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Politica

I temi e le news della politica in Lombardia e in Italia. L’attività politica di Giulio Cavalli in consiglio regionale della Lombardia.

“Reset”: a Bagheria maxi operazione contro Cosa Nostra

Alba calda a Bagheria. E questa volta non è un film.

Ne scrive Felice Cavallaro:

Un assedio per disarticolare con i 500 carabinieri schierati la nuova mafia della città natale di Guttuso e Tornatore, Ignazio Buttitta e Dacia Maraini, purtroppo famosa per essere diventata in passato rifugio di Bernardo Provenzano. Città ricca di arte e contraddizioni, adesso consegnata alla cronaca come roccaforte di un “direttorio”, un vertice strategico, “un organo decisionale provinciale” come lo definisce il comandante provinciale dei carabinieri di Palermo, colonnello Pierangelo Iannotti, insistendo sull’immagine popolare e letteraria della “testa dell’acqua” cui doveva “obbedienza anche il reggente operativo del mandamento”.
Identificati gli esecutori materiali di alcuni omicidi come quello di Antonino Canu, ucciso nella vicina Caccamo il 27 gennaio 2006 e di un tentato omicidio consumato l’anno precedente nello stesso paese contro Nicasio Salerno. Ecco alcuni degli episodi addebitati dai magistrati della Direzione distrettuale antimafia a capi e gregari del mandamento mafioso di Bagheria ritenuti responsabili, a vario titolo, di associazione per delinquere di tipo mafioso, omicidio, sequestro di persona, estorsione, rapina, detenzione illecita di armi da fuoco e danneggiamento a seguito di incendio.
I risultati di approfondite indagini hanno consentito di documentare anche 44 estorsioni, quattro danneggiamenti a seguito di incendio, una rapina e una tentata rapina. Sventati inoltre quattro progetti di rapina grazie all’intervento “preventivo” dei carabinieri che illustrano i dettagli dell’operazione con una conferenza stampa al palazzo di giustizia di Palermo.Un assedio per disarticolare con i 500 carabinieri schierati la nuova mafia della città natale di Guttuso e Tornatore, Ignazio Buttitta e Dacia Maraini, purtroppo famosa per essere diventata in passato rifugio di Bernardo Provenzano. Città ricca di arte e contraddizioni, adesso consegnata alla cronaca come roccaforte di un “direttorio”, un vertice strategico, “un organo decisionale provinciale” come lo definisce il comandante provinciale dei carabinieri di Palermo, colonnello Pierangelo Iannotti, insistendo sull’immagine popolare e letteraria della “testa dell’acqua” cui doveva “obbedienza anche il reggente operativo del mandamento”.

A finire in manette sono in 31. fra questi c’è Carlo Guttadauro – fratello di Filippo e Giuseppe – di Aspra. Fermato anche Giuseppe Comparetto, ritenuto “uomo d’onore” di Villabate, ed Emanuele Modica, di Casteldaccia, considerato affiliato alla mafia canadese, che nel 2004 scampò alla morte in un agguato a Montreal.

Fra i capi dell’organizzazione c’era Giuseppe Di Fiore , ritento in gergo “la testa dell’acqua”, al quale doveva obbedienza anche il reggente operativo del mandamento.

In manette nell’operazione denominata “Reset”, anche Antonino Messicati Vitale, rientrato in Italia da pochi mesi (dopo una breve latitanza a Bali, dove era stato individuato e arrestato) e scarcerato per un cavillo.

Tra i fermati ci sono Giuseppe Di Fiore, Giovanni Pietro Flamia, Salvatore Lo Piparo, Giovanni Di Salvo, Michele Modica ed Emanuele Cecala,

Cosca Crea: 16 arresti

Sono 16 le persone arrestate dalla polizia di Stato di Reggio Calabria, accusate, a vario titolo, di associazione mafiosa, estorsione e intestazione fittizia di beni. L’operazione degli uomini della squadra mobile e del commissariato di Gioia Tauro, coordinati dal servizio centrale operativo, ha consentito di svelare le molteplici attività criminali della potente cosca Crea, egemone nel comprensorio di Rizziconi (Rc), con particolare riferimento all’ingerenza nelle attività pubbliche della località reggina.

Fondamentale per le indagini è stato anche il contributo dell’ex sindaco di Rizziconi, eletto nel marzo 2010 alla guida di una lista civica, il quale, sin dal momento della sua elezione, ha avviato una collaborazione con la polizia di Stato e la magistratura, denunciando irregolarità, anche di natura penale, nella gestione dell’amministrazione comunale e finalizzata a favorire gli interessi illeciti della cosca Crea. Numerose minacce e intimidazioni di sodali della cosca nei confronti del sindaco causarono, quindi, nell’aprile 2011, le dimissioni di tutti i consiglieri comunali ed il successivo scioglimento degli organi di governo di Rizziconi, per l’evidente ingerenza criminale posta in essere.

Nel corso dell’operazione sono stati sequestrati anche beni, riconducibili alla famiglia Crea, tra cui ville e terreni, oltre che conti correnti bancari, per un valore complessivo quantificabile in oltre 5 milioni di euro.

L’antimafia faccia autocritica

Pubblichiamo la prefazione di Domenico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta, al libro “Dalla parte sbagliata”, di Rosalba Di Gregorio e Dina Lauricella, edito da Castelvecchi.

Normalmente chi scrive la prefazione ha piena conoscenza del libro. Io ammetto di non averla, e per questo la mia è una «prefazione anomala». Ma conosco le autrici. E di loro parlerò. Conosco la vicenda, di cui non parlo, ma penso di avere il dovere, dopo le prime sentenze vicine al giudicato, di stimolare una riflessione che sino ad oggi è, incredibilmente, mancata.

E allora, parlando in primis delle autrici, dico che Dina Lauricella mi è sembrata una giornalista indipendente e autonoma. Non fa parte di cordate, e pensa con la sua testa. Qualità rare e importanti. Quanto all’avvocato Di Gregorio, «l’avvocato del Diavolo», cosa dire? Rosalba è una persona che ha una faccia sola. Ha sempre detto, ostinatamente, le stesse cose sul processo di via D’Amelio. Ha sempre detto le stesse cose sui collaboratori. A viso aperto, sopportando, secondo me, conseguenze che l’hanno fatta diventare «un avvocato di mafia», del Diavolo, appunto.

Rosalba non è un avvocato di mafia. È un avvocato. E la parola «avvocato» non dovrebbe sopportare ulteriori specifiche. A meno che non si voglia indicare, con quel termine, che si occupa soprattutto di processi di mafia. Il che farebbe anche di principi del Foro antimafia «avvocati di mafia». E a Milano, chi difende i corruttori, come dovremmo chiamarli? «Avvocati della corruzione»? La verità è che la «colpa» di Rosalba è di difendere, e bene, i mafiosi. Ma è una colpa questa? E può essere all’origine di una «messa all’indice» professionale?

La verità è che dovremmo limitarci ad ammettere i nostri errori. Dopo le sentenze già intervenute sulBorsellino quater, e senza discutere di prove, dobbiamo o no discutere di questa giustizia, di questa stampa, di questa società, che secondo me, negli anni Novanta, hanno, almeno in parte, fallito? Dobbiamo discutere di chi ha consegnato per 17 anni le chiavi della vita di sette persone innocenti per il reato di strage ad un falso pentito, Scarantino?

Dobbiamo avere il coraggio di discutere di una regola, quella della «frazionabilità» delle dichiarazioni dei collaboranti, che forse andrebbe ripensata, perché consente a «collaboranti» scarsamente credibili in via generale di essere utilizzati «per ciò che serve», aprendo il fianco a possibili strumentalizzazioni probatorie? Dobbiamo discutere del fatto che, pur con tutte le considerazioni contenute nelle passate tre sentenze sulla poca credibilità di Scarantino – il processo basato sulle sue dichiarazioni è arrivato sino all’ultimo grado, ed è stato approvato anche in Cassazione?

Cosa non ha funzionato? Abbiamo il dovere di chiedercelo. Perché io penso che in questa triste storia nessuno dei relè dello Stato democratico ha funzionato a dovere. Non ha funzionato la Polizia. Non ha funzionato la Magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato ilCsm. Non ha funzionato la cosiddetta Dottrina. Ma, soprattutto, non ha funzionato la «libera stampa», che dovrebbe essere, e non lo è stata, il vero cane da guardia di una democrazia.

Solo un «avvocato di mafia» ha gridato le sue urla nel vuoto. Sin quando, fortunatamente, grazie a nuove prove, la stessa Giustizia ha avuto il coraggio di autoriformarsi. Ma alti sono i prezzi pagati per questo, soprattutto all’interno delle forze dell’ordine. È accettabile tutto questo? Sono accettabili questi 17 anni? E, soprattutto, dobbiamo chiederci con trepidazione: potrebbe nuovamente accadere, magari sta già riaccadendo, quanto è avvenuto in quella occasione?

E allora, per evitarlo, devono assisterci i principi generali delle democrazie cosiddette «occidentali». Il diritto di difesa non è un optional. È un principio cardine delle democrazie, per l’appunto, «di diritto». Il difensore di un mafioso non può divenire, per il solo fatto di difendere un mafioso, inattendibile e pericoloso. La verità la può dire un famoso procuratore antimafia, come anche un «avvocato di mafia». Come tutti e due possono andare dietro ad abbagli.

Tutto questo, lo capisco, ci costringe a una fatica immane: non ragionare per schemi (buono-cattivo; mafioso-antimafioso) ma ragionare con la nostra testa. Criticando. Leggendo. Facendoci le nostre personali idee. Ma in questo deve aiutarci una stampa autenticamente indipendente. Una stampa che non si schieri né a favore «a priori», né contro «a priori». E necessitiamo di una magistratura aperta ad essere criticata (se le critiche non sono preconcette), e rispettosa dei diritti della difesa. Perché il processo, ricordiamocelo, è, come dicevano i romani, actus trium personarum, è un rito che richiede il necessario intervento di tre persone: il Giudice, il Pubblico Ministero, e la Difesa. Solo così, tenendo in debito conto tutti questi attori, si può arrivare ad accertare una «verità processuale» che assomigli il più possibile alla Verità.

In ultimo, qualche breve considerazione, permettetemi, sul cosiddetto fronte antimafia: il movimento antimafia, che è di importanza basilare in uno Stato democratico, deve però essere anch’esso democratico, e rispettoso delle opinioni di tutti. «Non condivido la tua idea, ma darei la vita perché tu la possa esprimere», diceva qualcuno più saggio di me. Isoliamo gli intolleranti per mestiere. Perché dobbiamo viverci tutti insieme, in questo nostro Stato. E dobbiamo edificarlo tutti insieme, su solide basi di verità, anche a costo di ammettere verità scomode. È un debito, questo della verità, che tutti dobbiamo pagare a chi, in quegli anni, perse la vita per una idea di Giustizia e di antimafia.

 di Nico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta

Sulla questione vitalizi/mafia/Cuffaro mi scrive Francesco Forgione

Sulla questione siciliana Francesco Forgione chiarisce:

Caro Giulio, come sai sono agli atti del parlamento siciliano le due mozioni di sfiducia a Cuffaro quando era padrone della Sicilia e non ora che è un carcere. Tutte e due hanno come primo firmatario, Francesco Forgione, la mia firma. Non posso quindi essere accusato di accondiscendenza al cuffarusmo. Ma quello che scrivi è una bufala e se fossi stato ancora all’Ars, comparirei nella lista nera grillina. Forse questi deputati non hanno letto statuto autonomista e costituzione repubblicana che assegnano al parlamento italiano e non alle regioni potere esclusivo in materia di giustizia e pene. Qui di anche le pene a censorie come l’interdizione dai pubblici uffici che determina la decadenza o meno del vitalizio a Cuffaro. Tra l’altro la legge Severino prevede la decadenza del vitalizio per i testi di corruzione e non di mafia ma solo per le regioni e non per il parlamento. Così succederà che Cuffaro non avrà più il vitalizio siciliano per le condanne contro la PA, ma prenderà quello del senato, e così anche dell’Utri. In questo caso l’Ars non poteva votare e decidere niente! Come vedi nella lotta alla mafia bisogna essere seri e rigorosi, sottrarrai alla propaganda e se si legge bene anche la costituzione fa bene alla politica e alla credibilità di chi sta nelle istituzioni non per fare spot ma per dare risposte serie e credibili alle domande sociali e alla ricostruzione dell’etica pubblica. 

A Francesco ricordo che addirittura Formigoni congelò il vitalizio ad un suo compagno di partito (con un escamotage, ovvio) e che la mozione venne modificata in modo unanime e votata per diventare proposta di legge in Parlamento.

 

Il vitalizio ai mafiosi e la vergogna accaduta in Sicilia

Io non so se ci è capitato di leggere cosa è successo in Sicilia, dove con strane geometrie nelle giustificazioni sono riusciti a votare contro l’abolizione dei vitalizi ai condannati per reati di mafia.

hanno mosso una sfida, in questi mesi, quattordici deputati del Movimento 5 Stelle al presidente dell’Ars Giovanni Ardizzone. I deputati condannati per gravi reati come quelli associabili a rapporti con la mafia non devono più percepire il vitalizio previsto dalla legge regionale per i propri deputati, come del resto già avviene per tutti coloro che hanno commesso reati contro la pubblica amministrazione.

La proposta, sin dal primo minuto, ha ricevuto un netto rifiuto da parte del presidente dell’Ars Ardizzone e quindi accantonata per via dei voti contrari di quasi tutti i deputati regionali, ad esclusione di alcuni deputati e dell’intero gruppo dei 5 Stelle.

Lo stesso Movimento 5 Stelle si ribella e decide di pubblicare sul web i nomi dei deputati che hanno votato contro la sospensione del vitalizio ai condannati per mafia.

Ecco la lista dei deputati:

PD:  Mario Alloro, Giuseppe Arancio, Maria Cirone, Giuseppe Lupo, Bruno Marziano, Antonella Milazzo e Giovanni Panepinto.

Articolo 4: come  Luisa Lantieri, Valeria Sudano, Salvatore Cascio, Carmelo Currenti,, Lino Leanza,  Luca Sammartino, Raffaele Nicotra, Paolo Ruggirello e  Salvatore Lentini.

Per la lista Megafono: Giovanni Di Giacinto, Antonio Malafarina.

Per l’Mpa: Giuseppe Federico.

Per Forza Italia: Vincenzo Figuccia e Santi Formica.

Appartenenti al Pid-Grande Sud  Bernadette Grasso, Michele Cimino Roberto Clemente.

Dell’Udc: Nino Dina, Nicola D’Agostino, Mimmo Turano e Orazio Ragusa.

Per il “gruppo misto”: Beppe Picciolo dei Democratici riformisti e Pippo Gianni.

Sulla Spinelli che dovrebbe rinunciare

Sono d’accordo con Christian Raimo:

maxresdefault-640x420Ma soprattutto sarebbe bene realizzare come la rinuncia alla rinuncia, il passo avanti che segue il passo indietro, l’aver prima rappresentato una candidatura-civetta e poi aver rivoluto il posto lasciato a qualcun altro, costituirebbe una ferita non da poco alla faticosa credibilità raggiunta da quest’agglomerato di sinistra, l’ennesimo arcobaleno che diventerebbe nel giro di un attimo una palude brunastra. Vogliamo anche ammettere che non è facile rinunciare se si pensa di essere utili forse, fondamentali, aggreganti. E c’è da dire che Alexis Tsipras la vorrebbe vicepresidente dell’Europarlamento. Ma. Ma per quanto questa prospettiva sarebbe augurabile, mi spiace affermare che la grammatica vuole un altro verbo: questa prospettica sarebbe stata augurabile. Perché Tsipras non ha tirato fuori quest’idea due mesi fa? Perché non ha insistito con i suoi candidati perché le candidature fossero tutte reali e non di facciata? Quanta gente ha votato sapendo che Curzio Maltese sarebbe andato, in caso, a Bruxelles; e quanta gente ha votato sapendo che Moni Ovadia sarebbe rimasto, in caso, a casa sua?

È evidente a chiunque dotato di buon senso che si tratta di un caso lampante di buchi & pezze peggiori dei buchi. Tuttavia Barbara Spinelli ha dalla sua un’arma incredibile. Dire no, vadano Furfaro e Forenza. Dire no, motivando bene questo no. E diventando all’istante una leader credibile di una sinistra allo sbando. Una leader credibile e non, come la chiamano sui giornali, “la figlia di Altiero”. Ma mettiamo il caso contrario: davvero Spinelli ritiene che si debba avallare il fatto che si è costruito un progetto così molteplice per poi convergere su una candidatura personale e non su un progetto. E che non si senta sola a pensarlo. Spinelli e Tsipras questo credono? Dovrebbero – come minimo – argomentarlo per bene. Altrimenti la prossima volta quel milione e centomila persone che gli hanno dato credito, voteranno la Lista Arrosticini. E di quelli, io sono il primo.

Sempre sulla produzione sociale de “L’amico degli eroi”

In molti mi hanno scritto sull’ipotesi di una “produzione sociale” per il nuovo libro e spettacolo “L’amico degli eroi” sulla figura di Marcello Dell’Utri (e gli eroici amici Vittorio Mangano e Silvio Berlusconi): un’inaspettata predisposizione a partecipare che mi onora e responsabilizza e una riflessione importante di Marzia su fb che credo valga la pena discutere. Mi scrive:

In generale (pur lavorando nel settore culturale, che di finanziamenti massicci avrebbe un grande bisogno) sono contraria al crowdfunding e ad altre forme di partecipazione analoga, se non in misura marginale. Lo so, la partecipazione dal basso è la moda del momento, ma penso due cose: 1) le istituzioni hanno il compito di garantire professionalità, imparzialità, sostegno alla cultura e a progetti di ampio respiro: cercare di sostituirsi a questa funzione mi sembra sbagliato e anche poco realistico; 2) i finanziamenti pubblici ai teatri, contrariamente a quanto sostiene Antonio, servono proprio a non finanziare solo quello che ha successo nell’immediato (che si sostiene benissimo da solo), ma a sostenere chi sperimenta e potrebbe essere in grado di realizzare qualcosa di valore, anche se magari sul momento non viene compreso. Metà del catalogo Einaudi, per esempio, è stato disastroso dal punto di vista delle vendite, ma quella parte oggi costituisce proprio la parte più preziosa del catalogo; ecco perché sappiamo che Einaudi era un grande editore: perché sapeva operare scelte lungimiranti, che sono rimaste nella storia della cultura italiana. Farsi finanziare dal basso significa smettere di essere liberi e cominciare a preoccuparsi del successo prima ancora di aver prodotto un’opera di valore. 
Credo che il pubblico generico (sempre più “tuttologo”, purtroppo) debba recuperare la capacità di imparare: non si va a teatro per vedere ciò che conosciamo già, ma per acquisire strumenti nuovi; in questo senso, è il teatrante che educa il pubblico, e non il contrario.

L’osservazione centra due punti importanti: se facciamo teatro e libri solo per quelli che “sanno già” e se debba essere un nostro dovere esercitare il nostro diritto di desiderati equi e giusti finanziamenti pubblici. Provo a rispondere con ordine. Quando preparammo L’innocenza di Giulio io, Gian Carlo Caselli, Carlo Lucarelli e Cisco ci siamo chiesti fin dall’inizio se valesse la pena raccontare per l’ennesima volta la vicenda di Giulio Andreotti, del suo processo palermitano e della finta “assoluzione” che era passata come verità inconfutabile. “Chi viene a vedere uno spettacolo o a leggere un libro sulle malefatte di Andreotti se lo considera innocente?” ci si diceva, e avevamo torto: i liettori e gli spettatori sono stati spesso persone approssimativamente informate che avevano un sentimento più che un’opinione e ci hanno ringraziato per avere avuto a disposizione elementi reali per costruire (e condividere) un giudizio. Ma non è tutto: ho incontrato assoluti innocentisti che hanno comunque riconosciuto un atteggiamento di Andreotti eticamente condannabile pur ritenendolo doveroso per il risultato politico. Cosa deve produrre uno spettacolo e un libro? Un dubbio, un dibattito e quindi L’innocenza di Giulio ha fatto il proprio dovere costringendo gli innocentisti a confutare punto per punto i fatti raccontati e aumentando le conoscenze a disposizione dei colpevolisti “per sentito dire”.

Il secondo punto è quello che riguarda i produttori e i finanziatori. La battaglia per una politica culturale giusta è sacrosanta soprattutto in questa Italia che negli ultimi governi di tutti questi anni non ha voluto e saputo fare niente di più che tagliare in modo lineare, i finanziamenti al teatro sono figli di una congregazione di baronie che spesso risultano illeggibile dall’esterno se non per storicità degli operatori e un presunto prestigio facile a costruirsi con quelle disponibilità economiche ma io sono un teatrante e quindi ho l’obbligo di curare le mie produzioni per vivere e per esistere quindi se aspettassi un’economia di settore giusta sparirei ben prima che questa avvenga come avviene per tutte le imprese del sistema italiano. Quindi produco e porto avanti una battaglia politica, contemporaneamente e trovo lineare non modificarmi geneticamente per accedere al sistema che combatto. No? In più Marcello Dell’Utri ha ancora una vasta influenza politica, non nascondiamocelo per favore, soprattutto su Milano e Lombardia.

Sulla moda del finanziamento dal basso devo dire che la trovo un’ottima moda: garantisce trasparenza (chi paga vuole sapere esattamente i costi e il processo artistico che porta al risultato finale), assicura una libertà di manovra maggiore (avete mai avuto a che fare con assessori o commissioni?) ed è una promessa che chiede lealtà. E la lealtà è un ingrediente bellissimo per fare cultura. Per questo se qualcuno decide di acquistare un libro quando ancora non esiste e di assistere ad uno spettacolo ancora in preparazione credo che ci sia solo da essere fieri e responsabilizzati. Noi ci stiamo pensando sul serio.