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Spettacoli

Daniel Blake secondo Leonardo Tondelli

«C’è chi dice che non è cinema, Ken Loach, e in effetti può darsi. Ma certi giorni mi sembra di non avere poi così bisogno del cinema, mi sembra di avere più bisogno di Ken Loach.»

Leonardo Tondelli scrive di Daniel Blake e Ken Loach e vale proprio la pena leggerlo:

«Daniel Blake un giorno era un signore che si fece arrestare fuori da un ufficio dell’impiego. Non ce la faceva più. Dopo un infarto il medico del lavoro gli aveva proibito di lavorare. La previdenza sociale, per dargli il sussidio, pretendeva che cercasse un lavoro. Così lui andava in giro cardiopatico per le officine, lasciava il suo curriculum, e il bello è che qualche lavoro glielo offrivano pure ma lui doveva dire di no, lui non poteva lavorare. Poteva solo cercare lavoro, anzi era obbligato a farlo.

(C’è chi dice che i film di Ken Loach non sono cinema. Tanto per cominciare sono tutti a tesi, e pure la tesi è sempre quella, non potrebbe almeno cambiarla un po’? E poi è sempre tutto così appiattito, così realistico – ma senza quella fissa per i dettagli dei cineasti che hanno pretese – in una parola, così televisivo).»

(continua qui)

Quando scappa una foto

Non conosco nulla al mondo che abbia tanto potere quanto la parola. A volte ne scrivo una, e la guardo, fino a quando non comincia a splendere.
(Emily Dickinson) via Instagram http://ift.tt/2lF4TkU

Piccole notizie (e soddisfazioni) antimafiose

Scusate, sono mancato qualche giorno e qualcuno dei miei dieci lettori mi si è preoccupato ma sono stati giorni in cui è sembrato di tornare indietro di dieci anni, nel bene e nel male. Il male non lo diciamo (già, non vi diciamo più da un pezzo, non vi diamo nemmeno la soddisfazione di raccontarvi, cari guappetti) ma il bene è proprio un bel bene.

Sono tornato in scena (quanto tempo perso senza assaggiare palco) con Nomi, cognomi e infami e mi si è aperto il cuore di fronte al teatro pieno per due giorni consecutivi senza nemmeno lo spazio di uno spillo. Ogni volta, quando si chiude il sipario, ho la soddisfazione di una curiosità popolare e virale: questo spettacolo (che ha appena compiuto dieci anni) è stata una lunghissima assemblea condominiale  sulla forza della parola. Ora è tempo di svilupparlo: la nuova giullarata arriverà a breve. E ci saranno sorprese.

Sono stato a Crema, in una scuola, con i bravissimi ragazzi di Libera (quanto tempo anche che non tornavo a parlare nelle scuole) e alla fine come sempre sono io che ho imparato. Ero l’allievo che portava la propria esperienza, interrogato sul senso del fare e li ringrazio. Quanta energia c’è nelle nostre scuole.

Poi c’è la vicenda di quello scempio a forma di villaggio turistico a Capo Colonna, Crotone. Ne avevo scritto qui e i fratelli Scalise (gli imprenditori, anzi i prenditori, su quella meravigliosa zona di costa e di storia) se l’erano presa parecchio. Pippo Civati è sceso anche di persona personalmente però chiedere che il governo intervenisse e fa niente che secondo gli Scalise noi saremmo pupari in mano a qualche padrino (noi, capite, gli ho risposto qui). Alla fine dove non è arrivata la politica di governo (Franceschini in primis) è arrivata la magistratura. Forse ci avevamo visto giusto, no?

A proposito di appalti: ci ha lasciato Ivan Cicconi che agli appalti e alla legalità da rispettare negli affidamenti ha dedicato tutta la sua vita. Per me è stato un’inesauribile fonte di ispirazione averlo come “collega” nel comitato antimafia di Regione Lombardia. È un vuoto grande: tra i professionisti dell’Antimafia (nel senso altissimo del termine) lui era tra i primi. Ciao Ivan.

Toni Servillo allo spettatore in prima fila: «Abbiamo finito con questo cellulare? Qui ci sono persone vere, che lavorano»

Durante lo spettacolo “Elvira” di e con Toni Servillo, a 15 minuti dall’inizio della rappresentazione proprio Servillo si ferma, va vicino ad uno spettatore in prima fila e lo sgrida: “Abbiamo finito con questo cellulare? – dice – Qui ci sono persone vere, non è la televisione. Ricominciamo da quando Elvira entra correndo, grazie”. A raccontarlo, alla Radiazza, talk show radiofonico è uno dei presenti in sala.

Racconta La Repubblica:

“Il signore seduto in prima fila dall’inizio dello spettacolo continuava a usare il cellulare mandando messaggi, rispondendo alle chiamate e di fatto dando fastidio. La reazione di Servillo è stata educata e dopo la sgridata è scattato un mega applauso liberatorio e di consenso da parte del pubblico” .

(fonte)

Gli ultimi. E diseguali.

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Sono i protagonisti del mio prossimo spettacolo. Così. Passavo di qui e avevo pensato di dirvelo. E ve ne parlerò con calma.

Anche perché intanto sto continuando compulsivamente a scrivere e finire il mio secondo romanzo. Nascerà tra poco.

E così, insomma. Era per dire. Anzi, per dirvi.
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Grazie Dario. Però che male.

Ci sono persone che sai che sono prossime all’andarsene eppure non trovi la chiave inglese per avvitare il dolore e prepararlo al momento. Niente. Ci sono persone, nella vita, che ti mangeresti il cervello per non avergli detto una parola che avresti dovuto pronunciare: ci sono persone che forse non hai ringraziato abbastanza o che per soggezione e ebete pudicizia non gli hai detto quanto ti abbiano cambiato la visione del mondo.

Quando mi dissero che avrei potuto lavorare con lui rimasi come un bambino davanti al primo ciuffo di zucchero filato nella vita. Per chi è cresciuto studiando e indossando le maschere Dario era l’inarrivabile scellerato capace di non avere bisogno né di maschere né di orpelli: Dario era una maschera. Il piego della bocca, l’andar su e giù degli occhi, i cerchi con le mani e quel passo strascicato e truffaldino hanno aggiornato il catalogo dei giullari: Arlecchino, Zanni, Pantalone, Colombina e Dario. Dario Fo.

A casa sua c’era la storia del teatro italiano. Ho sempre pensato che se avessimo dovuto dare un forma al teatro fuori dal teatro, se avessimo dovuto disegnarlo senza palcoscenico, se dovessimo pensare al teatro che si fa casa ecco avrebbe avuto quella forma lì. Il suo salotto che sputava copioni, locandine e quadri, le pile di giornali e tutt’intorno che si faceva scena. Mi tremavano le gambe quando mi chiese di sedersi di fianco a lui. Oh, sì, quanto ci fa bene confrontarci con il mito nei momenti in cui ci riesce tutto in modo fin troppo facile. Quanto mi è servito scoprire che lui, Dario, aveva ancora quella curiosità che a noi attori di solito si spegne per accidia o per egocentrismo.

La sua, in realtà, non fu nemmeno una regia nel senso più classico del termine. Non ci perdemmo nel contare spostamenti o dare il tempo alle battute: il mio provino con Dario Fo fu la più densa chiacchierata sul senso della risata che mi capitò mai di fare. La più lunga riflessione sul sorriso come puntuta arma contro il potere che ha bisogno di fare il prepotente per riuscire a governare perché incapace di farlo secondo le regole e sulla forza catartica dello smutandamento dei prepotenti. Il riso è sacro, mi disse raccontandomi di quanto nerbo ci voglia per vigilare sul sorriso: come tutti i gesti liberatori anche ridere è guardato con sospetto da chi aspira al controllo del popolo. Dario Fo era allo stesso tempo un condottiero e una vestale: se il ridere ci è arrivato ancora così vivo e in salute lo dobbiamo a uomini come lui.

Andai in scena qualche mese dopo con il suo “Benvenuta catastrofe” al Festival del Teatro di Napoli. Dario e Franca non avevano potuto partecipare alla prima perché la malattia cominciava a intorpidire lei e lui cominciò ad aver paura di restare monco. Fui orfano per la seconda volta nella vita. Quando lo spettacolo arrivò a Milano fummo costretti a cancellare le date in programma per il ritrovamento di alcuni proiettili prima del debutto. Prepotenza, merda, teatro e parole tutte insieme: non un gran periodo per me. E come mi capitava spesso fui tentato di ammalarmi del mio cattivo spavento. Fu lui, Dario, ad aprire invece la serata “Aperti per mafia” che molti colleghi milanesi vollero mettere in piedi in fretta e furia per starmi vicino. “Hai sbagliato a non andare in scena – mi disse – il teatro è sacro e non si interrompe per niente al mondo”. Aveva ragione: avevo pensato troppo a me e vegliato troppo poco sulla risata. Chiesi scusa alla satira e a lui ché in questo Paese per anni sono stati la stessa cosa.

Ci capitò di incontrarci anni dopo per politica. Era il solito Dario ma la partenza di Franca gli aveva steso sul viso un velo di malinconia. Eppure era lì, sul palco, a gridare che il re è nudo. Comunque. Perché Dario è stato il cialtrone più professionale che abbia mai conosciuto: aveva trovato, nella vita, il mestiere in cui poter professare tutti i suoi valori. Tutti. “Noi teatranti facciamo in scena il lavoro che avremmo dovuto fare nella vita”, diceva e lui in scena era il pittore e l’architetto che avrebbe potuto essere: gli archi, i capitelli, i colori e i materiali erano impastati nella sua fantasia a betoniera che miscelava le parole. “Senza mai prendersi troppo sul serio. Mai.”

Ci sono persone che sai che sono prossime all’andarsene eppure non trovi la chiave inglese per avvitare il dolore e prepararlo al momento. Niente. Ci sono persone, nella vita, che ti mangeresti il cervello per non avergli detto una parola che avresti dovuto pronunciare: ci sono persone che forse non hai ringraziato abbastanza o che per soggezione e ebete pudicizia non gli hai detto quanto ti abbiano cambiato la visione del mondo. È che Dario, oggi, in mezzo a tutti questi salamelecchi ci prenderebbe comunque tutti per il culo perché non c’è niente di più barboso e ridondante di un elogio funebre.

Grazie, maestro. Però che male.

(scritto per Fanpage)

Apriamo noi i nostri teatri agli artisti turchi

La bella idea del Teatro Piccolo di Milano raccontata da Anna Bandettini:

“Apriamo le porte agli attori e ai registi turchi”, dicono rivolti ai teatri europei, “ospitiamo tutti i loro spettacoli”. Inoltre chiedono al Parlamento europeo una pubblica dichiarazione in difesa della libertà della cultura, come unica radice e prospettiva per l’Europa. E proprio a questi valori il Piccolo Teatro dedicherà gli appuntamenti del settantesimo compleanno, il prossimo maggio. “Alla censura di Erdogan bisogna rispondere con gesti concreti”, dichiarano Sergio Escobar e Stefano Massini, rispettivamente direttore e responsabile artistico del primo teatro pubblico italiano da dove è già partita la lettera per i teatri tedeschi, inglesi, francesi, ungheresi… raccolti nell’Ute, Unione Teatri d’Europa, e la richiesta all’Unione Europea di una condanna chiara e netta contro la decisione del governo turco di mettere al bando autori e artisti occidentali, da Shakespeare a Brecht, da Goldoni a Dario Fo fino allo stesso Massini, perchè “rischiosi” e “contrari ai valori del sentire comune”.
Sono queste le inquietanti parole recapitate proprio allo scrittore e drammaturgo fiorentino. “Da mesi ero in contatto con un traduttore e agente per la messa in scena di mie opere in Turchia – racconta Massini- Erano stati individuati quattro miei testi e proposti al Teatro Nazionale turco e ad altri teatri pubblici, Lehman Trilogy sulla crisi economica del 2009, Credo in un sol odio che parla delle tensioni israelo-palestinesi , 7 minuti su questioni del lavoro e Donna non rieducabile sull’assassinio della Politovskaja. Pochi giorni fa invece ricevo una mail in inglese del mio agente, di cui preferisco non dire il nome per non metterlo nei guai, il quale mi scrive che alla luce di una nuova presa di posizione sugli autori stranieri, i teatri finanziati dallo Stato da ora in poi devono occuparsi solo ‘di autori e testi legati all’identità turca, alla lingua e ai valori locali, che preservino l’eredità e le tradizioni del popolo turco’. E, testuali parole, per questo si declina ogni interesse per le mie opere ritenute “pericolose per l’ordine pubblico’, e ‘contrarie ai valori del sentire comune’ ”. Non solo: nella mail l’agente fotografa una situazione drammatica: “potenzialmente i teatri privati potrebbero rappresentare autori occidentali, scrive, ma in realtà hanno anche loro le mani legate” .
“Parole che fanno venire la pelle d’oca, evocano i periodi più bui del secolo scorso”, dice Escobar. E Massini: “Sono stato rappresentato in Algeria , in Marocco, ma è la prima volta che mi succede una simile cosa. Da autore mi vien da dire che ci eravamo illusi di aver lasciato alle spalle un mondo di steccati, muri, cortine di ferro. Torniamo all’autarchia dei regimi totalitari”.

(l’articolo è qui)

Aristofane e Charlie Hebdo

Galatea l’ha scritto come non si sarebbe potuto dire meglio:

«Aristofane era uno stronzo.

Non faceva satira. Almeno non sempre. Quando se la prese con Socrate, per esempio, mica se la stava prendendo con il potere. Aveva potere, Socrate? Ma quando mai. Era un filosofastro con le pezze al sedere, che manco era chiaro come campasse, forse facendosi mantenere sotto banco dai suoi discepoli, più probabilmente arraffando qua e là a scrocco ai banchetti uno spritz e i salatini.

Era un poveraccio, buffo e facile da prendere in giro, per giunta noto per essere tollerante. Uno che non avrebbe querelato, e nemmeno avrebbe mandato a casa di Aristofane qualche amico potente a minacciare. Era un poveraccio, Socrate, ma di buon carattere e inoffensivo.

Aristofane lo prese a bersaglio. Ci scrisse sopra una intera commedia, presentandolo come uno svampito intrallazzone. Fu feroce, e cattivo. Gratuitamente.»

Il suo post è qui.

Il sogno di Fausto e Iaio (e la mia lettera)

L’amico e collega Daniele Biacchessi ha prodotto questo bel film su Fausto e Iaio per esercitare memoria. Questo è l’inizio con la mia lettera scritta e letta per loro. Buona visione.

I funerali di Fausto e Iaio

dal film “Il sogno di Fausto e Iaio”
Regia di  Daniele Biacchessi
Illustrazioni con tecniche Ldp di Giulio Peranzoni 
Musiche di Gaetano Liguori
Editing di Matteo Lasi

Prenota il dvd e digital download
Info: biacchessi@gmail.com