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Spettacoli

Mafie Maschere E Cornuti: la recensione di Diego Mesi

(fonte)

Ridere per non avere paura, per infrangere gli specchi dell’autorappresentazione. Ridere per contestare, per mettere in discussione un sistema di potere – più o meno legittimo – e indurre alla riflessione lo spettatore, chiamarlo in causa partendo dalla coscienza. Come un giullare moderno, l’attore Giulio Cavalli ha coinvolto e conquistato la platea cremasca con Mafie maschere e cornuti, in scena venerdì 16 marzo al san Domenico di Crema.

Ridere, antiracket culturale
Doppia replica per il pubblico cremasco: la mattina dedicata alle scuole, la sera per tutti gli interessati. Più che uno spettacolo, un’analisi collettiva per provare a comprendere il fenomeno della criminalità organizzata attraverso i volti e i nomi che ne hanno costituito la narrazione, fino ai giorni nostri. Cavalli scardina icone e stereotipi giocando la carta della comicità, “perché ridere di mafia è un antiracket culturale. E le mafie, come tutte le cose terribilmente serie, meritano di essere derise”.

Verso il 21 marzo
L’evento promosso dal presidio Libera Cremasco in collaborazione con la Pro Loco, il Comune e il Comitato per la promozione dei principi costituzionali conclude la rassegna Cento passi verso il 21 marzo. Il prossimo appuntamento sarà proprio la giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie. Mercoledì 21 marzo alle 18.30 Libera sarà in piazza Duomo per leggere i nomi di chi ha perso la vita per mano della criminalità organizzata, da nord a sud.

Non credetegli. Mai. Il mare non uccide. Le persone uccidono.

Non credetegli. Mai. Il mare non uccide. Le persone uccidono. Anche l’indifferenza uccide, sì, anche quella: i morti per indifferenza li riconosci perché quando muoiono se gli apri gli occhi, con le dita, come si aprono due lembi, dentro ci trovi la pupilla di chi l’aveva capito da tempo che sarebbe finita così. Non sono mica come i morti improvvisi, quelli con lo sguardo interrotto che non ha nemmeno fatto in tempo di stringersi per il buio che gli veniva addosso: se avessero un minuto, un minuto ancora, un minuto di quelli che un minuto prima di andarsene uno torna e dice – ah! Scusa, un’ultima cosa – se avessero avuto quel minuto lì ve l’avrebbero raccontato anche loro che il mare, il mare non uccide. Uccide trascinarsi per il deserto come una mandria zoppa in balìa di pastori a forma di soldati; uccide farsi porto a forza di pregarne uno e provare a farsi legno per non bollire di sole e sale; uccide nascere dalla parte sbagliata del mondo, come una mela che casca dalla parte del dirupo; uccide l’indifferenza. Sì, l’indifferenza uccide, eccome se uccide. Ci sono più morti di indifferenza della somma di tutte le guerre mondiali, anche delle guerre dei tempi passati. Solo che i morti di indifferenza muoiono che non se ne accorge nessuno. Si spengono come lampadine di una strada deserta in cui non passa nessuno.
Il vicolo deserto in cui non passa nessuno, trattato come un sacco dell’umido da chiudere stretto senza nemmeno guardarci dentro, per non rovinarsi l’appetito, è la Libia di cui tutti parlano e nessuno legge, la Libia che è diventata la discarica dei nostri errori e dei nostri orrori. E invece lì dentro ci sono storie che vanno prese a piene mani e portate in giro. Con pazienza, cura. Come quando si cambia una lampadina, appunto.

(dal mio spettacolo “A casa loro”, scritto insieme a Nello Scavo, che è uno spettacolo teatrale ma forse sarebbe il caso che fosse un bigino da tenersi in tasca durante questa brutta campagna elettorale. Buon venerdì:)

“A casa loro”. Un assaggio.

Scrivevo giusto qualche giorno fa, a proposito della mia candidatura, che il programma politico in fondo è in tutto quello che faccio. Qualche giorno fa con Gino Strada a Casa Emergency ho avuto l’onore di presentare in anteprima alcuni passaggi del mio nuovo spettacolo “A casa loro” che ho scritto con il prezioso aiuto di Nello Scavo.

La registrazione non è un granché ma dentro ci trovate molto di quello che dico, che ho da dire, che voglio dire. Se ne avete voglia è qui:

«Sono tutti uguali!» è un auspicio (ma anche uno spettacolo teatrale)

Alla fine ci siamo convinti. Ci siamo detti che uno spettacolo politico (al di là delle legittime posizioni di ognuno) fosse un’occasione troppo importante per lasciar perdere e così ci siamo messi, penne in mano, a raccontare quanto sia falso che “non c’è alternativa” e quanto bisognerebbe avere memoria per avere il vocabolario per leggere il presente.

Così “Sono tutti uguali” si è fatto spettacolo ed è pronto per partire: il 23 gennaio ci vediamo al Teatro Verdi a Milano, alle 21, per  una prima faticosissima ma che ci dà soddisfazione (a proposito, potete prenotarvi mandando una mail a info@bottegadeimestieriteatrali oppure attraverso l’evento Everbrite qui oppure direttamente su Facebook qui). Se avete voglia di “preacquistare” il vostro biglietto e invece volete contribuire anche alla produzione dello spettacolo potete andare qui nella nostra pagina del crowdfunding. Lo spettacolo (pensavo non ci fosse bisogno di dirlo ma lo dico) è completamente autoprodotto e autofinanziato e ovviamente anche le date organizzate dipendono tutte dalle nostre forze: per questo il crowdfunding è importante.

Perché l’abbiamo scritto questo spettacolo? Le risposte le trovate tutte nella nostra scheda:

“Uno spettacolo politico, sì, perché c’è bisogno come l’aria di teatro e di politica e perché forse nel tempo della comunicazione troppo facile e troppo veloce è davvero il caso di prendersi un palco, fare buio in sala e provare a raccontare quello che siamo stati, quello che siamo ma soprattutto quello che vorremmo essere. Per anni, facendo teatro, mi sono sentito dire che il mio teatro (“civile”, no? Lo chiamano così) era troppo politicizzato, detto con la faccia schizzinosa di chi s’è arreso a credere che la contemporaneità sia un fastidio che non deve irrompere sui palchi: questo spettacolo è politicizzato e tutto politico. In nome della caduta delle ideologie si è voluto, in questi anni, stropicciare anche le idee e l’eredità della storia come se fossero un souvenir di bigiotteria; e allora cosa c’è di meglio del teatro per provare a rimettere le cose in ordine?” (Giulio Cavalli)

«Sono tutti uguali» è un refrain molto popolare. Eppure dovrebbe avere tutt’altro significato: da corrivo slogan contro i politici (tutti quanti) dovrebbe tornare a essere espressione rivoluzionaria, costituzionalissima, potente. Con Giulio abbiamo pensato fosse possibile e lo abbiamo messo in scena, prendendo dichiaratamente le distanze da qualche ‘retroscena’ che distrae di solito l’attenzione del pubblico. (Giuseppe Civati)

Ci si vede in teatro.

SondaLife recensisce lo spettacolo Mafie Maschere e Cornuti

(fonte)

 

(Visto il 28 novembre 2017 al Teatro della Cooperativa)

Di e con Giulio Cavalli

UNA RISATA CHE SBRICIOLA

 

Il Teatro Cooperativa prosegue, con la giullarata antimafiosa Mafie, maschere e cornuti di e con Giulio Cavalli, nel presentare pièces di solido teatro civile.

Giulio Cavalli, attore e autore teatrale da tempo minacciato, e quindi protetto dalle forze dell’ordine, per la sua attività antimafia, è giullare dell’oggi e senza l’ausilio di costumi e scenografie recupera proprio dalla tradizione giullaresca, rinverdita e rinvigorita negli ultimi decenni del XX secolo da Dario Fo, uno dei modi cardini del teatro popolare: porre alla berlina i potenti con lazzi e sberleffi per smitizzare tutto quello che ”ci fanno credere invincibile ed invece non lo è”. Lavorando soprattutto sulla parola Cavalli, che è fermamente convinto, a ragione, che la parola contro la mafia funziona, propone un teatro diretto che dà fastidio. Nomi, cognomi, fatti e fattacci, aneddoti snocciolati uno dietro l’altro proposti con irriverente ironia che fanno ridere ma inchiodano lo spettatore a riflettere.

Tutto lo spettacolo gira attorno a una potente considerazione di Mark Twain, citata da Cavalli durante lo spettacolo: “Non bisogna avere paura di ciò che non si conosce ma bisogna temere ciò che crediamo vero e invece non lo è”. Figure/figuri, da Riina a Provenzano, ai loro epigoni e uomini della politica e della finanza contigui alla mafia, sono sbriciolati attraverso il suscitare risate. Anche una risata fa male ai potenti o ritenuti tali.

Lo spettacolo si conclude con un finto e sollecitato bis dedicato alla figura poco nota ai più, scrivente compreso, dimenticata, e ancora da chiarire, di Bruno Caccia, magistrato ucciso a Torino nel 1983 nell’attimo di libertà, allontanata la scorta, in cui passeggiava col cane. A ragione Cavalli propone questo ricordo staccato dal resto del corpo della giullarata proponendo un momento intenso, quasi lirico, di teatro tout court.

Affianca Giulio Cavalli il bravo fisarmonicista Guido Baldoni in realtà sottoutilizzato in uno spettacolo, che forse ha bisogno di qualche limatura, ma che è da non perdere.

Mafie, maschere e cornuti rimarrà in scena al Teatro della Cooperativa fino al 6 dicembre.

 

(Adelio Rigamonti)

“Il loro coraggio è una lanterna che illumina la mia vergogna.”

(Ecco, leggetevi il post di Scott Rosenberg, uno sceneggiatore che ha lavorato a lungo al fianco di Harvey Weinstein.  Leggetelo con attenzione)

 

Allora, beh, insomma.

Dobbiamo parlare di Harvey.

Io c’ero, per un bel pezzo.

Da, boh, dal 1994 ai primi anni 2000?

Qualcosa del genere.

Di sicuro l’Età dell’Oro.

Gli anni di PULP FICTION, SHAKESPEARE IN LOVE, CLERKS, SWINGERS, SCREAM, WILL HUNTING, IL PAZIENTE INGLESE, LA VITA È BELLA.

Harvey e Bob hanno prodotto i miei primi due film.

Poi mi hanno ingaggiato con un contratto a lungo termine.

Poi hanno comprato una mia sceneggiatura horror sulle Dieci Piaghe.

Per un sacco di soldi.

E poi hanno comprato quella mia sceneggiatura sul motociclista-mannaro.

Che non piaceva a nessun altro ma che era la mia preferita.

Avrebbero pubblicato il mio romanzo.

Mi hanno consacrato.

Hanno fatto in modo che gli altri studios pensassero che fossi the real deal (quello giusto).

Mi hanno dato la mia carriera.

Avevo a malapena 30 anni.

Ero sicuro di aver trovato l’oro.

Mi amavano, quei due fratelli, che avevano reinventato il cinema.

E che erano divertenti e tosti e se ne sbattevano il loro cazzo della East Coast di tutti quegli stronzi fighetti a Los Angeles.

E quei giorni gloriosi a Tribeca?

Quegli uffici vecchi e angusti?

La meravigliosa gang di manager e assistenti?

Tutti i registi che facevano film su film?

I fratelli volevano creare una ‘famiglia di film’.

E hanno fatto esattamente questo…

Non vedevamo l’ora di incontrarci in quel posto.

Le riunioni diventavano programmi che poi diventavano notti folli in giro per la città.

Per farla breve: Miramax era una figata.

Quindi sì, io c’ero.

E lasciatemi dire una cosa.

Lasciatemi essere perfettamente chiaro su una cosa:

TUTTI SAPEVANO, CAZZO.

Non che stuprasse.

No, quello non l’abbiamo mai saputo.

Ma sapevano una storia di comportamenti aggressivi che era piuttosto spaventosa.

Sapevamo della fame di quell’uomo; il suo fervore; il suo appetito.

Non c’era niente di segreto sulla sua rapacità vorace; come un orco insaziabile uscito dalle favole dei fratelli Grimm.

Tutto avvolto in promesse vaghe di ruoli nei film.

(e, questo deve essere detto: c’erano molte che cedevano davvero al suo fascino ingombrante. Volontariamente. Che di sicuro lo avrà solo incoraggiato a lanciare la sua rete fetida in modo ancora più ampio).

Ma come ho detto: tutti sapevano, cazzo.

E per me, se il comportamento di Harvey è la cosa più disgustosa che uno possa immaginare, al secondo posto (di poco) c’è l’attuale ondata di condanne ipocrite e smentite che si infrange su queste coste di rettitudine come una marea di virtù farlocca.

Perché tutti sapevano, cazzo.

E sapete perché sono sicuro che sia così?

Perché io c’ero.

E vi ho visto.

E ne abbiamo parlato insieme.

Voi, i grandi produttori; voi, i grandi registi; voi, i grandi agenti; voi, i grandi finanzieri.

E voi, i capi dei grandi studios rivali; voi, i grandi attori; voi, le grandi attrici; voi, le grandi modelle.

Voi, i grandi giornalisti; voi, i grandi sceneggiatori; voi, le grandi rockstar; voi, i grandi ristoratori; voi, i grandi politici.

Vi ho visti.

Tutti.

E che dio mi aiuti, io ero là con voi.

Di nuovo, ripeto, forse non conoscevamo il livello.

La magnitudine della schifezza.

Non gli stupri.

Non le donne sbattute contro un muro.

Non lo sborrare nei vasi delle piante.

Ma sapevamo qualcosa.

Sapevamo che qualcosa bolliva sotto la superficie.

Qualcosa di odioso.

Qualcosa di marcio.

Ma…

E questo è patetico quanto vero:

Che avremmo dovuto fare?

A chi avremo dovuto dirlo?

Le autorità?

Quali autorità?

La stampa?

Harvey aveva la stampa in pugno.

Internet?

Non c’era internet o qualcosa che ci somigliasse.

Avremmo dovuto chiamare la polizia?

Per dire cosa?

Avremmo dovuto rivolgerci a un immaginario procuratore generale di Movieland?

Non esiste.

Per non dire del fatto che la maggior parte delle vittime ha scelto di non parlare.

Si è limitata a condividere i dettagli sordidi con qualche amica o persona di fiducia.

E se ne avessero parlato con i loro agenti e pr?

Gli stessi agenti e pr gli avrebbero detto di tacere.

Perché chi poteva sapere le conseguenze?

Quel vecchio detto “Non lavorerai più in questa città” è tornato putridamente in vita come un cadavere rianimato in un film di zombie da seconda serata.

Ma, sì, tutti conoscevano qualcuno che aveva ricevuto le sue avances luride.

O conosceva qualcuno che conosceva qualcuno.

Qualche attrice amica mi aveva raccontato storie: di una agghiacciante riunione in hotel; di un ripugnante pisello che sguscia dall’accappatoio; di una tremenda richiesta di massaggi.

E anche se erano scosse, in qualche modo ridevano della sua arroganza; della sua temerarietà nel pensare che la sola vista della sua carne nuda e molliccia le avrebbe eccitate.

Quindi pensavo che fosse solo una grottesca esibizione di potere; un tizio che non capisce la platea che ha davanti e che ci prova come un viscido ma in fondo sfigato.

Era molto più facile crederci.

Era molto più facile per TUTTI noi crederci.

Perché…

Ed è qui che lo schifo incontra la melma:

Con Harvey abbiamo passato i momenti migliori.

Produceva i nostri film.

Organizzava le feste più pazzesche.

Ci portava ai Golden Globes!

Ci presentava le persone più incredibili (incontri con il vicepresidente Gore! In discoteca con Quentin e Uma! A bere con Salman Rushdie e Ralph Fiennes! A cena con Mick Jagger e Warren-oh mio dio-Beatty!).

I più clamorosi weekend degli Oscar.

Sembrava durassero settimane!

Sundance! Cannes! Toronto!

Telluride! Berlino! Venezia!

Jet privati! Limousine extralusso! Concerti di Springsteen!

Diamine, Harvey una volta mi ha portato sull’isola caraibica di St. Barth per Natale.

Per 12 giorni!

Ero un ragazzino di Boston con le pezze al culo che non aveva mai neanche SENTITO NOMINARE St. Barth prima che lui prenotasse il mio viaggio.

Una volta mi ha fatto trovare i biglietti per i 7 show più di successo a Broadway in una settimana. Così che potessi regalare a una nuova fidanzata un tour teatrale da far girare la testa.

Mi ha trovato posti sulla linea delle 40 yard al Super Bowl, quando i Patriots sfidavano i Packers a New Orleans.

Mi ha pure trovato una stanza d’albergo, cosa impossibile quel weekend.

Lui dava, e dava, e dava, e dava.

Aveva la generosità di un monarca vulcanico per chi era parte del suo giro.

E i suoi capos e soldati dovevano ripagarlo con una fedeltà degna di un padrino mafioso.

Ma non pensate a noi!

Pensate a tutto quello che faceva per la cultura!

Faceva film incredibilmente belli in un momento in cui tutti sfornavano scimmiottature di “Indipendence Day”.

Era glorioso.

Tutto.

Quindi che sarà mai stato se era un po’ prepotente con qualche giovane modella che aveva smosso le montagne pur di entrare a una delle sue feste?

Quindi che sarà mai stato se mostrava i genitali in qualche stanza di hotel a cinque stelle, come gli esibizionisti del parco in qualche vignetta di “MAD Magazine” (basta sostituire l’accappatoio con l’impermeabile!).

Perché avremmo dovuto noi fermare il gioco?

La gallina dalle uova d’oro non capita molte volte nella vita di un uomo.

E torniamo al discorso principale:

Tutti sapevano, cazzo.

Ma tutti si stavano divertendo troppo.

E stavano facendo un gran lavoro; stavano facendo ottimi film.

Come dice la vecchia battuta:

Ci servivano le uova.

Okay, forse non ci SERVIVANO.

Ma ci PIACEVANO. Davvero, davvero, davvero molto.

Quindi eravamo pronti a ignorare quello che faceva la gallina dalle uova d’oro, nell’ombra oscura dietro al pollaio.

E per questo, sarò eternamente dispiaciuto.

A tutte le donne che hanno dovuto subire…

Mi dispiace.

Ho lavorato con Mira (Sorvino) e Rosanna (Arquette) e Lysette (Anthony).

Conosco Rose (McGowan) e Ashley (Judd) e Claire (Forlani) da anni…

Il loro coraggio è una lanterna che illumina la mia vergogna.

E mi scuserò in eterno con tutti quelli che hanno sofferto in silenzio per tutto questo tempo.

E hanno scelto di rimanere in silenzio oggi.

Ho perlopiù perso i contatti con i fratelli Weinstein all’inizio degli anni 2000.

Per nessuna ragione particolare.

Solo che c’erano altri lavori, altre case di produzione.

Ma qualche mese fa, Harvey mi ha chiamato, come un fulmine a ciel sereno.

Per parlare dei tempi andati.

Per dirmi quanto sarebbe stato bello riunire la banda.

Fare un film.

Evidentemente sapeva che il nodo scorsoio si stava stringento.

C’era una tristezza in lui che non avevo mai sentito prima.

Una malinconia.

Avevo la sensazione di uno che camminava verso il patibolo.

Quando abbiamo attaccato, mi sono chiesto: “Che cosa voleva dire?”

In poche settimane avrei capito.

Era il condannato che voleva solo smuovere un po’ delle rovine del suo vecchio regno.

Un’ultima volta.

Quindi, sì, mi dispiace.

Mi scuso, e mi vergogno.

Perché, alla fine, sono stato complice.

Non ho detto un cazzo.

Non ho fatto un cazzo.

Harvey con me è stato solo una cosa: meraviglioso.

Quindi ho incassato i benefici e ho tenuto la mia bocca chiusa.

E per quello, ancora una volta, mi scuso.

Ma anche voi dovreste scusarvi.

Con tutte queste vittime che offrono la loro voce…

Per raccontare le loro storie.

Non dovrebbero fare lo stesso quelli che hanno osservato da bordo campo?

Invece di rifugiarsi nei terreni comodi e lussuosi del falso sdegno?

Il fatto di essere testimone non porta con sé la responsabilità di dire la verità, indipendentemente da quanto possa essere vergognosa per voi?

Voi sapete chi siete.

E sapete che sapevate tutto.

E sapete come so che voi sapete?

Perché io ero lì con voi.

E perché tutti sapevano, cazzo. Everybody-fucking-knew.

Tra Bonifacio VIII e Totò Riina: Inchiostro recensisce lo spettacolo “Mafie maschere e cornuti”

 

Il giornale degli studenti di Pavia (che ringrazio) recensisce il mio spettacolo “Mafie maschere e cornuti“. Con un articolo che è uno spettacolo, appunto. Ecco qui (fonte):

 

Quando si parla di mafie, generalmente, gli atteggiamenti sono due.

Il primo cede alla commozione, memore delle vite spezzate dalla piovra del crimine organizzato, e si scaglia in rituali requisitorie contro l’ingiustizia con toni che, per quanto umanamente condivisibili e sacrosanti nella sostanza, rischiano di risultare melensi.

È, in parte, la via dello spettacolo Dieci storie proprio così, di cui già si era parlato ai tempi (http://inchiostro.unipv.it/2017/01/25/laltra-faccia-di-gomorra-dieci-storie-proprio-cosi/).

Il secondo, vantante uno spessore ben inferiore ma forse una maggiore immediatezza, si risolve in un caleidoscopio di espressioni casuali, orribilmente storpiate da palati non natii, che invogliano l’ascoltatore a «stare senza penzier» oppure a ordinare un numero pari di «frittur».

Esso, semplicemente, sospende il giudizio. Il male viene minimizzato e forse sfatato dall’influsso di un prodotto televisivo di tutto rispetto, ma l’impegno viene meno.

Mafie, Maschere e Cornuti, cosiddetta «Giullarata antimafiosa» di Giulio Cavalli (attore, giornalista, politico, fine conoscitore di pizzerie e un sacco di altre apposizioni – il tutto sotto protezione, alla Saviano), cerca una terza via.

La via del ridicolo, della smitizzazione. La via che, tramite l’irriverenza e la risata, conferisce dei volti alle eminenze grigie che si aggirano furtive dietro il velo della malavita: volti farseschi, patetici, risibili. Maschere cornute, calzanti ciabatte di plastica fuori misura con cui evitano a malapena lo sterco di capra che ricopre i loro pavimenti; esaltate al crimine organizzato da colonne sonore ispirate alle loro stesse malefatte.

È il territorio della presa in giro più feroce, rovesciamento carnevalesco di uno statusche il potente malvagio detiene nell’ombra, invisibile ma pesante come una coltre di ferro. Con un giullare Cavalli che, per quanto diverso dal modello affermato dall’imprescindibile tradizione di Dario Fo,[1] compie un lavoro egregio: mise casual, capello importante, voce secca risuonante nella nostra familiare Aula del ‘400,[2] voglia di giocare cogli spettatori e abolizione di qualunque barriera tra diegetico ed extra-diegetico, tra spettacolo effettivo e benigne frecciate al pubblico e all’organizzazione.

Un’esperienza che, come affermato dal suo stesso artefice, non è strettamente teatrale, e che dunque si mostra priva di tutti gli orpelli tradizionalmente associati al teatro. Niente scenografia, niente trovate sceniche, nessuna roboante introduzione alla Fo. Solo un giullare in borghese con il suo bagaglio di esperienze, la sua indignazione e tanta voglia di far ridere; accompagnato dalla fisarmonica espressiva del suo accompagnatore lungo varie scene ritraenti i grandi volti della mafia. Esasperati tutti, dal primo all’ultimo, nella loro ridicola umanità.

Con una nota di malinconia qua e là, impercettibile quanto poetica, per ricordarci di coloro che non hanno potuto fisicamente ridere con noi.

Speriamo vi siate comunque fatti una risata, guardandoci dall’alto.

Cazzo, sapevo che sarei andato a parare nella commozione.

Che volete farci.

Du frittur.

Ringraziamo l’UDU pavese per averci offerto questa bella occasione; oltretutto a costo zero. Siamo poi loro grati per aver fornito a Cavalli un leggio – per quanto debitamente nascosto sul palco – e persino dell’acqua a metà spettacolo (permettendo quindi la fluida continuazione dello stesso).

Insostituibili.

 

[1] Inutile e infruttuoso qualunque tentativo di trovare un aggettivo. Il più dignitoso “foiano”, nella mia ricerca priva di spunti, è infine andato degenerando in “foyer”.

[2] Per quanto, a mio parere, l’acustica non fosse delle migliori; aspetto che personalmente mi ha impedito di sentire alcune battute.

Non che sentendole avrei avuto la garanzia di capirle, ma vabbè.

Ciao Dolly

Le parole più belle le ha trovate Anna Bandettini (qui):

 

E’ stata una persona importante per il teatro e la vita culturale milanese, che il pubblico non ha conosciuto, perché lavorava dietro le quinte. Dolores Redaelli è morta giovedì sera: era stata una delle colonne del Piccolo Teatro e, in anni più recenti, della Fondazione Gaber, ma era stata anche molto di più. Perché “la Dolly”, come tutti la chiamavano, era infaticabile e una appassionata: era lei che portava al Piccolo intellettuali, scrittori, politici, era amica degli artisti, da Mariangela Melato a Lucio Dalla, era una presenza attiva nella politica cittadina, a sinistra, e , non si sa come facesse, la vedevi da Emergency, da Smemoranda, all’Anteo, alla Fondazione de Andrè, perfino al Parenti o all’Elfo.

 

Al Piccolo era entrata nel ‘64, una ragazzina che arrivava dalla Cgil e al colloquio Paolo Grassi le disse ‘Lavorerai con noi per un mese’. C’è rimasta quasi 50 anni: contribuì alla nascita del decentramento teatrale, poi con Giovanni Soresi passò all’ufficio stampa, passò per successi, dolori, gioie e misteri del teatro prima con Strehler e poi Escobar e Ronconi. Nel’71 seguì la nascita del Teatro Canzone di Gaber: la loro fu una amicizia “per sempre” e quando lui morì, collaborò alla Fondazione con Dalia Gaberschik e Paolo Dal Bon che le è stato accanto fino alla fine. Mezza Milano conosceva “la Dolly”, ma solo pochissimi sapevano del tumore al pancreas. Da vecchia lombarda, impegno quotidiano, riserbo, nessun esibizionismo era la sua regola morale, al punto che c’era il mistero sui suoi anni che ora si dice siano 78. L’ultimo saluto sarà lunedì davanti al Piccolo di via Rovello 2, alle 14.30.