Vai al contenuto

riforma costituzionale

Nel merito. «Andiamo a votare per una legge veramente immaginaria. Pericolosa sullo stato di guerra.»: parla il Generale Mini.

Intervista di Rossella Guadagnini al generale Fabio Mini (*)

Riforme, democrazia, governabilità e inganni. Ne parliamo con una voce fuori dal coro, un uomo che per 46 anni è stato nelle Forze Armate e oggi si definisce molto progressista. Ci racconta di una legge ‘immaginaria’ e di un Parlamento ‘defraudato’, di una maggioranza non rappresentativa del Paese e di una ‘guerra fredda interna’ all’Italia. Di spazi informativi pubblici a favore del marketing governativo e di una grande festa della dis-unità a cui, volenti o no, siamo tutti invitati.

D. Generale Fabio Mini cosa pensa delle riforme costituzionali?

R. Non sono contrario alle riforme costituzionali, ma sono nettamente contrario a questa riforma. Respingo il sillogismo che chi vota “sì” vuole un’Italia “efficiente, stabile e responsabile, e quindi capace di esercitare il suo ruolo in Europa” e chi vota No vuole “un’Italia idiosincratica ed eccentrica, eternamente prigioniera delle proprie ombre”. E’ un sillogismo apodittico che squalifica sul piano intellettuale chi lo propone e offende chi non lo condivide. E’ il primo segnale che la riforma proposta intende dividere gli italiani ed io penso invece che una Costituzione debba unire i cittadini.

D. Il fronte del No è molto variegato e ispirato da ideologie addirittura opposte: come si conciliano?

R. Personalmente, mi schiero con il No proposto da un Movimento di cittadini e non da un partito, mi riconosco negli idealisti e non negli ideologi, nelle persone responsabili che pensano al futuro dell’Italia unita e non in coloro che operano per dividerla ulteriormente e  intendono affondare la nave per assumere il comando di una scialuppa. Non condivido l’obiezione che il No sia improponibile perché voluto anche da partiti e movimenti d’ispirazione fascista, veterocomunista, populista e quant’altro, che vogliono soltanto la caduta del governo. Non condivido le loro finalità, ideologie e prassi, ma riconosco legittime e fondate alcune delle loro motivazioni. Sono infatti queste comuni motivazioni a fare del No un fronte trasversale espressione di molte anime, e non di un pensiero unico, e quindi – nel suo complesso – essenzialmente democratico.

D. Con il No cosa succederebbe al Governo ?

R. Non collego il No alla caduta del Governo. Penso che sia stata una grossa sciocchezza legare il Referendum alla sopravvivenza politica del capo del Governo: un narcisismo inopportuno che non è finito con la tardiva e strumentale ammissione dell’errore. Anzi è stato fatto qualcosa di peggio, perché tutto l’esecutivo, a partire dal suo vertice, ha riversato sull’Italia la prospettiva di fallimento e sfascio nazionale in caso di prevalenza del No, alimentando così la disunione all’interno e i sospetti d’instabilità nazionale all’esterno. Viste le conseguenze in campo internazionale e nella speculazione economica a danno dell’Italia, questa operazione, in altri tempi e Stati, sarebbe stata considerata e perseguita come “Alto tradimento”. Da noi è una “furbata”. Dopo il voto ciascuna parte politica dovrà trarre le conclusioni e agire di conseguenza, ma se il Referendum non realizza una massiccia affluenza alle urne nessuno potrà veramente cantare vittoria: avrà perso l’Italia. E il conteggio dei voti dovrà far riflettere invece di far gioire. La prevalenza risicata del “si” inasprirà ancor di più il clima politico e indurrà il Governo a irrigidirsi su posizioni non condivise. Secondo me, tutto questo porterà nel giro di breve tempo alla fine dell’esecutivo o della stessa legislatura. Se dovesse prevalere il No, tecnicamente sarebbe soltanto il rinvio della Riforma e con questo Parlamento il Governo potrebbe restare in carica fino al termine di legislatura. Ma gli equilibri politici sarebbero mutati e il Governo non potrebbe imporsi sul Parlamento come ora. Non è detto che questo sia necessariamente un male. Inoltre, se oggi il No di altri gruppi tende solo allo sfascio del Governo bisogna riflettere sulle ragioni e le responsabilità di tale atteggiamento. In questi ultimi anni il dissenso democratico non ha avuto né attenzione né alternativa onorevole. Quando quasi mezzo Parlamento è costretto a lasciare l’aula, per non essere coinvolto in uno schema  che non condivide e i restanti festeggiano come allo stadio, si celebra l’effimera vittoria di una parte e si detta il necrologio della democrazia.

D. Entrando nel merito della riforma, perché vota NO?

R. E’ stato detto che questa riforma, “dopo un dibattito trentennale infruttuoso e controverso”, era diventata improcrastinabile. Non è stato detto che la controversia non derivava dalla carenza di norme, ma dalla necessità (riconosciuta dalle stesse commissioni bilaterali e da tutti gli altri proponenti di riforme alla Costituzione) di procedere alle riforme con il più largo consenso delle forze politiche. Lo stesso meccanismo dell’articolo 138 della Costituzione, prevedendo più esami incrociati tra Camera e Senato, cauti passi successivi e tempi di riflessione intendeva promuovere un largo consenso. Tant’è che nel caso esso fosse venuto a mancare si prevedeva la possibilità di ricorrere alla consultazione diretta del popolo. Ora, si è arrivati a questa riforma pasticciata e opaca perché invece di ricercare il largo consenso si è preferito imporre la volontà di una maggioranza non rappresentativa della Nazione. Abbiamo assistito a manovre di qualsiasi genere, a ricatti politici, disinformazione, emarginazione dei dissidenti o soltanto dei non favorevoli, sostituzione di membri di commissioni parlamentari scomodi, agitazione di spauracchi, promesse populistiche, ghigliottine, canguri, sedute fiume e molto altro. Di peggio è avvenuto nell’ombra. La forma non è stata violata, ma il metodo si è rivelato ingiusto e scorretto perché nel frattempo la rappresentatività parlamentare e governativa era passata, con successive “porcate” e “leggi incostituzionali”,  dal sistema proporzionale a quello maggioritario a sbarramento. E soprattutto perché le finalità della riforma erano e rimangono tanto confuse da giustificare ogni sospetto di manipolazione.

D. Lo ritiene un fenomeno nuovo?

R. No, ma nel passato, quando gli obiettivi delle riforme costituzionali erano chiari, puntuali e condivisi sono state promulgate leggi costituzionali senza difficoltà. Dal 1948 ad oggi sono state approvate 38 leggi costituzionali tra cui provvedimenti importanti come le pari opportunità, l’abolizione della pena di morte anche per i reati militari in tempo di guerra, il voto degli italiani all’estero, l’estradizione per delitti di genocidio, il giusto processo, il pareggio di bilancio ecc. I problemi si sono posti quando le riforme si presentavano strumentali o soltanto imparziali e soprattutto quando rispecchiavano interessi di potere particolari e clientelari.

D. La riforma vorrebbe snellire la burocrazia legislativa, ridurre i costi della politica.

R. Purtroppo questa riforma non snellisce e non fa risparmiare. Si sarebbe invece risparmiato molto utilizzando strumenti legislativi ordinari senza scomodare la Costituzione. E anche ammettendo che ci sia qualche risparmio sul piano contabile, la riforma comporta costi enormi  in credibilità delle istituzioni, bilanciamento dei poteri e quindi in democrazia. Non sono costi teorici o morali, a ognuno di tali elementi sono collegate pratiche politiche e amministrative che se non adeguatamente controllate generano corruzione, sprechi, abusi di potere, imposizioni di tasse esose, aumento del debito e dissoluzione dei rapporti di fiducia tra Stato e cittadini. E’ vero, ci è stato detto che   “Abbiamo bisogno di capacità decisionali e di procedimenti legislativi più rapidi e non di un sistema immaginato e pensato a quei tempi, in cui forse si credeva si dovesse decidere raramente”. Ebbene, dobbiamo ricordare che  la rapidità non è sinonimo di migliore qualità o efficacia dei provvedimenti. Anzi. Siamo ancora impantanati  nei problemi creati dalla fretta dei governi e dalle loro false priorità. Inoltre, il sarcasmo fuori posto è sempre una forma di denigrazione e, in questa frase, è chiara la volontà di delegittimare un’Italia che i denigratori  non hanno né conosciuto né studiato.

D. Cosa trascurano?

R. Più che trascurare, in realtà non sanno e quindi non possono nemmeno ricordare. Questo progetto fa parte dello schema di rottamazione non di ciò che non funziona, ma di ciò che non si conosce. Siccome l’ignoranza è molta, non deve stupire che la cosiddetta rottamazione colpisca a vanvera in molti settori. Se i denigratori non possono ricordare, potrebbero ascoltare, ma di solito l’ignoranza va di pari passo con l’arroganza e perciò bisogna accontentarsi di dire cose che non ascolteranno mai. Noi però possiamo ricordare che quel sistema immaginato nel 1948 è stato realizzato e ha preso le decisioni più difficili della nostra storia. Con successi e insuccessi abbiamo recuperato credibilità internazionale, risollevato l’economia, affrontato emergenze naturali senza scandali, combattuto il terrorismo e la mafia, ristrutturato le Forze Armate e le abbiamo spedite in ogni angolo della Terra a rappresentare l’Italia e abbiamo raggiunto il quarto posto fra sette delle maggiori economie (G-7). Poi, con una breve stagione di “decisionisti” e  fantasiosi innovatori abbiamo decuplicato il debito nazionale, aumentato la disoccupazione e il precariato, diminuito la nostra competitività. Infine, grazie alle virtù taumaturgiche del mercato, dei tecnocrati e dei rottamatori abbiamo centuplicato il debito e siamo stati malamente coinvolti in una crisi che non ci avrebbe riguardato così da vicino, se non avessimo avuto immaginifici finanzieri di Stato e speculatori privati rivolti esclusivamente allo sfruttamento delle bolle finanziarie.

D. E oggi come siamo messi?

R. Andiamo a votare per una legge veramente immaginaria e siamo più deboli in Europa, sminuiti nella capacità di sicurezza,  succubi delle decisioni altrui, allontanati dai tavoli di discussione globali ed europei, ultimi nella graduatoria del G7, incapaci di provvedere al rilancio dell’economia e costretti ad elemosinare non denaro (che nessuno regala), ma la possibilità di fare altri debiti. Non si può addossare la responsabilità di tutto questo solo al sistema bicamerale o ai governi del passato. Negli ultimi dieci anni sono state approvate più leggi richieste dal Governo che quelle promosse dal Parlamento. In alcuni periodi delle legislature passate e di quella presente si è legiferato con le procedure di urgenza su cose che non erano affatto urgenti, si sono blindate leggi e leggine d’iniziativa governativa (109 in questa legislatura), facendo ricorso eccessivo ai colpi di maggioranza, alle deleghe al governo (13 a quello attuale su temi  fondamentali come lavoro, scuola, comunicazione pubblica ecc.) e al voto di fiducia al governo (ben 56 volte negli ultimi due anni e mezzo). Oggi non andiamo a votare per migliorare, ma per  istituzionalizzare un Parlamento defraudato del potere legislativo e assoggettato al potere esecutivo molto di più di quanto non lo sia già ora.

D. Un altro elemento su cui insistono i fautori della riforma è la governabilità. Argomento convincente, a suo parere?

R. La “governabilità è ormai un dogma. Ma non è un’invenzione di oggi. Il tema è stato sollevato per primo da Bettino Craxi (fine anni ‘70), quando con i voti di un partito largamente minoritario voleva guidare per sempre l’intero Paese. Non a caso parlava di governi di legislatura (che stessero al governo “certamente” almeno per turni di 5 anni) o di “governo presidenziale”, pensando di diventare presidente. Ma i governi erano comunque coalizioni di grandi partiti che godevano anche dell’appoggio esterno di alcune opposizioni. La democrazia non era in pericolo, semmai era evidente l’insofferenza di un leader carismatico nei confronti dei grandi partiti. Lo stesso tema fu affrontato da Spadolini nel 1982 in maniera geniale, anche se inattuabile. Anche lui leader carismatico, esponente di un partito abbondantemente minoritario, ma giuridicamente molto più preparato di Craxi, individuò il collante fra le coalizioni, non nell’egemonia del partito più numeroso, ma in una presunta forza istituzionale del Presidente del Consiglio. Di fatto, sostituiva la forza dei partiti con la forza del ruolo di Capo del Governo. Intendeva istituire il “regime del primo ministro” al posto del “regime dei partiti”. “Perché -diceva- il governo della Repubblica deve governare anche per chi gli vota contro, anche per i senza partito, anche per gli extraparlamentari, anche per chi ancora non vota e voterà domani». Era una proposta al limite della liceità costituzionale e valeva finché ci si credeva. Ma lui era Spadolini e governò a modo suo, non per molto, ma senza modificare una sola virgola della Costituzione. Nel caso si fosse resa necessaria una riforma, Spadolini ebbe a dire: “Il governo ricercherà sempre con l’opposizione lo “idem sentire de Constitutione”. Questa riforma è lontana anni luce dall’idem sentire di Spadolini e di tutti i Padri costituenti. Non vuole eliminare “il regime dei partiti”, ma istituire il regime di un partito, anche se oggettivamente non maggioritario, come lo sono tutti i grandi partiti di oggi.

D. E’ stato detto che la riforma è necessaria per realizzare “un processo organico di riforma in grado di razionalizzare in modo compiuto il complesso sistema di governo multilivello articolato tra Unione Europea, Stato e Autonomie territoriali”.

R. Magari lo fosse, e magari fosse stato spiegato chiaramente cosa sarebbe necessario. E’ stato invece raffazzonato un discorso che parla di razionalizzare “alla luce dei provvedimenti già presi in relazione allo spostamento del baricentro decisionale connesso alla forte accelerazione del processo di integrazione europea e, in particolare, l’esigenza di adeguare l’ordinamento interno alla recente evoluzione della governance economica europea (da cui sono discesi, tra l’altro, l’introduzione del Semestre europeo e la riforma del patto di stabilità e crescita) e alle relative stringenti regole di bilancio (quali le nuove regole del debito e della spesa); le sfide derivanti dall’internazionalizzazione delle economie e dal mutato contesto della competizione globale”. Sono parole testuali della proposta, ma più che un proposito, lo sproloquio sembra una “captatio benevolentiae” nei confronti dell’Europa. Una inutile piaggeria, che non ha più senso visto che l’integrazione europea è più lontana che mai, la governance europea è in crisi grazie anche agli atteggiamenti estemporanei del nostro governo (prima, durante e dopo Bratislava) e che nella cosiddetta riforma non c’è nulla che risponda alle sfide “dell’internazionalizzazione economica”. Oggi in campo internazionale siamo ad un livello di guerra fredda molto vicino alla guerra calda tra blocchi contrapposti, come nel 1946, in Europa, in Asia e quindi in tutto il mondo. Gli equilibri stanno cambiando rapidamente e in modo pressoché incontrollato. Gli stessi Stati Uniti non sanno dove andare e domani forse scopriranno di non voler e non poter andare da nessuna parte. Oggi, in Italia siamo sicuramente in piena guerra fredda interna: da vent’anni siamo prigionieri di una dicotomia fra destra e sinistra che ancora parla di comunismo e fascismo. Grazie all’arroganza di partiti personalizzati il Paese è spaccato apparentemente in due, ma sostanzialmente in cento pezzi.

D. E’ una questione che riguarda esclusivamente i partiti politici?

R. No, è dovuta anche all’avidità dei poteri economici, industriali e finanziari che sostengono i partiti per i propri interessi, i quali non necessariamente coincidono con l’interesse collettivo, meno che mai con il bene pubblico. Ma i partiti hanno un’aggravante: hanno interpretato l’articolo 49 della Costituzione come l’investitura di ciascuno di essi alla rilevanza costituzionale. Il segretario di un partito si sente – e di fatto è stato considerato dagli stessi presidenti della Repubblica – come un “organo costituzionale”. In realtà l’articolo 49 stabilisce la libertà dei cittadini di associarsi in partiti, ma non assegna a essi altra funzione se non quella di permettere che i cittadini concorrano con metodo democratico a determinare la politica nazionale. La rilevanza costituzionale è dei cittadini, non dei partiti. In realtà i tre partiti maggiori del panorama italiano non assicurano affatto il metodo democratico, ma quello monocratico o al massimo oligarchico, autoritario e personalizzato. Non danno alcuno spazio di dissenso al loro interno e sono da tempo impegnati in una delegittimazione reciproca che ha prodotto la sclerosi delle strutture interne e la completa sfiducia dei cittadini nella politica in generale.

D. Eppure questa riforma è passata con l’avallo del Parlamento.

R. Certo, ma non nella misura necessaria alla sua promulgazione. Tant’è che andiamo al Referendum proprio perché non è stato raggiunto l’accordo richiesto dalla stessa Costituzione. In compenso ci è stato detto che questa riforma ha rispettato tutti i parametri costituzionali e democratici. In realtà, l’iter di questa riforma, come quella bocciata nel 2006, è stato caratterizzato dalla prevalenza del metodo “a colpi di maggioranza”, abbandonando l’equilibrio previsto dalla Costituzione tra leggi “consensuali” e “maggioritarie”.  Si è invece rafforzata la presunta equivalenza fra principio democratico e principio maggioritario. Le modifiche alla Costituzione o alla forma di governo e della rappresentanza (come nel caso della legge elettorale) scaturiscono dalla convenienza della maggioranza di turno: nel periodo 2000-2015, ben nove (su dieci) leggi di revisione della Costituzione sono state approvate con i soli voti della maggioranza parlamentare, senza cercare larghe intese all’interno delle forze.

D. La nuova legge ha il sostegno di intellettuali, sindacalisti, forze economiche e finanziarie.

R. Non mi sorprende. Molti sono in buona fede perché attratti dal canto delle sirene sui risparmi e sulla limitazione dei politici o soltanto dalla voglia di punire il sistema o i partiti avversari. Alcuni poteri cosiddetti forti sono attratti dalla prospettiva di avere un governo a propria disposizione. Altri pensano alla pancia quotidiana e sostengono chi promette di più o elargisce elemosine elettorali. Qui il governo ha buon gioco perché è l’unico in grado di promettere, anche se sa benissimo di non poter mantenere. Ma è soltanto un escamotage che deve durare un mesetto ed è una sorta di competizione sleale perché gli oppositori, non essendo in campagna elettorale per la legislatura, non possono promettere niente altro che la fine del governo. Aumentando così l’incertezza di chi spera nei bonus e la diffidenza degli stranieri.

D. A detta dei fautori del Sì, non vengono alterate le Istituzioni democratiche. E’ così?

R. Secondo la definizione socio-economica più moderna e coerente, lo scopo di una “Istituzione” (e il Senato è una Istituzione) è quello di garantire la corretta applicazione delle  norme stabilite tra l’individuo e la società o tra l’individuo e lo Stato, sottraendole  all’arbitrio individuale e all’arbitrio del potere in generale (Haidar J.I.-2012). Ebbene, questa riforma nega e offende le Istituzioni democratiche: nei fatti stravolge l’impianto istituzionale dello Stato aumentando l’arbitrio individuale, o di un gruppo, e l’arbitrio del potere in generale. Il mio non è un giudizio teorico o di principio. Come uomo, soldato e cittadino con oltre 46 anni di servizio nell’ambito di una istituzione fondamentale come le Forze Armate, deputate alla difesa della Patria, anche in guerra, non posso condividere una riforma che sottrae al Parlamento la decisione sulla più drammatica evenienza di uno Stato: la dichiarazione di guerra. La norma proposta indica infatti nel Governo, attraverso la sua ovvia e artificiosa maggioranza monocamerale, il responsabile di tale decisione.

D. Ma la guerra non è un’evenienza remota?

R. E’ vero che sul piano pratico la cosa può sembrare ininfluente: nessuno più dichiara apertamente la guerra, ad eccezione degli Stati Uniti che ormai scendono in guerra per ogni cosa. Ma anche loro, pur chiamando ‘guerra’ qualsiasi sforzo interno ed internazionale, pur individuando nemici in ogni interlocutore, pur usando gli strumenti di guerra come prima risorsa d’emergenza e pur avendo inventato la guerra preventiva che non previene, ma anzi anticipa la guerra, sono ben attenti ad evitare con cura qualsiasi dichiarazione formale di guerra. Oggi, specialmente da parte dei Paesi europei e della Nato, la guerra si fa senza dichiararla o semplicemente cambiandone il nome. E, comunque, neppure l’impegno della Nato nella difesa collettiva (articolo 5 del Trattato) costringe in modo automatico ad intervenire con le armi. Ogni Paese membro può (e deve) scegliere in che maniera contribuire alla difesa collettiva.

Tuttavia, se la norma che equipara la dichiarazione di guerra a qualsiasi altro atto amministrativo può sembrare ininfluente sul piano pratico, non lo è affatto sul piano istituzionale e della filosofia del diritto. In questo caso, l’abolizione del bicameralismo perfetto è la chiara manifestazione della volontà di banalizzare il ruolo delle istituzioni a partire dall’atto più drammatico delle loro funzioni: la deliberazione sulla guerra. Il Parlamento riformato ha uno squilibrio a favore della Camera e questa, per effetto della legge elettorale maggioritaria e dei premi di maggioranza esagerati, ha uno squilibrio a favore del Governo. Di fatto, il nuovo Parlamento e lo stesso Governo cessano di essere organi legislativi rappresentativi di tutto il Paese e perdono la qualità fondamentale per autorizzare la guerra in nome del popolo italiano e quindi anche la facoltà di assumere ogni altra decisione che comporti analoghi sacrifici per tutta la popolazione e il trasferimento di risorse, poteri e funzioni da una istituzione all’altra.

D. Sono squilibri pericolosi ?

R. Nella sostanza sì. Se tali squilibri consentono di accelerare le decisioni del Governo in nome della cosiddetta governabilità, non è detto che favoriscano solo i provvedimenti giusti ed equanimi, adottati in nome e per conto del bene pubblico. Abbiamo continuamente esperienze di provvedimenti ad personam e a favore di gruppi di potere e di avventure che non hanno nulla a che vedere con il bene pubblico. Il Senato riformato  che non è più una Istituzione, perché non ha poteri equilibratori nell’ambito del Parlamento, è una costosa conferenza saltuaria di amministratori locali, la cui legittimazione nell’incarico “complementare” dipende dall’arbitrio di chi li ha  designati. Voto No all’eliminazione dell’equilibrio dei poteri e dei contrappesi istituzionali che di fatto conduce all’arbitrio del potere del partito di maggioranza del momento. Voto No al vilipendio delle istituzioni parlamentari (e non solo) esercitato da un partito che designa parlamentari e senatori non per esigenze di rappresentatività, ma per clientelismo e corruzione. Voto No perché non voglio essere rappresentato in Parlamento e nelle altre istituzioni nazionali ed europee da personaggi ignoranti, compromessi, immorali e pregiudicati. Abbiamo già vissuto il tempo del disprezzo nei confronti delle nostre Istituzioni  quando a occuparle venivano designati amici, clienti e compagni o compagne d’alcova. Me ne sono vergognato profondamente quando in campo internazionale, politico e militare, si lanciavano battutacce sui nostri governanti. Voto No perché ciò non si ripeta. E comunque non si ripeterà con il mio sostegno o la mia indifferenza.

D. Riflessioni come le sue hanno avuto la possibilità di raggiungere i cittadini?

R. Se lo hanno fatto non è certo per merito del Governo o della comunicazione pubblica. Ci avevano detto di voler rispettare le regole democratiche anche nella comunicazione. In realtà le voci di coloro che, come me, hanno servito lo Stato e difeso le istituzioni democratiche con disciplina e onore, e quelle di coloro che, come tantissimi,  hanno lavorato per l’Italia rappresentandone l’eccellenza culturale, tecnologica, economica, istituzionale e di solidarietà sono state soffocate dal vocio della propaganda di Stato. Ben prima della decisione di ricorrere al Referendum il Governo intero ha occupato tutti gli spazi di comunicazione, tramutando il legittimo sostegno a una propria proposta in bagarre affaristica e campagna ideologica a dispetto e scapito dell’equilibrio e dell’unità nazionale. Con il ricorso al referendum, la consultazione si è trasformata in una sfida tra sì e no, a prescindere da cosa significassero. C’è stata la conta degli amici e dei nemici, dei clienti riconoscenti e dei candidati a posti e poltrone accondiscendenti. La giusta perorazione della causa riformistica è stata volutamente personalizzata, fino a farla diventare una scommessa sulla stessa sopravvivenza del Governo. Come tutte le scommesse è stato un gioco, un azzardo, un bluff, un rischio e un ricatto sostenuti da una mobilitazione mediatica senza precedenti. Ogni canale di discussione moderata e costruttiva è stato occupato da comizi e spettacoli celebranti una grande festa della Dis-Unità. Gli spazi d’informazione pubblica (una risorsa di e per tutti) sono stati spesi (anche in senso economico) solo a favore del marketing governativo, in Italia e all’estero.

D. Come definirebbe la sua posizione, conservatrice o progressista?

R. Direi molto progressista. Esprimo il mio No a questa riforma  con spirito costruttivo, perché  non voglio che il mio Paese rimanga intrappolato in un sistema che assegna i poteri dello Stato a una maggioranza risicata e faziosa, frutto dell’allontanamento dei cittadini dalla politica, senza nessun organo di controllo e bilanciamento dei poteri. Mi è stato fatto osservare che in tutti i Paesi del mondo “va al comando” il partito di maggioranza relativa, e che l’evanescenza delle opposizioni non dipende dalla legge elettorale. E’ vero, e infatti non ho mai apprezzato il concetto di un partito “al comando”. I partiti dovrebbero essere al servizio della comunità, esattamente come le istituzioni, i governi e le amministrazioni pubbliche.

Ma anche dove i partiti godono di ampia maggioranza ci sono differenze sostanziali.  Ho vissuto abbastanza a lungo nei due paesi a sistemi opposti per capirne gli effetti: la democrazia americana e il regime del partito comunista cinese. La democrazia americana non è tale perché votano i cittadini, che fra l’altro non votano per eleggere l’uomo al comando, ma perché esistono istituzioni in grado di limitare gli abusi del potere. Il Congresso, a prescindere dalla maggioranza del momento, è il più feroce censore del potere esecutivo. La magistratura suprema segue a ruota, ma una serie di comitati parlamentari hanno poteri che possono indirizzare e raddrizzare la politica del governo. Inoltre, spesso sono gli stessi partiti, i media, le lobby e i comitati di cittadini a limitare i propri leader.

In Cina c’è un partito che occupa tutto e impone la propria politica a tutti. Si avvale di strutture legislative permanenti per gli affari correnti e di un’assemblea annuale dei rappresentanti del popolo per approvare le grandi leggi: si vota per alzata di mano su ogni proposta e si torna a lavorare. C’è anche una sorta di senato: è la Conferenza Consultiva che raggruppa i rappresentanti dei partiti, varie etnie, associazioni popolari, amministratori locali e personalità indipendenti. Non ha alcun potere effettivo ed è diretta dallo stesso Partito Comunista, che comunque la utilizza come foglia di fico per spacciare una parvenza di democrazia. In Cina il vero equilibrio fra i poteri e la garanzia di una dialettica politica si realizzano all’interno del partito stesso che è tutt’altro che monolitico o cristallizzato. L’ostentata ammirazione per il sistema americano da parte del nostro Governo è smentita proprio dalla riforma: il sistema che vuole instaurare con la riforma è lontanissimo da quello americano e vicinissimo al sistema cinese. Con due  differenze: da noi il partito di regime non assicura alcuna dialettica equilibratrice interna e i rappresentanti alla Camera bivaccano in permanenza a Roma.

D. E l’intervento popolare tramite il Referendum?

R. E’ importante ma non sarà determinante finché la partecipazione non sarà veramente significativa. Non si può ricorrere sempre ai referendum per colmare le incapacità della politica, anche perché gli stessi referendum costituzionali, che dovrebbero essere i più importanti, dimostrano la disaffezione popolare nei confronti della politica e s’indeboliscono nella capacità effettiva di rappresentare la Nazione. Alla prima consultazione referendaria sulla Costituzione della nostra storia, il 7 ottobre 2001,  si recò a votare solo il 34,1 % degli aventi diritto e i voti validamente espressi furono per il 64,2 % favorevoli alla modifica costituzionale: erano appena il 21% degli aventi diritto. Alla seconda, quella del 25-26 giugno 2006, votò il 52,30% degli aventi diritto e la legge voluta da Berlusconi fu respinta dal  61,32% dei votanti: appena il 32% degli aventi diritto.

D. Come riassumerebbe le sue motivazioni?

R. Voto No ad una riforma che spacca il paese e prelude ad una frattura ancora più ampia e pericolosa fatta di disprezzo per le Istituzioni, rigetto delle opposizioni, soppressione delle minoranze  e ghettizzazione delle intelligenze non allineate: tutti segni storicamente premonitori di dittatura e  guerra civile.

Voto No perché il sistema proposto è già in atto e non funziona, anzi mortifica le istituzioni e minaccia la democrazia. Soltanto con il No  si può pensare di rettificare questo stato di fatto e avviare la stagione delle riforme equilibrate ed efficaci.

Voto No perché il governo, qualunque esso sia, e le istituzioni nazionali a partire dal 5 dicembre si dedichino a risolvere i problemi strutturali  che gravano sulla nostra nazione, i problemi della ripresa economica, di compattazione sociale e di disaffezione politica e formuli  finalmente un progetto per riunire i cittadini italiani e le forze politiche attorno ad una Costituzione rinnovata ma condivisa.

Voto No oggi per avere domani (e non dopodomani) la possibilità di vedere una riforma seria e corretta.

Voto No perché mi si chiede di esprimermi con un monosillabo su un insieme di elementi disomogenei, appartenenti a materie molto diverse e  dagli effetti indecifrabili se non indagati dal punto di vista tecnico-giuridico. Invece di approfondire e sviscerare tali aspetti, mi si chiede di votare senza considerarli, quasi a voler nascondere il fatto che proprio tra essi  si annidano tutti gli elementi distruttivi e destabilizzanti della riforma. Mi si chiede un voto di fiducia cieca, ideologico, che non lascia a me, e a nessun cittadino libero di ragionare con la propria testa, altra alternativa che il No.

D. Secondo lei, è questa l’ultima occasione per fare le riforme?

R. Il No è l’ultima occasione per  stroncare sul nascere i propositi inaugurali di una stagione di continue ulteriori modifiche alla Costituzione, rese via via più facili e incontrollate da questa stessa riforma, tendenti a stravolgere completamente l’assetto istituzionale del nostro Stato. In questo senso, non mente chi dice che il 4 dicembre non è un traguardo finale, ma uno striscione di partenza. Tuttavia, soltanto con il No parte l’Italia Unita, di tutte le fedi e convinzioni, per riaffermare la Democrazia, la Giustizia e la Libertà volute da tutti gli Italiani che per esse hanno sofferto privazioni, vessazioni, torture e che per esse hanno versato il proprio sangue in guerra e in pace. In caso contrario, con il Sì,  parte la vera corsa al potere assoluto di una maggioranza di palazzo. Anche questa è stata una delle cause storiche delle dittature, delle guerre civili, dei colpi di stato, delle rivoluzioni.

 .

(*) Fabio Mini, generale di Corpo d’Armata, è stato capo di Stato maggiore del Comando Nato per il Sud Europa e, a partire dal gennaio 2001, ha guidato il Comando Interforze delle Operazioni nei Balcani. Dall’ottobre 2002 all’ottobre 2003 è stato comandante delle Operazioni di pace a guida Nato, nello scenario di guerra in Kosovo nell’ambito della missione KFOR (Kosovo Force).

Nel merito. Luigi Ferrajoli «secondo questi l’inettitudine dei governi che si sono succeduti sarebbe colpa della Costituzione?»

(di Lorenzo Dilena per Gli Stati Generali)

Magistrato, professore universitario, allievo di Norberto Bobbio e teorico del garantismo e della democrazia costituzionale di fama internazionaleLuigi Ferrajoli, 76 anni, è il giurista italiano che ha espresso la bocciatura più dura e radicale della legge costituzionale che sarà sottoposta a referendum confermativo il prossimo 4 dicembre.

Professor Ferrajoli, sulla riforma Renzi-Boschi lei ha espresso un triplice No: nel principio, nel metodo, nel merito. Partiamo dal primo punto: che cosa critica in linea di principio nella riforma voluta dal Governo Renzi?

La riforma proposta non è una revisione della Costituzione, ma è un’altra costituzione: vengono cambiati 47 articoli su un totale di 139. E questo non è consentito: l’unico potere ammesso dall’articolo 138 della nostra Costituzione è un potere di revisione. Da questo discende il primo profilo di illegittimità: l’indebita trasformazione del potere di revisione costituzionale previsto dall’articolo 138, che è un “potere costituito” dalla Carta, in un “potere costituente” non previsto dalla nostra Costituzione.

Una riforma contro la Costituzione della Repubblica del 1948?

Anche a voler tralasciare il fatto pur rilevante che questo Parlamento è stato eletto con una legge elettorale dichiarata incostituzionale, resta che la nostra Costituzione non prevede l’approvazione di una nuova costituzione, neppure ad opera di un’ipotetica assemblea costituente che decidesse a larghissima maggioranza, ma solo singoli e puntuali emendamenti.

Se, come lei sostiene, questa riforma ha travalicato i limiti dell’articolo 138 perché il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella non ha esercitato la facoltà di rinviare la legge alle Camere e chiedere una nuova deliberazione?

È una domanda che in molti abbiamo sollevato e non ha ancora avuto alcuna risposta. Il presidente Sergio Mattarella avrebbe ben potuto, in base all’articolo 87 della Costituzione, inviare un messaggio alle Camere per ricordare taluni principi elementari: come la necessità che le riforme costituzionali siano approvate con la più ampia maggioranza parlamentare e, per altro verso, il potere del Parlamento di approvare, in sede di revisione, singoli emendamenti, e non una quantità eterogenea di modifiche, a garanzia dell’omogeneità del quesito referendario più volte richiesta dalla Corte costituzionale onde consentire agli elettori di esprimere consenso o dissenso a specifiche revisioni. Ed è paradossale che di questi abusi di potere si sia fatto addirittura promotore il precedente Presidente della Repubblica, che pure aveva giurato fedeltà alla Costituzione del 1948 e che di questa avrebbe dovuto essere il garante.

Senza la determinazione di Renzi, le riforme, di cui si discute da decenni, sarebbero ancora lì ad aspettare, si dice.

È da oltre trent’anni che si cerca di far cadere sulla Costituzione le responsabilità dei governi per le loro pessime politiche. Secondo i fautori dei vari progetti di riforma – che hanno avuto in comune il costante tentativo di indebolire il Parlamento e rafforzare il governo –, la crisi e il discredito dei partiti, la loro corruzione, l’esplosione del debito pubblico, l’aggressione allo stato sociale e ai diritti dei lavoratori, la selezione di una classe dirigente pessima e, in definitiva, l’inettitudine dei governi che si sono succeduti, sarebbero tutta colpa della Costituzione del 1948.

Passiamo al metodo di approvazione. 

Per il modo in cui è stata approvata questa riforma è un oltraggio all’idea stessa di costituzione: le costituzioni dei paesi democratici sono patti di convivenza, stabiliscono pre-condizioni che devono garantire tutti: qualunque costituzione degna di questo nome è tendenzialmente frutto di un consenso generale. Nel ’48, pur nella contrapposizione ideologica fra cattolici, comunisti e liberali, la nostra Carta venne approvata da una maggioranza amplissima: 453 voti a favore e 62 contrari.

Invece che cosa è la riforma di Renzi-Boschi?

È una costituzione approvata da una minoranza, e cioè da un partito che alle ultime elezioni ha preso il 25% dei voti, corrispondente a circa il 15% degli elettori. Questi elettori, grazie ad una legge elettorale dichiarata incostituzionale (il “Porcellum”, ndr) sono stati trasformati in maggioranza. Non solo. È una costituzione approvata strozzando il dibattito parlamentare, a colpi di “canguri” e “tagliole”, fino all’approvazione in un’aula semivuota per l’Aventino delle opposizioni. Per votare No a questa nuova costituzione basterebbe leggerla. Ma è precisamente questo che il quesito referendario, formulato in termini ingannevoli e accattivanti, impedisce di fare.

Viene davvero superato il bicameralismo paritario, come riportato nel quesito sottoposto a referendum?

Il bicameralismo paritario non viene affatto soppresso, ma mantenuto per una lunga serie di leggi, dalle leggi costituzionali alle leggi elettorali e a molte altre. Per le leggi restanti viene sostituito da un bicameralismo imperfetto, cioè da più forme di coinvolgimento del Senato in altrettanti tipi di procedimenti legislativi, con conseguente incertezza e complicazione della funzione legislativa. Si aggiunga che il Senato sarà formato da senatori non eletti dai cittadini ma dai Consigli regionali.

Questa riforma paradossalmente allungherà i tempi anziché accorciarli e farà perdere tempo in contenzioso fra le istituzioni?

Siamo di fronte a un pasticcio che darà vita a incertezza e conflitti, poiché i diversi tipi di procedimenti legislativi sono distinti sulla base delle diverse materie e spesso non è possibile tracciare confini rigorosi fra una materia e l’altra. Il nuovo articolo 70 stabilisce che “i Presidenti delle Camere decidono, d’intesa tra loro, le eventuali questioni di competenza”. Ma che succederà se i due presidenti non saranno d’accordo? Si rischia di dar vita a un contenzioso incontrollabile su questioni di forma che finirà per allungare i tempi dei procedimenti e per investire la Corte Costituzionale di una quantità imprevedibile di ricorsi di incostituzionalità per difetti di competenza.

Cosa farà se il No, da lei sostenuto, dovesse perdere?

La vittoria del sì, accoppiandosi alla nuova legge elettorale (“Italicum”, ndr), sancirebbe la trasformazione della nostra democrazia parlamentare in un sistema interamente incentrato sull’esecutivo. Il Parlamento si trasformerebbe in un mero organo di ratifica: praticamente, anziché essere il Governo a dover ricevere e mantenere la fiducia dal Parlamento, avremmo dei parlamentari che dovrebbero guadagnarsi la fiducia del Governo, se non vorranno rischiare lo scioglimento della Camera e la loro non rielezione. Perciò, se dovesse vincere il Sì, bisognerebbe puntare a una riforma della legge elettorale in senso puramente proporzionale, senza premi di maggioranza né soglie di accesso al Parlamento. Purtroppo, su questa possibilità, non mi faccio illusioni.

Nel merito. Nino Di Matteo: «La nostra Costituzione deve essere applicata piuttosto che modificata.»

«Io sono sempre stato convinto che il vero grande problema italiano sia la forbice tra la Costituzione formale e quella materiale. Il vero problema è costituito dal fatto che molti importanti principi costituzionali non hanno mai trovato applicazione. Da una parte c’è la Costituzione scritta e c’è un’Italia che vorrebbe un progetto politico con alti principi di uguaglianza, di solidarietà e di libertà così come scritti nella Costituzione, e dall’altra parte c’è stata invece la trasformazione e l’elusione della Costituzione nella pratica politica, con un’Italia fondata sulla speculazione, sulla ricerca esasperata del potere e della sua conservazione, sul compromesso e sull’accettazione, perfino, di metodi mafiosi e poteri criminali. Io sono convinto che questo sia il vero grande problema. La nostra Costituzione deve essere applicata piuttosto che modificata.»

Mi ha risposto così Nino Di Matteo nella mia lunga intervista per Left nel numero che trovate in edicola (o che potete leggere in versione digitale qui). E ne abbiamo parlato nel merito, punto per punto, articolo per articolo, cercando di analizzare anche gli eventuali effetti sulla magistratura. E l’intervista probabilmente coglie nel segno se Raffaele Cantone oggi  ci dice che sarebbe opportuno che “i magistrati non si espongano sul referendum” e lo dice mentre racconta di votare sì in tutta pagina del Corriere della Sera. Già. Il magistrato Cantone.

#Left cosa ci abbiamo messo dentro: Nino Di Matteo che vota no

Numero 46 di Left in edicola (o disponibile nello sfogliatore online qui). Dentro ci trovate la mia lunga intervista con Nino Di Matteo tutta sulla riforma costituzionale e sull’aria greve di questa campagna referendaria. Come al solito il magistrato non lesina giudizi e non si nasconde dietro questa “cortesia istituzionale” che ammanta più di qualcuno. Ci dice che la riforma Renzi-Boschi è invotabile perché pensata  male e scritta ancora peggio, ci spiega i rischi che comporterebbe anche per gli equilibri della Giustizia e, soprattutto, ci indica gli articoli della nostra Costituzione che andrebbero applicati piuttosto che riformati.

Il sommario del numero (con l’apertura tutta sui risultati delle elezioni americane) lo trovate qui. Come al solito siamo tutte orecchie per giudizi, suggerimenti e proposte. Buona lettura.

img_0240

Se ne accorge anche Mentana: «così si falsa il referendum»

“Non si può rischiare di falsare questa consultazione cercando un rapporto unilaterale, che è possibile soltanto a chi guida l’istituzione governativa nei confronti degli italiani all’estero” – Così il direttore del Tg La7 Enrico Mentana, dopo che il premier Matteo Renzi ha inviato agli italiani residenti all’estero una lettera con le indicazioni e le istruzioni sulle modalità di voto per il referendum costituzionale. Secondo quanto si apprende, nella lettera sono precisate le ragioni per cui votare Sì, a partire dalla fine del bicameralismo paritario e la riduzione del numero dei parlamentari – “Teoricamente e seriamente ci vorrebbe una lettera, anzi una busta con dentro due lettere” – precisa il direttore – “Le ragioni del Sì e le ragioni del No, perché raggiungerli solo da un lato comporta il rischio veramente forte di avere qualcuno che nel dibattito referendario fa la parte del leone”

Ecco con chi riscrivono la Costituzione: chiesti 4 anni per Verdini

Massone, lobbista, piduista. La requisitoria del pm che oggi ha chiesto 4 anni per Denis Verdini è uno spaccato del Paese sbrodolante di illegalità e corporazioni. Questo è quello che ha salvato il governo. Questo è quello che la Boschi è corsa a baciare per festeggiare la riforma costituzionale. E noi discutiamo dell’ANPI, intanto. Capite? Leggere per credere:

ROMA – Richiesta di condanna per 18 imputati, tra cui il senatore Denis Verdini e l’uomo d’affari Flavio Carboni, ed una di assoluzione. È quanto chiesto dalla procura di Roma al processo sulla P3, presunto comitato d’affari segreto che puntava ad influenzare e condizionare gli organi costituzionali. I pm Rodolfo Sabelli e Mario Palazzi hanno chiesto nove anni e sei mesi di reclusione per Carboni, otto anni e sei mesi per l’ex giudice tributarista Pasquale Lombardi e l’imprenditore Arcangelo Martino, quattro anni per Verdini.

Queste le altre richieste di condanna sollecitate dalla Procura in relazione a episodi minori, non legati all’associazione per delinquere e destinati in buona parte a cadere in prescrizione nei prossimi mesi: un anno di reclusione per l’ex coordinatore toscano di Forza Italia Massimo Parisi, un anno per il legale rappresentante della società Ste srl Pierluigi Picerno, 2 anni per il presidente di un consorzio Pinello Cossu, un anno per l’allora presidente dell’Arpa Sardegna Ignazio Farris, 1 anno per l’ex Governatore della Sardegna Ugo Cappellacci, 2 anni per l’imprenditore Alessandro Fornari, un anno e mezzo per l’imprenditore Fabio Porcellini. Ci sono poi i presunti ‘prestanomi’ di Flavio Carboni e cioè Giuseppe Tomassetti (un anno), Antonella Pau (3 anni) e Maria Laura Scanu Concas (un anno).

Completano la liste degli imputati l’allora direttore Unicredit di Iglesias Stefano Porcu (chiesta condanna al pagamento di 10mila euro), l’ex sottosegretario Economia del Governo Berlusconi Nicola Cosentino (un anno e 6 mesi), l’ex assessore regionale della Campania, oggi sindaco di Pontecagnano, Ernesto Sica (un anno e 6 mesi), e l’ex primo presidente della Cassazione Vincenzo Carbone (5 anni). L’assoluzione è stata chiesta per Marcello Garau, che nella vicenda era coinvolto nella veste di dirigente del comune di Porto Torres.

(Fonte)

 

Nel merito. Ecco le bugie del Sì.

(di Lorenza Carlassare)

Le ragioni del «no» sono persino troppe. Una forte mobilitazione è indispensabile per opporsi a una riforma costituzionale costruita sul falso e sull’inganno che cela la sua reale sostanza, antidemocratica e illiberale, con trucchi miserabili. Lunga è la catena dei «falsi», a cominciare dagli obiettivi dichiarati:

1. Fine del bicameralismo paritario è l’ingannevole slogan. Ma il Senato, in posizione di parità con la Camera esattamente come adesso, partecipa ancora alla più alta forma di legislazione, la revisione della Costituzione e in molti casi alla legislazione ordinaria. Si approvano infatti secondo le regole del bicameralismo paritario leggi di forte rilievo politico: elezione del Senato (art. 55), referendum, Unione europea, ineleggibilità e incompatibilità con l’ufficio di senatore, elezioni e ordinamento di comuni e città metropolitane, e altre ancora (art. 70, comma 1). Il Senato, inoltre, in modi vari e differenziati, ha voce sulla legislazione intera.

2. Falso è anche l’altro facile slogan: iter legislativo semplificato, mentre l’unica semplificazione non riguarda il procedimento legislativo, ma la fiducia al governo che sarà data dalla sola Camera. Basta leggere i commi 3-4 del nuovo articolo 70 per rendersi conto di come l’iter legislativo venga «semplificato»: «Ogni disegno di legge approvato dalla Camera deve essere immediatamente trasmesso al Senato», il quale, entro dieci giorni, può disporre di esaminarlo, e, nei trenta giorni successivi «può deliberare proposte di modifica del testo», e in tal caso si torna alla Camera per la pronuncia «definitiva».

Lo schema ha però alcune varianti; a seconda della materia su cui verte la legge e dell’atteggiarsi dei consensi, si prevedono iter legislativi diversi per tempi, termini e maggioranze. In conclusione, per «semplificare», al procedimento attuale si sostituisce una pluralità di procedimenti – sette dice Gaetano Azzariti che ha avuto la pazienza di contarli – più l’ulteriore variante di un possibile intervento del governo nel procedimento legislativo (art. 71, ultimo comma). Incertezze e confusioni apriranno conflitti, che la riforma stessa ritiene inevitabili preoccupandosi di indicare chi dovrà comporli: i presidenti di Camera e Senato d’accordo fra loro. E se non trovassero l’accordo? Una «semplificazione complicante», la si potrebbe definire!

3. È falso che il Senato conti poco e non abbia funzioni di rilievo, come si ripete per toglier peso alle critiche verso la sua inqualificabile composizione (consiglieri regionali che si eleggono fra loro ed eleggono 21 sindaci!). Minimizzarne il ruolo fa parte dell’inganno. Tanto rumore per nulla è l’idea che si vuole accreditare: è inutile perder tempo a discutere sulla composizione di un organo che non conta nulla, che fa cose poco importanti. L’argomento, che si ritorce contro chi lo propone – se il Senato non serve a nulla, perché non abolirlo eliminando le enormi spese di apparato, servizi, sede? – è assolutamente falso.

Il Senato partecipa intanto alla funzione legislativa, la più importante funzione da sempre riservata al popolo sovrano o ai suoi rappresentanti che un sistema democratico non consente sia affidata a un organo scollegato dai cittadini. Proprio questa funzione rende quella composizione più difficile da giustificare, per il costante collegamento di essa con il popolo; un principio antico che attraversa la storia, dai pensatori medievali come Marsilio da Padova, ai massimi giuristi della modernità come Hans Kelsen. L’affermazione di poter fare, da solo, le leggi del suo regno fu una delle accuse a Riccardo II, che poi ritorna negli atti di deposizione di Giacomo II e Carlo I. E su quel principio, risalente agli albori della storia, si basa per intero la nostra struttura costituzionale: la sovranità – disse Meuccio Ruini alla Costituente – «spetta tutta al popolo», e dunque, «il fulcro dell’organizzazione costituzionale» è nel parlamento «che non è sovrano di per sé stesso, ma è l’organo di più diretta derivazione del popolo: e come tale […] ha la funzione di fare le leggi». L’anomala composizione del Senato figlio della riforma, in una democrazia non è assolutamente compatibile con le funzioni ad esso attribuite. Ma il governo non ha consentito ripensamento alcuno.

Al Senato, oltre alla legislazione, restano altre rilevanti funzioni co-stituzionali come l’elezione del presidente della Repubblica e dei giudici costituzionali; e qui, addirittura, grazie alla riforma, il Senato aumenta il suo peso e i senatori diventano determinanti in una scelta tanto delicata per l’equilibrio delle istituzioni di garanzia.

4. È falso che la riforma aumenti le garanzie, come si insiste a dire della modifica delle maggioranze necessarie all’elezione del presidente della Repubblica, organo di garanzia che deve essere super partes. Ad evitare che diventi, invece, espressione della maggioranza di governo la Costituzione esige un ampio consenso: per le prime tre votazioni la maggioranza dei due terzi, dal quarto scrutinio in poi, la maggioranza assoluta dei componenti. La riforma invece, a partire dal settimo scrutinio, prescrive la «maggioranza dei tre quinti dei votanti». La modifica è presentata come un vanto della riforma; sostituendo la maggioranza assoluta (metà più uno) con i tre quinti – si dice – si alza il quorum necessario all’elezione del capo dello Stato e dunque si aumenta la garanzia. Una falsità anche questa, ma il trucco è evidente: la nuova maggioranza richiesta è di tre quinti dei «votanti», non più dei «componenti»; il che fa una bella differenza! La norma svuotata di senso rende agevole al governo e ai suoi fedeli eleggere («portarsi a casa», nel linguaggio del premier e della sua ministra) un presidente su misura. Nel segno del comando, si potrebbe dire, dell’unico comando, che non deve trovare ostacoli sul suo cammino; tantomeno un capo dello Stato indipendente, garante della Costituzione!

Ma è solo un tassello del disegno complessivo. Sempre in tema di istituzioni di garanzia, nella legge di riforma la competenza a eleggere cinque giudici della Corte costituzionale non è più del parlamento in seduta comune; tre li elegge la Camera, che ha 640 membri, e due il Senato che ne ha 100. I numeri parlano. Il divario di potere tra Camera e Senato è evidente, com’è evidente la voglia di mettere le mani sulla Corte attraverso i senatori, «uomini di paglia», la cui obbedienza è persino più sicura di quella di deputati, eletti con una legge truccata, ma pur sempre «eletti» dal popolo.

5. È falso che la riforma costituzionale non cambi la forma di governo. È vero che il testo non ne parla, ma il trucco è proprio qui. La trasformazione risulta da un disegno complessivo il cui perno non è la riforma costituzionale ma la legge elettorale, approvata anch’essa con frenetica velocità perché, senza l’Italicum, la riforma costituzionale non poteva raggiungere l’obiettivo finale: verticalizzare il potere e gestirlo senza ostacoli e limiti.

Siamo di fronte a un doppio inganno (o doppia «furbata»): il primo sta nel modificare la forma di governo in modo indiretto (e meno appa-riscente) con legge ordinaria, la legge elettorale e il suo bel «premio», perno di tutto. Il secondo inganno sta nell’apparente rispetto della condizione richiesta dalla Corte costituzionale per l’attribuzione del premio, l’indicazione di una «soglia». Ma la soglia del 40 per cento prevista dall’Italicum è del tutto fittizia, è apparenza pura, scritta per non mostrare in modo vistoso il contrasto con la sentenza 1/2014. Il 40 per cento in realtà non interessa a nessuno, è un semplice schermo; se non lo si raggiunge, interviene infatti il ballottaggio per il quale nessuna soglia è richiesta. Il trucco è qui, attraverso il ballottaggio il legislatore ha aggirato la sentenza costituzionale: le due liste più votate partecipano qualunque percentuale abbiano ottenuto al primo turno. Così, anche conseguendo un risultato modesto (il 20 per cento o meno) chi vince piglia tutto, e una minoranza esigua, grazie al premio, può dominare il sistema intero: parlamento, governo, istituzioni di garanzia.

Il ballottaggio è la chiave per cambiare la forma di governo, per arrivare in modo traverso all’elezione diretta del premier. Due liste vi partecipano e, nella competizione a due, il vincitore, forte della vittoria, tenderà ad attribuire al voto popolare il valore di un’investitura personale. Così il ballottaggio, fase finale del procedimento di elezione della Camera dei deputati, assumerà il senso di una decisione popolare finalizzata a investire di potere il governo e il suo capo. Il quale – come già Berlusconi – potrà definirsi «l’unto del Signore».

Senza mutare il testo si supera la forma di governo parlamentare; e non per avvicinarsi al modello presidenziale americano col suo sistema di «freni e contrappesi», di limiti reciproci fra «poteri» rigorosamente separati e indipendenti, ma piuttosto al modello autoritario novecentesco che l’Italia ha costruito ed esportato.

6. È falso che la riforma non tocchi la forma di Stato: la democrazia costituzionale ne risulta travolta. Travolta per primo è il sostantivo, «democrazia». I cittadini alla fine sono rimasti senza voce: con un Senato non più eletto dal popolo ma da consiglieri regionali che si eleggono fra loro; con le province abolite che però funzionano ma senza un organo eletto dai cittadini; con una Camera dove, alterata la rappresentanza, domina una maggioranza artificiale creata distorcendo l’esito del voto. Una Camera in cui una simile maggioranza – che può essere una minoranza esigua – è in grado di dominare le istituzioni tutte estendendo la sua influenza oltre la sfera politica, alle stesse istituzioni di garanzia. Così un gruppo di potere può dominare senza trovare limiti politici – le altre forze sono ridotte all’irrilevanza – e neppure limiti giuridico-costituzionali.

Neutralizzati i contrappesi del sistema costituzionale repubblicano, nessun limite infatti è stato creato dal nuovo sistema per contenere l’enorme potere prodotto dai meccanismi distorsivi; nessun freno è posto al concentrarsi di potere nel governo e nel suo capo cui il parlamento non si contrappone, obbedisce. Troppo forte è il vincolo creato dai meccanismi elettorali perché i parlamentari, legati a doppio filo a un vertice da cui dipende la loro rielezione, possano mostrarsi indipendenti.
«Democrazia costituzionale» rischia così di divenire espressione vuota: travolto il sostantivo, è travolto anche l’aggettivo che la qualifica. Il potere, senza limiti e freni, potrà dispiegarsi liberamente, alla faccia del costituzionalismo, della separazione dei poteri, degli «immortali princìpi del 1789», che Mussolini odiava. Non dobbiamo permetterlo!

Il referendum non è – non deve essere – scontro su una persona: non interessa la sorte di Renzi, interessa salvare la «democrazia costituzionale», i nostri diritti, i valori repubblicani. Un triste conformismo vela la vita della Repubblica; la libera stampa, l’informazione tutta già ne risente. Vogliamo liberarci dal pericolo che la nebbia offuschi il nostro orizzonte.

Micromega online, martedì 1 Novembre 2016

L’ultima trovata per il referendum: trumpizzare Renzi. A proposito di stare nel merito. Appunto.

Quindi mentre Trump si insedia alla Casa Bianca e un po’ dappertutto si chiede di cominciare a fare politica concreta, quella che cambia per davvero e incide, quella che risolve i problemi considerati “bassi” come il lavoro, il reddito troppo basso, la difficoltà di assistenza sanitaria e l’accesso ai servizi di base, Jim Messina, l’americano arrivato a Palazzo Chigi per rivoluzionare la comunicazione di Matteo Renzi, pensa a un processo di “trumpizzazione” del premier? Ecco cosa scrive l’Huffington Post:

«Al comitato Basta un Sì oggi scatta la parola d’ordine: insistere sul messaggio che dipinge “quelli del No come la casta, quelli del Sì per il cambiamento”. Di primo mattino il sito del comitato per il Sì sfodera un post con i volti del No: da D’Alema a Fini, Meloni, Quagliariello, Ferrero, fino a Rodotà. “Il cambiamento vota Sì, la casta vota No”.

Così Renzi cerca di spogliarsi dall’abito di establishment che indossa da quando è al governo, anche solo per semplici motivi istituzionali. La convinzione emersa dalle riunioni con i suoi tra ieri sera e stamattina è che l’unico modo per vincere il 4 dicembre è riuscire a identificarsi con l’anti-sistema, la forza del cambiamento rispetto a un sistema che ha governato in Italia negli ultimi 30 anni.»

Sempre per stare nel merito. Appunto.

Nel merito. La risposta a chi dice che il NO è conservatore. Di Carlo Smuraglia.

Non solo non lo sono, ma sono veri conservatori, invece, quelli che vogliono “conservare” il peggio della politica, lasciando da parte i problemi di fondo; ad esempio: l’attuazione della Costituzione, la garanzia di un lavoro dignitoso, libero e sicuro, la messa in sicurezza del territorio, la custodia e lavalorizzazione dell’immenso patrimonio artistico e naturale di cui può vantarsi il nostro Paese?

La risposta sarebbe facile; ma poiché molti insistono nel sostenere che il sistema prospettato con la riforma è il migliore possibile e che d’altronde non abbiamo indicato nessuna soluzione alternativa, perché siamo solo capaci di criticare, senza riuscire a proporre nulla di serio, tornerò ad una data insospettabile, assai prima della campagna referendaria e riprodurrò qui il testo di una parte del discorso che ho tenuto al Teatro Eliseo, il 29 aprile 2014, quando si stava cominciando a parlare – appunto – della riforma del Senato e l’ANPI decise di entrare in campo, ponendo una questione, essenzialmente, di democrazia

A fronte del progetto di eliminare il “bicameralismo perfetto”, come se fosse il male peggiore del mondo, osservavo che una correzione si poteva certamente fare, differenziando anche il lavoro delle due Camere, ma ad alcune imprescindibili condizioni, che riproduco testualmente qui di seguito, proseguendo poi col ragionamento conclusivo che ritenevo di svolgere e che trovo, oggi più che mai, valido.

Dunque, le condizioni fondamentali erano cinque:

a) che si mantenga il sistema elettivo

b) che si colga l’occasione per trasformare il Senato in una vera camera Alta, per la rappresentatività, per la qualità dei componenti, per il tipo di funzioni

c) che contemporaneamente si faccia una legge elettorale conforme alle indicazioni della Corte Costituzionale, sì da ridare possibilità di scelta ai cittadini, consentendo forme effettive di rappresentanza (senza esclusioni eccessive); limitando il premio di maggioranza a misure ragionevoli.

d) che si indichino forme adeguate per qualificare (nel senso di migliorare, per qualità e competenza) la composizione del Senato (autonomia, competenza culturale e scientifica, non interessi corporativi).

e) che si riservino ai regolamenti parlamentari la disciplina dei tempi ed i casi di priorità, ponendo fine al sistema per cui sono i Governi che dettano tutto, perfino i tempi della discussione, sempre in nome della governabilità.

Quanto ai modelli, la scelta è molto ampia, fra i modelli studiati e quelli sperimentati. Va notato, peraltro:

1. Al di là della conta numerica, che non ha significato, il dato è che tutti i Paesi del G8 sono bicamerali; quindici Paesi del G20 sono bicamerali; quattro miliardi di persone su 5,5 (esclusa la Cina, che fa parte a sè) sono rappresentati da sistemi bicamerali: tutte le grandi democrazie adottano il modello bicamerale (un vero modello bicamerale, nel senso che le due Camere hanno pari rilievo e pari autorevolezza), particolarmente diffuso quanto più il Paese è caratterizzato da complessità;

2. I Senati, in genere, rappresentano uno strumento di equilibrio e di riflessione nei confronti della Camera bassa, espressione della maggioranza di Governo;

3. Un bicameralismo vero (ancorché differenziato) garantisce, secondo la diffusa opinione degli esperti e studiosi, una migliore qualità della legislazione e una maggiore stabilità dell’ordinamento giuridico;

4. Sui metodi di elezione, esistono due grandi criteri: Senatori eletti direttamente e Senatori eletti in secondo grado, a cui si aggiunge il gruppo dei Senatori eletti con sistema misto. L’elezione di secondo grado non è mai occasionale, ma è sempre diretta allo scopo specifico di comporre il Senato con persone elette specificamente per quella funzione. Non è concepibile, in nessuno dei Paesi europei, un Senato di serie B, composto di “volontari” elettiper fare altre cose.

5. Il Senato, come strumento di governo delle complessità, si esprime particolarmente attraverso:- la funzione di Camera di riflessione nel procedimento legislativo (salvo alcune materie di rilievo sulle quali si esprime in forma di compartecipazione).

– la funzione di controllo dell’attività di Governo rispetto alla possibilità di “dittatura della maggioranza”; e di trasparente monitoraggio sull’azione dell’esecutivo, sulle nomine, sugli enti pubblici, ecc.;

– la funzione di raccordo ed espressione delle entità e realtà territoriali che costituiscono lo Stato.

6. I processi di riforma del Senato nell’ultimo ventennio, nei Paesi di maggior rilievo, presentano queste caratteristiche comuni:

a) differenziazione tra i due rami del Parlamento

b) specializzazione “alta” delle funzioni del Senato

c) tendenza ad incrementare la democraticità complessiva

d) garanzia di maggiore efficacia nel rappresentare i territori, nei rapporti

di carattere internazionale e nei diritti fondamentali dei cittadini;

e) esigenza di razionalizzazione nei rapporti con l’esecutivo

f) rafforzamento dell’equilibrio dei poteri

g) esaltazione della funzione di raccordo con le realtà territoriali e istituzionali.

In conclusione, i modelli possono essere diversi, ma hanno molte caratteristiche comuni, tra cui il rafforzamento (con funzioni differenziate) di una Camera che deve essere “ALTA” per qualificazioni e per competenze, deve avere funzioni di equilibrio di poteri, deve consentire una piena rappresentatività dei cittadini.

Tendenze che rendono ancora più evidenti le linee da perseguire nel nostro caso, anziché pensare ad una legge elettorale antidemocratica e anticostituzionale; perché il mix di questi fattori (Senato declassato e legge elettorale che dà un potere quasi esclusivo ad una maggioranza di governo) può essere addirittura disastroso, per gli effetti e gli squilibri che può produrre.

Insomma, sui modelli si può discutere, ma sulle linee di fondo no, perché le stesse tendenze in atto dimostrano che in tutto il mondo avanza l’esigenza di rappresentanza e di democrazia, anche per contrapporsi alle tendenze e spinte di una destra autoritaria e populista.

Su questo dobbiamo attestarci, per avere una riforma del Senato non finalizzata al risparmio, ma ad esigenze di funzionalità e di democrazia.

Abbiamo parlato di una “questione democratica” anche e soprattutto per questo. In tutta Europa avanzano tendenze autoritarie e rigurgiti fascisti o neofascisti; c’è una forte tendenza, in diversi Paesi, a restringere le libertà anziché a renderle effettive. Ebbene, questo è il momento di rafforzare la democrazia, in ogni Paese, non di indebolirla; questo è il momento di assicurare più partecipazione e più diritti ai cittadini, perché facciano sentire non solo la loro voce, ma la forte esigenza di rappresentanza e di sovranità.

Questo era il discorso di due anni fa; l’ho riportato almeno nella parte essenziale, perché costituisce – ancora oggi – la ferma risposta a quanti si vantano di essere innovatori e ci accusano di conservatorismo e di incapacità

Nel frattempo, peraltro, nel corso delle audizioni in Parlamento, durante il cammino della riforma, sono stati ascoltati illustri costituzionalisti, che hanno formulato proposte e fornito indicazioni, ma senza essere ascoltati e presi in considerazione.

Il professor Zagrebelsky mandò una lettera, il 4 maggio 2014, alla Ministra Boschi, col suo parere; e non ebbe -come riferisce in un suo recente libro- alcuna risposta, anche solo in ordine alle proposte alternative che venivano avanzate.

Tutto questo non solo smentisce certe accuse, ma la dice lunga circa le reali intenzioni dei promotori della riforma del Senato.

Carlo Smuraglia, Anpinews – n. 222 – 8/15 novembre 2016

Dai che si riparte. #TourRicostituente

Domani a Rieti, poi Verona, poi Tradate, poi Cavriago, poi Busto Arsizio, poi Reggio Emilia, poi Milano, poi Bologna e così via. Da qui alla data del referendum il Tour Ricostituente accelera in giro per il Paese. E poi c’è il sito io iovoto.no e le infografiche, le Faq per rispondere a chiarimenti e obiezionie il calendario di tutti i compagni di viaggio.

Per vedere tutte le date vi basta andare qui (e molte date saranno aggiunte nei prossimi giorni, in continuo aggiornamento) e ogni serata è un confronto di idee. Tutti dentro, nessun fuori fuori. E soprattutto con l’impegno di pensare anche e soprattutto al 5 dicembre perché c’è un Paese da costruire, al di là di tutto. Perché la priorità è studiare senza sosta il modo di applicare la Costituzione. Altro che modificarla.