Vai al contenuto

Blog

Equivicini

Quindi alla fine mi dicono che quelli di SEL dovrebbero essere “equidistanti” (dicono così ma qualcuno è piuttosto “equivicino”) dal congresso del PD. La direzione suggerita non mi stupisce (del resto ne avevo già parlato qui e già non avevo capito qui) ma non la condivido. O si ha la forza di prendere le distanze dal PD (a cascata dappertutto, eh) o si decide di condizionarlo (era il mantra e la promessa della dirigenza in campagna elettorale): aspettare di vedere cosa succede per trovare una narrazione post-congresso mi sembra una pessima idea.

Anzi, sarebbe bello che ci fosse una stessa mozione al congresso Pd e al congresso di SEL (ci sarà, no?). Allora come farebbero gli equivicini?

Resistere, ri-esistere, esistere tutti i giorni

Ecco questa sera prima di andare a dormire ho pensato che dovremmo tenerci strette le parole. Non è un lavoro di scrittori e di lettori, no, non solo; tenerci strette le parole (e noi insieme a loro) da questa afa torrentizia che vorrebbe diluirci allo scoramento, alla speranza lunga al massimo fino alla prossima settimana e al furto del diritto di avere ambizioni di dignità rotonda e completa.

Non accetto più chi mi dice che tanto è così, che così fan tutti e che sono tutti uguali. Basta. Davvero. Non voglio più averci a che fare con le vittime che credono di essere profeti forti solo dell’inoculato senso di superiorità del pessimismo. Siamo diventati fuori moda noi estremisti dell’ottimismo, della speranza e del dovere di evoluzione morale? Oh, beh, me ne fotto: non sopporto il senso di galleggiamento come oppio per una dolce rassegnazione e nemmeno l’indignazione inconcludente come placebo per dormire senza incubi. Rivendico la resistenza nel senso più profondo di imporsi di esserci tutto il giorno tutti i giorni in tutto quello che ci succede in ogni giorno. Mica roba da eroi, anche questo basta per favore o mio dio, ma da resistenti quotidiani: partigiani ordinari nello stare insieme, nel professare professionalità da rispettare nel proprio mestiere, nell’amare le fragilità e nel praticare lealtà.

Per provare a cambiare il mondo bisogna essere capaci di farci cambiare dal mondo. O no?

Ma perché?

Ma perché mentre si continua a parlare tra falchi e colombe della condanna per evasione fiscale di Silvio Berlusconi nessuno si è accorto (o ha voluto accorgersi) delle motivazioni allegate alla sentenza di condanna per Marcello Dell’Utri dove l’evasore Berlusconi viene riconosciuto inopportunamente vicino a Cosa Nostra?

Perché nessuno ha dato peso politico al fatto che  “è stato acclarato definitivamente che Dell’Utri ha partecipato a un incontro organizzato da lui stesso e (dal mafioso palermitano Gaetano) Cinà a Milano, presso il suo ufficio. Tale incontro, al quale erano presenti Dell’Utri, Gaetano Cinà, Stefano Bontade, Mimmo Teresi, Francesco Di Carlo e Silvio Berlusconi, aveva preceduto l’assunzione di Vittorio Mangano presso Villa Casati ad Arcore, così come riferito da Francesco Di Carlo e de relato da Antonino Galliano, e aveva siglato il patto di protezione con Berlusconi”?

Perché, al di là della frode fiscale, non si parla del fatto che “in virtù di tale patto – l’incontro- i contraenti (Cosa nostra da una parte e Silvio Berlusconi dall’altra) e il mediatore contrattiale (Marcello Dell’Utri), legati tra loro da rapporti personali, hanno conseguito un risultato concreto e tangibile, costituito dalla garanzia della protezione personale dell’imprenditore mediante l’esborso di somme di denaro che quest’ultimo ha versato a Cosa nostra tramite Marcello Dell’Utri che, mediando i termini dell’accordo, ha consentito che l’associazione mafiosa rafforzasse e consolidasse il proprio potere sul territorio mediante l’ingresso nelle proprie casse di ingenti somme di denaro”?

Perché non si dice che Berlusconi pagò 100 milioni di lire al mafioso Cinà per avere protezione?

Perché il centrosinistra è così lontano dalla legalità come non mai e vorrebbe insegnarci che chi la rincorre è solo un’anima bella? Quanto comodo fa tutto questo silenzio sulla sentenza Dell’Utri? A chi?

Stanotte conto le domande. Mica le pecore.

Perché scrivo (di Italo Calvino)

Incontro con Italo CalvinoScrivo perché non ero dotato per il commercio, non ero dotato per lo sport, non ero dotato per tante altre, ero un poco…, per usare una fase famosa [di Sartre], l’idiota della famiglia… In genere chi scrive è uno che, tra le tante cose che tenta di fare, vede che stare a tavolino e buttar fuori della roba che esce dalla sua testa e dalla sua penna è un modo per realizzarsi e per comunicare.

Posso dire che scrivo per comunicare perché la scrittura è il modo in cui riesco a far passare delle cose attraverso di me, delle cose che magari vengono a me dalla cultura che mi circonda, dalla vita, dall’esperienza, dalla letteratura che mi ha preceduto, a cui do quel tanto di personale che hanno tutte le esperienze che passano attraverso una persona umana e poi tornano in circolazione. È per questo che scrivo. Per farmi strumento di qualcosa che è certamente più grande di me e che è il modo in cui gli uomini guardano, commentano, giudicano, esprimono il mondo: farlo passare attraverso di me e rimetterlo in circolazione. Questo è uno dei tanti modi con cui una civiltà, una cultura, una società vive assimilando esperienze e rimettendole in circolazione (1983).

Scrivo perché sono insoddisfatto di quel che ho già scritto e vorrei in qualche modo correggerlo, completarlo, proporre un’alternativa. In questo senso non c’è stata una “prima volta” in cui mi sono messo a scrivere. Scrivere è sempre stato cercare di cancellare di già scritto e mettere al suo posto qualcosa che ancora non so se riuscirò a scrivere.

Scrivo perché leggendo X (un X antico o contemporaneo) mi viene da pensare: “Ah, come mi piacerebbe scrivere come X! Peccato che ciò sia completamente al di là delle mie possibilità!”. Allora cerco di immaginarmi questa impresa impossibile, penso al libro che non scriverò mai ma che mi piacerebbe poter leggere, poter affiancare ad altri libri amati in uno scaffale ideale. Ed ecco che già qualche parola, qualche frase si presentano alla mia mente… Da quel momento in poi non sto più pensando a X, né ad alcun altro modello possibile. È a quel libro che penso, a quel libro che non è stato ancora scritto e che potrebbe essere il mio libro! Provo a scriverlo…

Scrivo per imparare qualcosa che non so. Non mi riferisco adesso all’arte della scrittura, ma al resto: a un qualche sapere o competenza specifica, oppure a quel sapere più generale che chiamano “esperienza della vita”. Non è il desiderio di insegnare ad altri ciò che so o credo di sapere che mi mette voglia di scrivere, ma al contrario la coscienza dolorosa della mia incompetenza. Il mio primo impulso sarebbe dunque di scrivere per fingere una competenza che non ho? Me per essere in grado di fingere, devo in qualche modo accumulare informazioni, nozioni, osservazioni, devo riuscire a immaginarmi il lento accumularsi dell’esperienza. E questo posso farlo solo nella pagina scritta, dove spero di catturare almeno qualche traccia d’un sapere o d’una saggezza che nella vita ho sfiorato appena e subito perso (1985).

(Italo Calvino)

L’antimafia ha i suoi costi

Fare giornalismo antimafia e fare lotta, oggi come ieri, è possibile solo a costo di rinunciare a una vita “normale”. Non tanto per i rischi fisici – che liberamente si accettano – ma per l’estromissione dai principali circuiti politici e professionali. Non è un prezzo troppo alto, considerando gli obiettivi. Ma il prezzo è ancora tale, ed è bene che non ci siano equivoci su di esso.

(Riccardo Orioles, qui)

Poveri (anche) sanitari

In Italia dal 2006 al 2013 è aumentata la povertà sanitaria in media del 97%: sono aumentati i cittadini che hanno difficoltà ad acquistare i medicinali anche quelli con prescrizione medica. Se prima la crisi colpiva le famiglie costringendole a fare a meno di alimenti, di vestiario e di generi di consumo, oggi è in difficoltà anche la capacità di procurarsi le medicine.

Se lo chiede e lo chiede la deputata Piazzoni (SEL)

Turismo culturale, l’ossessione italiana

Se ne parla sempre, ovunque, dai convegni ai discorsi da bar: siamo un Paese che continua a sfoderare poco pochissimo quasi niente le proprie bellezze eppure i dati generali danno sempre l’impressione di essere poco più che pareri personali. Per questo vale la pena di leggere il dossier di GH NETwork, in attesa delle conversione in legge del decreto Cultura:

Godot

Siamo fermi, come sospesi, ad aspettare che ci dicano quando hanno deciso di smettere di aspettare per votare un procedimento che è già stabilito per legge (scritta e votata da loro, eh). Stiamo qui a leggere paginate di giornali sugli umori (raccontati ‘de relato’) del Cavaliere che ce l’ha oggi con Napolitano e domani con il PD. Sullo sfondo il Governo sfodera lo spread come spada di Damocle per non fare cadere il Governo parlando di ‘responsabilità’ come nemmeno Monti nei suoi momenti peggiori. La legge elettorale intanto è sempre la stessa, la crisi ci dicono che sia finita (come la storiella dei ristoranti sempre pieni) e non si registrano novità rilevanti nella quotidianità dei lavoratori e cittadini.

Perderebbe la pazienza anche Godot, a vedere un nostro tg.

Un completo accantonamento dei principi-cardine dello Stato di diritto

Nella caserma di Bolzaneto, nei giorni successivi al G8 di Genova del 2001, il “clima” fu quello di un “completo accantonamento dei principi-cardine dello Stato di diritto”. La Cassazione motiva così la sentenza emessa il 14 giugno scorso, a carico degli agenti imputati per le violenze sui no global.

“Furono negati cibo e acqua” ai giovani fermati. “Fu vietato loro anche di andare in bagno e dovettero urinarsi addosso”. Un “trattamento gravemente lesivo della dignità delle persone”. Accuse pesanti quelle scritte di giudici della Cassazione.

“Vessazioni continue e diffuse in tutta la struttura” quelle a cui vennero sottoposti i no global reclusi. Non si trattò di “momenti di violenza che si alternavano a periodi di tranquillità – osservano gli ‘ermellini’ – ma dell’esatto contrario”. Un clima violento che sfociò nella costrizione rivolta ai fermati di inneggiare al fascismo.

In quei giorni caldi di luglio, la caserma di Polizia di Bolzaneto si trasformò in un “carcere provvisiorio” dove lo Stato di diritto fu soffocato da “un’atmosfera di soverchiante ostilità” a cui tutti, o quasi tutti, gli agenti contribuirono distribuendo violenza fisica e psicologica su ogni recluso: “Non c’erano celle dove non volassero calci e pugni e schiaffi” al minimo tentativo di protesta.

La Cassazione punta il dito contro chi era preposto al comando: “Non è da dubitarsi – scrivono i magistrati della Suprema corte – che ciascuno dei comandanti dei sottogruppi, avendo preso conoscenza di quanto accadeva, fosse soggetto all’obbligo di impedere l’ulteriore protrarsi delle consumazioni dei reati”. Cosa che non avvenne in quell’isola senza diritto in cui era stata trasformata la caserma di Bolzaneto.