservato allora meglio esiliarlo, sommergerlo di carte bollate, soffiare sul dubbio e sul fango perché non abbia più fiato, farlo passare dalla parte di quelli che non si sa bene cosa abbiano combinato.

E così ci ritroviamo il pericoloso criminale Lucano punito ad oltranza. Ed è una cosa che farebbe sbellicare dal ridere se non fosse tremendamente vero. E qui intorno c’è una puzza che sa di silenziatore. Senza nemmeno bisogno di una pistola.

Buon mercoledì.

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In edicola con Left dal 14 giugno 2019

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I licenziati 2.0

E non vengono pagate il giusto. E non durano nemmeno il tempo di costruire un po’ di speranza.

C’è speranza, nello sfogo antirazzista del capotreno Trenord


C’è speranza nello sfogo del capotreno di Trenord Marco Crudo che ha deciso di pubblicare un video per dire basta ai razzisti. Uno sfogo che lascia intravedere un Paese che non era così e che lentamente prova a riaffermarsi al costo anche di andare controcorrente, di smentire i pregiudizi e di nuotare controcorrente. Lo sfogo di Marco è il grido dei cittadini che dicono basta, basta a un’Italia incattivita che esercita il proprio fetore dappertutto, sui treni, sui tram, per strada, sui social.
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Candidiamo i nostri figli

VOCE 1: Ho tre figli. Perché siamo una famiglia larga, come si dice, anche se quando ci prende la paura ci viene da stare stretti. Si chiamano Tommaso, Leonardo, Martino fra dieci anni voteranno, più o meno. Mi sono sempre convinto che la ‘responsabilità’, dico per un padre, se avesse un forma la responsabilità per un padre verso i suoi figli, la responsabilità sarebbe a forma della domanda “e tu cosa hai fatto?”. E non so mica rispondere, ora come ora, sul cosa ho fatto. Ogni tanto mi terrorizza l’idea di dovergli spiegare che mentre tornavo alla sera, a casa, durante il giorno non ero riuscito a scrivere abbastanza forte la disuguaglianza di un mondo dove più del merito conti la geografia, la disuguaglianza di un Paese che s’è messo in testa di punire i fragili, perché non rallentino i potenti e i prepotenti, che spesso sono le stesse persone. Non riesco mica a trovare le parole per dirgli, sul cosa ho fatto io, che il buonsenso a volte nella storia diventa fuorimoda ed è un fardello che costa, a portarselo in giro. Chissà come gli racconto che anche essere buoni, è stato considerato un vizio.

VOCE 2: Nina è mia figlia. Ha cinque anni. Scrive lettere strane, di cui non sempre capisce il significato, e parla molto, ma penso che non abbia preso dal papà. Ora, l’esperimento che vi propongo per i prossimi tempi è il seguente. Immaginate il futuro dei vostri figli. Quando saranno maggiorenni. Per me è facile. Sarà il 2030. Quando saranno grandi, quando potranno votare, quando potranno candidarsi, che quando l’ho detto il giorno dopo De Luca ha candidato suo figlio, per dire che bisogna stare attenti. Nel 2030 si saprà se qualcuno avrà fatto qualcosa per i cambiamenti climatici, altrimenti Nina avrà forse freddo in Europa, mentre molti bambini con i loro genitori scapperanno dalle zone desertificate. E cercheranno riparo da Nina. E a loro, invece della macchina, regaleremo una scialuppa. Nel 2030 si saprà se avremo fatto qualcosa per chi è più povero, altrimenti Nina andrà a scuola e all’università, mentre altre e altri, brave e bravi come lei e più di lei, non potranno permetterselo. Nel 2030 si saprà se una donna sarà ancora più libera, da tutti gli integralismi, dai fanatismi che sono un po’ da tutte le parti, dal machismo e dai maschi che ancora spiegano alle donne come devono comportarsi. Vestirsi. Vivere. E le pagano meno dei maschi. E lasciano loro la cura familiare. Delle nine e degli anziani.

VOCE 1: Chissà come mi guarderanno, da grandi, quando gli dirò che ho provato a occuparmi degli sconfitti, che mi appassionano infinitamente di più i fragili piuttosto che quelli che sono disposti a camminare sulla propria etica pur di riuscire a competere. Nel 2030 chissà come mi guarderanno mentre gli racconto che siamo andati in giro per teatri, tra panchine di cartone, quinte e le valigie stropicciate, le valigie da tournée, a raccontare la speranza di essere tutti uguali. Chissà come mi guarderanno. Che magari, lo spero, mi diranno “ma davvero?” con la faccia di chi non riesce nemmeno a immaginare abbia sbandato così in basso. Chissà se non ci accuseranno di essere stati deboli, indifferenti o peggio codardi a non urlare il nostro sdegno. Chissà se riusciremo a convincerli che ci abbiamo provato dappertutto, in tutti i modi, a raccontare che l’alternativa non solo c’è ma è anche possibile. Anche per teatri, siamo andati.

VOCE 2: Nina vivrà con un sacco di amici che vengono da tutte le parti del mondo. Altri saranno nati in Italia: chissà se allora saranno considerati italiani o se si perderanno altre legislature, come questa. Nina avrà molta tecnologia a disposizione, del resto già usa Lopad – come lo chiama – molto meglio di me. Quella tecnologia renderà la vita più semplice, ma sarà accessibile a tutti? E se sostituirà il lavoro degli umani, ci sarà lavoro per Nina e per i suoi amici? E se si ridurrà il lavoro, come la metteranno Nina e i suoi compagni con il reddito? E avremo consumato altro suolo? E avremo fatto tesoro del risparmio e dell’efficienza energetici? Ecco, personalmente alle elezioni candido Nina. E spero che voi facciate lo stesso con i vostri piccoli. Che non possono votare. Ma sono gli elettori più importanti. Gli unici elettori che contano davvero.

Tratto dallo spettacolo “Sono tutti uguali” di Giulio Cavalli e Giuseppe Civati

Buon venerdì.

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Carole Cadwalladr inchioda Facebook

Il giorno dopo il voto sulla Brexit, quando la Gran Bretagna si è svegliata con lo choc di scoprire che stavamo davvero lasciando l’Unione Europea, il mio direttore al quotidiano Observer, mi ha chiesto di tornare nel Galles meridionale, dove sono cresciuta, e scrivere un reportage. E così sono arrivata in una città chiamata Ebbw Vale.

Eccola (mostra la cartina geografica). È nelle valli del Galles meridionale, che è un posto abbastanza speciale. Aveva questa sorta di cultura di classe operaia benestante, ed è celebre per i cori di  voci maschili gallesi, il rugby e il carbone. Ma quando ero adolescente, le miniere di carbone e le fabbriche di acciaio chiusero, e l’intera area ne è rimasta devastata. Ci sono tornata perché al referendum della Brexit era stata una delle circoscrizioni elettorali con la più alta percentuale di voti per il “Leave”. Sessantadue per cento delle persone qui hanno votato per lasciare l’Unione Europea. E io volevo capire perché.

Quando sono arrivata sono rimasta subito sorpresa perché l’ultima volta che era stata ad Ebbw Vale era così (mostra la foto di una fabbrica chiusa). E ora è così. (mostra altre foto). Questo è un nuovissimo college da 33 milioni di sterline che è stato in gran parte finanziato dall’Unione Europea. E questo nuovo centro sportivo fa parte di un progetto di rigenerazione urbana da 350 milioni di sterline, finanziato dall’Unione Europea. E poi c’è questo tratto stradale da 77 milioni di sterline, e una nuova linea ferroviaria e una nuova stazione, tutti progetti finanziati dall’Unione Europea. E non è che la cosa sia segreta. Perché ci sono grossi cartelli ovunque a ricordare gli investimenti della UE in Galles.

Camminando per la città, ho avvertito una strana sensazione di irrealtà. E me ne sono davvero resa conto quando ho incontrato un giovane davanti al centro sportivo che mi ha detto di aver votato per il Leave, perché l’Unione Europea non aveva fatto nulla per lui. E ne aveva abbastanza di questa situazione. E in tutta la città le persone mi dicevano la stessa cosa. Mi dicevano che volevano riprendere il controllo, che poi era uno degli slogan della campagna per la Brexit. E mi dicevano che non ne potevano più di immigranti e rifugiati. Erano stufi.

Il che era abbastanza strano. Perché camminando per la città, non ho incontrato un solo immigrato o rifugiato. Ho incontrato una signora polacca che mi ha detto di essere l’unica straniera in paese. E quando ho controllato le statistiche, ho scoperto che Ebbw Vale ha uno dei più bassi tassi di immigrazione del Galles. E quindi ero un po’ confusa, perché non riuscivo a capire da dove le persone avessero preso le informazioni su questo tema. Anche perché erano i tabloid di destra a sostenere questa tesi, ma questo è una roccaforte elettorale della sinistra laburista.

Ma poi, quando è uscito il mio articolo, questa donna mi ha contattato. Mi ha detto di abitare a Ebbw Vale e mi ha detto di tutto quella roba che aveva visto su Facebook durante la campagna elettorale. Io le ho chiesto, quale roba? E lei mi ha parlato di roba che faceva paura, sull’immigrazione in generale, e in particolare sulla Turchia. Allora ho provato a indagare, ma non ho trovato nulla. Perché su Facebook non ci sono archivi degli annunci pubblicitari o di quello ciascuno di noi ha visto sul proprio “news feed”. Non c’è traccia di nulla, buio assoluto.

Questo referendum avrà un profondo effetto per sempre sulla Gran Bretagna, lo sta già avendo: i produttori di auto giapponesi che vennero in Galles e nel nord est offrendo un lavoro a coloro che lo avevano perduto con la chiusura delle miniere di carbone, se ne sono già andati a causa della Brexit. Ebbene, l’intero referendum si è svolto nel buio più assoluto perché si è svolto su Facebook. E quello che accade su Facebook resta su Facebook. Perché soltanto tu sai cosa c’era sul tuo news feed, e poi sparisce per sempre, ma così è impossibile fare qualunque tipo di ricerca. Così non abbiamo idea di quali annunci ci siano stati, di quale impatto hanno avuto, o di quali dati personali sono stati usati per profilare i destinatari dei messaggi. O anche solo chi li ha pagati, quanti soldi ha investito, e nemmeno di quale nazionalità fossero questi investitori.

Noi non lo possiamo sapere ma Facebook lo sa. Facebook ha tutte queste risposte e si rifiuta di condividerle. Il nostro Parlamento ha chiesto numerose volte a Mark Zuckerberg di venire nel Regno Unito e darci le risposte che cerchiamo. Ed ogni volta, lui si è rifiutato. Dovete chiedervi perché. Perché io e altri giornalisti abbiamo scoperto che molti reati sono stati compiuti durante il referendum. E sono stati fatti su Facebook.

Questo è accaduto perché nel Regno Unito noi abbiamo un limite ai soldi che puoi spendere in campagna elettorale. Esiste perché nel diciannovesimo secolo le persone andavano in giro con letteralmente carriole cariche di soldi per comprarsi i voti. Per questo venne votata una legge che lo vieta e mette dei limiti. Ma questa legge non funziona più. La campagna elettorale del referendum infatti si è svolto soprattutto online. E tu puoi spendere qualunque cifra su Facebook, Google o YouTube e nessuno lo saprà mai, perché queste aziende sono scatole nere. Ed è esattamente quello che è accaduto.

Noi non abbiamo idea delle dimensioni, ma sappiamo con certezza che nei giorni immediatamente precedenti il voto, la campagna ufficiale per il Leave ha riciclato quasi 750 mila sterline attraverso un’altra entità che la commissione elettorale aveva giudicato illegale, e questo sta nei referti della polizia. E con questi soldi illegali, “Vote Leave” ha scaricato una tempesta di disinformazione. Con annunci come questi (si vede un annuncio che dice che 76 milioni di turchi stanno per entrare nell’Unione Europea). E questa è una menzogna. Una menzogna assoluta. La Turchia non sta per entrare nell’Unione Europea. Non c’è nemmeno una discussione in corso nella UE. E la gran parte di noi, non ha mai visto questi annunci perché non eravamo il target scelto. E l’unico motivo per cui possiamo vederli oggi è perché il Parlamento ha costretto Facebook a darceli.

Forse a questo punto potreste pensare, “in fondo parliamo soltanto di un po’ di soldi spesi in più, e di qualche bugia”. Ma questa è stata la più grande frode elettorale del Regno Unito degli ultimi cento anni. Un voto che ha cambiato le sorti di una generazioni deciso dall’uno per cento dell’elettorato. E questo è soltanto uno dei reati che ci sono stati in occasione del referendum.

C’era un altro gruppo, che era guidato da quest’uomo (mostra una foto), Nigel Farage, quello alla sua destra è Trump. E anche questo gruppo, “Leave EU”, ha infranto la legge. Ha violato le norme elettorali e quelle sulla gestione dei dati personali, e anche queste cose sono nei referti della polizia. Quest’altro uomo (sempre nella stessa foto), è Arron Banks, è quello che ha finanziato la loro campagna. E in una vicenda completamente separata, è stato segnalato alla nostra Agenzia Nazionale Anticrimine, l’equivalente del FBI, perché la commissione elettorale ha concluso che era impossibile sapere da dove venissero i suoi soldi. E anche solo se la provenienza fosse britannica. E non entro neppure nella discussione sulle menzogne che Arron Banks ha detto a proposito dei suoi rapporti segreti con il governo russo. O la bizzarra tempestività degli incontri di Nigel Farage con Julian Assange e il sodale di Trump, Roger Stone, ora incriminato, subito prima dei due massicci rilasci di informazioni riservate da parte di Wikileaks, entrambi favorevoli a Donald Trump. Ma quello che posso dirvi è che la Brexit e l’elezione di Trump sono strettamente legati. Ci sono dietro le stesse persone, le stesse aziende, gli stessi dati, le stesse tecniche, lo stesso utilizzo dell’odio e della paura.

Questo è quello che postavano su Facebook. E non riesco neanche a chiamarlo menzogna perché ci vedo piuttosto il reato di instillare l’odio (si vede un post con scritto “l’immigrazione senza assimilazione equivale a un’invasione”).

Non ho bisogno di dirvi che odio e paura sono stati seminati in rete in tutto il mondo. Non solo nel Regno Unito e in America, ma in Francia, Ungheria, Brasile, Myanmar e Nuova Zelanda. E sappiamo che c’è come una forza oscura che ci collega tutti globalmente. E che viaggia sulle piattaforme tecnologiche. Ma di tutto questo noi vediamo solo una piccola parte superficiale.

Io ho potuto scoprire qualcosa solo perché ho iniziato a indagare sui rapporti fra Trump e Farage, e su una società chiamata Cambridge Analytica. E ho passato mesi per rintracciare un ex dipendente, Christopher Wiley. E lui mi ha rivelato che questa società, che aveva lavorato sia per Trump che per la Brexit, aveva profilato politicamente le persone per capire le paure di ciascuno di loro, per meglio indirizzare dei post pubblicitari su Facebook. E lo ha fatto ottenendo illecitamente i profili di 87 milioni di utenti Facebook. C’è voluto un intero anno per convincere Christopher a uscire allo scoperto. E nel frattempo mi sono dovuta trasformare da reporter che raccontava storie a giornalista investigativa. E lui è stato straordinariamente coraggioso, perché Cambridge Analytyca è di proprietà di Robert Mercer, il miliardario che ha finanziato Trump, e che ci ha minacciato moltissime volte per impedire che pubblicassimo tutta la storia. Ma alla fine lo abbiamo fatto lo stesso.

E quando eravamo al giorno prima della pubblicazione abbiamo ricevuto un’altra diffida legale. Non da Cambridge Analytica stavolta. Ma da Facebook. Ci hanno detto che se avessimo pubblicato la storia, ci avrebbero fatto causa. E noi l’abbiamo pubblicata.

Facebook, stavate dalla parte sbagliata della storia in questa vicenda. E lo siete quando vi rifiutate di dare le risposte che ci servono. Ed è per questo che sono qui. Per rivolgermi a voi direttamente, dei della Silicon Valley… Mark Zuckerberg…. E Sheryl Sandberg, e Larry Page e Sergey Brin e Jack Dorsey, ma mi rivolgo anche ai vostri dipendenti e ai vostri investitori. Cento anni fa il più grande pericolo nelle miniere di carbone del Galles meridionale era il gas. Silenzioso, mortale e invisibile. Per questo facevano entrare prima i canarini, per controllare l’aria. In questo esperimento globale e di massa che stiamo tutti vivendo con i social network, noi britannici siamo i canarini. Noi siamo la prova di quello che accade in una democrazia occidentale quando secoli di norme elettorali vengono spazzate via dalla tecnologia.

La nostra democrazia è in crisi, le nostre leggi non funzionano più, e non sono io a dirlo, è un report del nostro parlamento ad affermarlo. Questa tecnologia che avete inventato è meravigliosa. Ma ora è diventata la scena di un delitto. E voi ne avete le prove. E non basta ripetere che in futuro farete di più per proteggerci. Perché per avere una ragionevole speranza che non accada di nuovo, dobbiamo sapere la verità.

Magari adesso pensate, “beh, parliamo solo di alcuni post pubblicitari, le persone sono più furbe di così, no?”. Se lo faceste vi risponderei: “Buona fortuna, allora”. Perché il referendum sulla Brexit dimostra che la democrazia liberale non funziona più. E voi l’avete messa fuori uso. Questa non è più democrazia – diffondere bugie anonime, pagate con denaro illegale, dio sa proveniente da dove. Questa si chiama “sovversione”, e voi ne siete gli strumenti.

Il nostro Parlamento è stato il primo del mondo a provare a chiamarvi a rispondere delle vostre azioni, ma ha fallito. Voi siete letteralmente fuori dalla portata delle nostre leggi. Non solo quelle britanniche, in questa foto nove parlamenti, nove Stati, sono rappresentati, e Mark Zuckerberg si è rifiutato di venire a rispondere alle loro domande.

Quello che sembrate ignorare è che questo storia è più grande di voi. È più grande di ciascuno di noi. E non riguarda la destra o la sinistra, il Leave o il Remain, Trump o no. Riguarda il fatto se sia possibile avere ancora elezioni libere e corrette. Perché, stando così le cose, io penso di no.

E così la mia domanda per voi oggi è: è questo quello che volete? È così che volete che la storia si ricordi di voi? Come le ancelle dell’autoritarismo che sta crescendo in tutto il mondo? Perché voi siete arrivati per connettere le persone. E vi rifiutate di riconoscere che la vostra tecnologia ci sta dividendo.

La mia domanda per tutti gli altri è: è questo che vogliamo? Che la facciano franca mentre noi ci sediamo per giocare con i nostri telefonini, mentre avanza il buio?

La storia delle valli del Galles meridionale è la storia di una battaglia per i diritti. E quello che è accaduto adesso non è semplicemente un incidente, è un punto di svolta. La democrazia non è scontata. E non è inevitabile. E dobbiamo combattere, dobbiamo vincere e non possiamo permettere che queste aziende tecnologiche abbiano un tale potere senza controlli. Dipende da noi: voi, me, tutti noi. Noi siamo quelli che dobbiamo riprendere il controllo.

La lettera di un imprenditore suicida

Davvero, non c’è bisogno di aggiungere altro. Riccardo Morpurgo amava tre cose su tutto: sua moglie, la sua famiglia e i suoi operai. Era presidente di una Srl di Senigallia proprietaria delle ex colonie Enel, un cantiere che è rimasto fermo per dieci anni sul lungomare. È stato strozzato dalle banche che, qui da noi, ancora, decidono se una ditta ha la dignità di rimanere in piedi o di fallire. Mentre loro non falliscono mai, le banche, così leggere nel prendere decisioni con i propri clienti eppure così puntuali quando c’è da accontentare quando c’è qualche socio importante o qualche amico che conta. Morpurgo ha provato a ritirare su il suo lavoro con il lavoro, ma in questo Paese il lavoro non basta se non hai qualche santo in paradiso, seduto su qualche poltrona da classe dirigente,  E poi non ce l’ha fatta più. E si è tolto la vita scrivendo questa lettera:

«Una crudele, sfinente ed umiliante alternanza tra illusione e repentina disillusione, tra fiduciosa, e finalmente luminosa, speranza ed immediata cocente delusione, e così per anni, in attesa di una positività alla quale non credo più. […] Quando, ad una precisa domanda, ho risposto “ Mi spiace, ma non so più cosa fare”, ho letto nei suoi occhi un lampo di terrore e nelle sue parole “Ma come, ingegnere, tu, che sei la nostra speranza” lo sconforto assoluto.
Ho capito in quel momento che bisognava reagire: ed ho reagito, progettato, relazionato, mi sono umiliato sin dove non avrei mai creduto di dovere, potere e sapere fare, ancora progettato, ancora relazionato, ancora umiliato, ho sinanco ipotecato il futuro mio e della mia famiglia, ed inutilmente ho ancora proposto ciò che avrebbe positivamente risolto, solo lo si fosse voluto, e che ora, forse ma tardivamente, si dirà: GIUSTO!
[…] Con il tragico, e certo insensato, gesto, spero finalmente di riuscire a risvegliare coscienze intorpidite ed animi accecati: mi rivolgo dunque ai responsabili, assolutamente irresponsabili, degli istituti di credito, ma anche ai pubblici Amministratori ed a chi, abusando del suo infimo potere, si arroga il diritto, tralignando la verità, di divertirsi giocando con la necessità, le ansie, le emozioni del prossimo, senza capacitarsi (FORSE) che il suo divertimento può essere recepito tragicamente da chi lo subisce, ed ancora a coloro che subiscono questa iniqua situazione avvolti nella loro assordante apatia ed indifferenza o, peggio, a coloro che la aggravano con la loro cinica e supponente cupidigia».

Davvero, non c’è bisogno di aggiungere altro.

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Cambiare metodo

Dicono che non funzioni, cambiare il metodo con cui si sta cercando di combattere i populisti sovranisti. Ci dicono che siano irrefrenabili nella cavalcata verso le europee e intanto si spremono per raccontarli brutti, sporchi e cattivi. Il messaggio politico è sostanzialmente questo: votate noi perché siamo meno peggio di loro. Come se non sapessero che la politica del meno peggio porta sempre al peggio, è matematico. Così come inseguire la destra farà vincere sempre la destra. E così l’alternativa, spesso, si riduce al promettere che non ci saranno più quelli come se fosse davvero un messaggio politicamente interessante, degno di attenzione e di voti e soprattutto come se davvero si possa intravedere un progetto diverso di Paese dietro tutta questa banalità.

In Slovacchia, non so se ve lo siete perso, ha vinto le elezioni, a sorpresa, Zuzana Caputova, una donna che nel 2016 ha vinto il Goldman Environmental Prize 2016, il Nobel per l’ambiente, per dire. Una donna senza mezze misure ma con idee talmente chiare da non avere nessun bisogno di alzare la voce o di lasciarsi andare a fanfaronate di sorta. Caputova ha iniziato a fare la politica, quella vera, che si occupa dei propri spazi, partendo dalla città in cui viveva, Pezinok nella Slovacchia occidentale, dove ha impedito la costruzione di una nuova discarica non solo con le sue doti da avvocatessa ma mettendo insieme giornalisti, artisti, cittadini, produttori di vino con concerti, mostre fotografiche e manifestazioni pacifiche. Ha trovato la sintesi di diversi bisogni governandoli per ottenere un risultato. Se non è politica questa.

Sono quelli che spesso i giornalisti con una certa superficialità chiamano rivoluzione gentile e che invece dimostra come l’ambientalismo (e le donne) siano il futuro di una politica capace di cambiare metodo, di utilizzare un vocabolario nuovo non solo nelle parole ma anche, e soprattutto, in una visione del mondo. «In nome della correttezza, del diritto, di ogni vero valore cristiano, anche verso gli Lgbt e i migranti. Io mi batto per la gente stanca delle ingiustizie, per i citoyens, i cittadini coraggiosi decisi a dire basta a ogni strapotere e a ogni ingiustizia e abuso, per i cittadini scesi in piazza in una mobilitazione senza precedenti protestando contro l’orribile assassinio del giornalista Jan Kuciak e della sua fidanzata. Io sono qui per tentare di incarnare il cambiamento, l’alternativa, e dare voce al cambiamento, per aiutare i cittadini a costruire una Slovacchia dignitosa Stato di diritto, una democrazia dove dominerà la gentilezza e correttezza nel confronto politico», ha detto Zuzana. E quasi viene voglia di riaccendere la speranza.

Buon mercoledì.

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Lo Stato che s’è dimenticato un (altro) pezzo di Stato

Linosa è bellissima. Andateci. Non adesso però. Perché ora Linosa è ferma. Ferma proprio nel senso di ferma, immobile, ferme le auto, i motorini, a singhiozzo al massimo qualche mezzo di soccorso, ferme le barche (e sì, per un’isola è un problema).  Fermi tutti. Manca la benzina. Nel 2019 in Italia, a Linosa, manca la benzina da Natale. Babbo Natale ha portato in dono lo scenario apocalittico che leggiamo in giro. Sembra una cosa incredibile vero? E infatti è incredibile, e disgustosa.

L’unico benzinaio è fuori uso, il pezzo di ricambio che serve non arriva, e in un’isola di 500 abitanti che sta circa a 160 km dalle coste ci si sente isola per davvero con questo problema. Tagliati fuori dal mondo. Hanno provato a interpellare tutti, ma proprio tutti. Niente. Nessuno si muove. Hanno anche restituito le tessere elettorali perché se al posto di togliere le accise togli proprio la benzina forse c’è anche un problema politico. Niente.

«All’inizio – racconta Cristina Errera – ci è stato detto che mancavano delle autorizzazioni, questioni meramente burocratiche. E invece pochi giorni fa ci è stata comunicata una novità: manca un pezzo di una pompa, pezzo che deve essere inviato dall’Italia a Lampedusa e da qui a Linosa. Se tutto va bene ci aspettano ancora 15 giorni di disagi», si legge sul Corriere.

Una soluzione c’è: farsi cinque ore di nave (cinque ore di nave) per andarsi a pendere la benzina che serve per portare i figli a scuola.

C’è un passaggio nella lettera che hanno scritto al presidente della Repubblica che merita una lettura:

«Essere un’isola lontana è difficile. Comporta una necessaria dipendenza dai collegamenti navali. Qualche nodo di vento inverso può bastare a segnare la differenza tra isolani e isolati. Fare i conti con l’attuale questione trasporti a Linosa vuol dire non essere liberi di programmare le proprie vite. Vi sembra possibile? Siamo stanchi di questi viaggi della speranza. Per questo vorremmo chiedervi di intervenire sui trasporti, in quanto ne va della nostra sopravvivenza. La guardia medica è l’unico presidio medico presente sull’isola. In un posto come questo servirebbe un piccolo pronto soccorso, di medici capaci di prestare le prime cure. Invece siamo costretti a considerare normale che un padre provveda a suturare la ferita della propria figlia».

Buon giovedì.

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